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USO E ABUSO DEI “TERMINI DIMIDIATI” NEL PROCESSO AMMINISTRATIVO

USO E ABUSO DEI “TERMINI DIMIDIATI”  NEL PROCESSO AMMINISTRATIVO

del Prof. Avv. Pietrangelo Jaricci

 

Una recente decisione della Sezione V del Consiglio di Stato, n. 03722 del 27 luglio 2017 – dopo avere discettato sull’istituto della revocazione con considerazioni tutt’altro che convincenti – ha nuovamente affrontato il problema dell’applicabilità dei termini dimidiati nella proposizione dell’appello per i giudizi di ottemperanza.

La decisione di cui trattasi, riportandosi pedissequamente a quella della Sezione III, n. 5021 del 20 settembre 2012, ha ritenuto che “è divenuto sufficientemente chiaro (!) che, nel rito dell’ottemperanza, l’eccezione alla regola generale del dimezzamento dei termini processuali è circoscritta al solo giudizio di primo grado”.

Infatti, l’art. 87, comma 3, c.p.a., a seguito della novella del 2011, espressamente dispone che “nei giudizi di cui al comma 2, con esclusione dell’ipotesi di cui alla lettera a), e fatto salvo quanto disposto dall’articolo 116, comma 1, tutti i termini processuali sono dimezzati rispetto a quelli del processo ordinario, tranne, nei giudizi di primo grado, quelli per la notificazione del ricorso introduttivo, del ricorso incidentale e dei motivi aggiunti”. Se ne deduce pertanto l’estrema chiarezza (repetita iuvant) dell’eccezione posta alla dimidiazione, esclusivamente riferita alla notificazione di atti del primo grado di giudizio e non estendibile all’atto di appello (sic!).

Se questa interpretazione può trovare diritto di cittadinanza nel giudizio di primo grado, ben altra soluzione deve valere per il processo di appello al fine di non incorrere in un disorientante aporema.

Dopo tale premessa, è anzitutto doveroso dare la parola alle fonti.

L’art. 87, comma 3, del Libro II, del codice del processo amministrativo dispone che “nei giudizi di cui al comma 2…tutti i termini processuali sono dimezzati rispetto a quelli del processo ordinario, tranne, nei giudizi di primo grado, quelli per la notificazione del ricorso introduttivo, del ricorso incidentale e dei motivi aggiunti”.

L’art. 114, comma 9, del Libro IV, prescrive che “i termini per la proposizione delle impugnazioni sono quelli previsti nel Libro III”.

L’art. 92, comma 1, del Libro III, cui appunto l’art. 114 rinvia, prevede che, “salvo quanto diversamente previsto da speciali disposizioni di legge, le impugnazioni si propongono con ricorso e devono essere notificate entro il termine perentorio di 60 giorni decorrenti dalla notificazione della sentenza”. Per il successivo comma 3, “in difetto della comunicazione della sentenza”, l’appello deve essere notificato entro sei mesi dalla pubblicazione della stessa.

Orbene, è incontrovertibile che le parti devono essere poste in grado di avere certezze specie riguardo al regime dei termini processuali ed in tale prospettiva devono essere lette le disposizioni del codice.

Tornando per un momento all’art. 114, comma 9, c.p.a. tale norma, relativa al giudizio di ottemperanza, rinvia, come già accennato, quanto ai termini per la proposizione delle impugnazioni, a “quelli previsti nel Libro III” del codice, facendo salvo “quanto diversamente previsto da speciali disposizioni di legge”: disposizioni “speciali” che non esistono né per il giudizio di primo grado, né per l’appello.

Un meditato e condivisibile orientamento giurisprudenziale ritiene che l’appello, nel giudizio di ottemperanza, sia soggetto al termine ordinario in quanto il dimezzamento dello stesso, incidente sul diritto di difesa, ha indubbio carattere eccezionale ed è, quindi, di stretta interpretazione ai sensi dell’art. 14 delle preleggi. Il dimezzamento, proprio per tale suo carattere, deve essere previsto in modo esplicito dalla legge o, comunque, essere dalla stessa univocamente desumibile (tra le tante, Cons. Stato, Sez. VI, 10 marzo 2011, n. 1551; Id., Sez. V, 22 maggio 2012, n. 2966; Id., Sez. IV, 19 marzo 2013, n. 1603).

Né tale conclusione può essere smentita dalla previsione dell’art. 92, comma 1, laddove sono fatte salve le diverse “speciali disposizioni di legge”, risultando tale rinvio a ipotetiche “speciali disposizioni” chiaramente esterno al codice (sul punto, R. Amadeo, Commento art. 114, in F. Caringella – M. Protto, Codice del nuovo processo amministrativo, 2^ ed., Roma, 2012, 1115).

Infatti, i rinvii ad altre norme del codice richiamano sempre specifici articoli di quest’ultimo (ad es., art. 119, comma 1, lett. a; art. 116; art. 117; art. 104; art. 85). Viceversa, la norma in esame reca “un riferimento a contenuto informativo”, diverso dal rinvio in senso proprio.

Invero, dalla lettura coordinata delle tre norme in esame (artt. 114, 92 e 87), non si può prescindere dal dato sistematico secondo cui l’art. 87 è inserito nel Libro II dedicato al “Processo amministrativo di primo grado”, l’art. 92 è contenuto nel Libro III che disciplina le impugnazioni e l’art. 114 è inserito nel Libro IV relativo a  “Ottemperanza e riti speciali”.

Una inconsistente interpretazione di siffatte norme fornisce pure la sentenza della Sezione V del Consiglio di Stato, n. 2036 del 1° aprile 2011, ben lontana dalla lettera e dal significato sostanziale delle stesse, che denota un inadeguato approccio al problema.

A differenza della disciplina antecedente al codice che sostanzialmente estendeva il regime del giudizio innanzi al Consiglio di Stato a quello davanti al TAR, con il codice del processo amministrativo si è avuta un’inversione di tendenza nel senso che il legislatore ha assicurato una disciplina completa e coerente per il primo grado, limitando, con la previsione dell’art. 38 c.p.a., la possibilità di deroghe al modello generale nelle sole ipotesi di riti speciali (ivi incluso quello dell’ottemperanza) e delle impugnazioni (A. Quaranta – V. Lopilato, Il processo amministrativo, Milano, 2011). Deroga rinvenibile nel caso in esame atteso che l’art. 114, comma 9, rinvia espressamente al Libro III a proposito dei termini per la proposizione delle impugnazioni.

Una diversa conclusione incontrerebbe un ostacolo insormontabile nelle inequivoche disposizioni di cui ai più volte ricordati artt. 114, comma 9, e 92, comma 1, del codice.

Né, nella soggetta materia, possono fare testo decisioni frettolose e non adeguatamente motivate, che hanno erroneamente ritenuto l’inciso parentetico “salvo quanto diversamente previsto da speciali disposizioni di legge” riferito ad altra o ad altre norme del codice e non, invece, ad altra fonte normativa al di fuori del codice (specie perché una “speciale disposizione di legge” nel codice non esiste).  Differentemente opinando, non avrebbe alcun significato l’art. 114, comma 9, del Libro IV il quale, con il rinvio al Libro III, funge da vera e propria norma di chiusura riguardo ai termini per la proposizione delle impugnazioni in materia di ottemperanza.

A tale proposito, vengono alla mente le profonde riflessioni di un autorevole filosofo del diritto il quale si domandava se è questa l’epoca in cui al diritto che trova la sua fonte nella legge si contrappone il diritto del caso per caso, il diritto libero, il diritto funzionale.

Se così concepito, il diritto perde la sua oggettività e diviene semplicemente una posizione di volontà soggettiva, una posizione immediata e irrelata. Non che la decisione del giudice, manifestazione del suo volere, non possa avere valore di norma per coloro verso i quali si dirige, ma non ha più, né potrà mai avere valore di legge (W. Cesarini Sforza, Crisi della libertà e crisi della legge, in Idee e problemi di filosofia giuridica, Milano, 1956, 181 ss.).

E ancora. L’art. 87, comma 3, è in evidente correlazione logico-sistematica con l’art. 92, comma 1: invero, sia l’uno che l’altro per i ricorsi introduttivi, rispettivamente in primo grado ed in grado di appello, escludono la dimidiazione del termine. Dimidiazione che, avuto riguardo all’odierna tempistica dei giudizi, si risolve, in pratica, in una avveniristica aspirazione, conseguenza di un campo visivo decisamente ridotto, senza neppure considerare che l’azione di ottemperanza si prescrive con il decorso di dieci anni dal passaggio in giudicato della sentenza.

Una diversa interpretazione è da respingere con fermezza specie perché – è bene ribadirlo – non confortata in alcun modo dalla lettera della legge e renderebbe comunque ancor più aggrovigliata l’intera struttura del codice, pur se non v’è dubbio che il codice sia un prodotto tutt’altro che perfetto, nonostante i numerosi rattoppi in corso d’opera. Altro che riforma epocale!

Ciò, tuttavia, non giustifica interpretazioni immaginifiche – che nulla hanno a che vedere con la nitidezza e la conseguenzialità del dettato normativo – unicamente tese a trovare nelle norme quello che non c’è e non può esserci.

D’altronde, proprio a proposito dell’art. 114, comma 9, e del regime dei termini per l’impugnazione delle sentenze in materia di ottemperanza è stato autorevolmente invocato l’intervento chiarificatore del legislatore (R. Garofoli – G. Ferrari, Codice del processo amministrativo, 2^ ed., Roma, 2012, 1413).

Da tempo, chi lamenta la frantumazione del nostro ordinamento e, quindi, l’oscurità della legislazione e l’insicurezza dei rapporti giuridici, ritiene – e non a torto – che il nostro diritto è diventato capriccioso e instabile, alluvionato da regolette minute e di dettaglio; perciò, sostanzialmente impenetrabile, un oggetto misterioso per gli stessi addetti ai lavori (M. Ainis, Privilegium, Milano, 2012, 141 ss.).

Ma ciò non toglie che la tutela del cittadino deve essere sempre preminente, costi quel che costi. E a questo deve comunque tendere l’interpretazione delle norme. Se così non fosse, tutto diventa inutile e si rischia di precipitare inesorabilmente in un nuovo Medioevo dal quale sarebbe forse arduo uscirne indenni.

La giustizia c’è per dare a tutti la certezza del diritto, non nebulosi teoremi, ispirati sovente da insondabili finalità, frutto di interpretazioni surreali o, addirittura, allucinatorie.

Sennonchè, talune decisioni di appello, che non vale la pena nemmeno di citare, hanno fatto semplicisticamente riferimento a norme che regolano esclusivamente il processo di primo grado, contenute nel Libro II, ignorando, senza adeguata motivazione, l’art. 114, comma 9, contenuto nel Libro IV, titolo I, sul giudizio di ottemperanza, il quale, giova ribadirlo, prescrive che “i termini per la proposizione delle impugnazioni sono quelli previsti nel Libro III” e, quindi, 60 giorni dalla notificazione della sentenza ovvero 6 mesi dalla pubblicazione della stessa (art. 92, commi 1 e 3) (in dottrina, per tutti, E. Casetta, Manuale di diritto amministrativo, 14^ ed., Milano, 2012, 972).

Ogni altra interpretazione della normativa vigente in materia non è consentita specie perché – come insegnava autorevolmente Calamandrei – non possono essere tollerate, nel nostro ordinamento, soluzioni aberranti chiaramente contra cives.

Come è stato correttamente osservato, oggi viviamo in una società liquida ma, nel caso in esame, è principalmente mancata la prudenza nel giudicare. La prudenza, infatti, è la virtù maggiormente richiesta a chi deve decidere e l’aspetto più rilevante della prudenza è saper vedere le situazioni come realmente sono, non come le fa sembrare o come le deforma ogni possibile preconcetto o interferenza (S. Zamagni, Prudenza, Bologna, 2015, 35).

Parimenti l’eccesso di formalizzazione del ragionamento giudiziario può produrre un distacco dalla vita reale e soprattutto dalle regole che ne governano l’interpretazione. Pertanto, il formalismo dei magistrati ha ucciso il buonsenso come ha ben puntualizzato C. Carofiglio in una intervista rilasciata ad un noto quotidiano il 5 ottobre 2015.

Ma il tempo nichilista che viviamo non è certamente l’humus adatto alla dignità delle persone, pur così proclamata, anzi ostentata, che dovrebbe valere in assoluto e che, invece, è continuamente relativizzata, ridotta, fino all’annullamento (G. Zagrebelski, Moscacieca, ed. Laterza, 2015, 96 s.). Onde non destano più meraviglia eventuali sentenze prive di buonsenso che, in quanto tali, incidono in negativo sulla dignità umana più di qualunque altra manchevolezza: dignità intesa come dotazione, qualità innata, sottratta alla fluttuazione degli eventi e delle culture.

Né può essere tirata in ballo la logica giuridica. Niente di più improprio e per rendersene conto sono più che sufficienti le dense pagine che Francesco Carnelutti ha dedicato a più riprese all’argomento. D’altra parte, non sempre la logica è suffragata dal diritto positivo. Infatti, spesso il diritto positivo spezza il procedimento logico (F. Merusi, La legalità amministrativa, Bologna, 2012, 155).

Ma giova ancora ribadire (S. Baccarini, Giudizio amministrativo e abuso del processo, in Dir. proc. amm., 2015, 1207, 1221 s.), che “uno strumento processuale non può essere usato in maniera distorta, per fini diversi da quelli suoi propri, con pregiudizio del processo… I giudici devono resistere alla fuga in avanti verso soluzioni dirigistiche di tipo autoritario e cercare soluzioni alle questioni processuali nei singoli istituti codicistici. Poiché dietro ogni regola c’è sempre un principio, è tutt’altro che scontato che i principi valgono più delle regole. D’altronde anche l’interpretazione costituzionalmente orientata è possibile quando la legge consente di enucleare più significati, non per sostituire una norma con una diversa”. Come è, invece, avvenuto nel caso di cui ci occupiamo.

Su quest’ultimo punto recentemente anche I. Pagni (La giurisdizione tra effettività ed efficienza, in Dir. proc. amm., 2016, 404), rileva come la Corte costituzionale si sia adoperata, nel tempo, perché il legislatore assicurasse sempre la correlazione indissolubile tra il riconoscimento sostanziale di un diritto o di un interesse, giuridicamente protetti, e le possibilità di una loro piena tutela nel processo, attraverso una adeguata gamma di mezzi di attuazione o di realizzazione giurisdizionale, onde il diritto contemplato dall’art. 24 Cost. ha assunto una connotazione sempre più ampia. Dal che discende il principio per cui il processo deve dare al titolare di una situazione soggettiva tutto quello e proprio quello che il diritto sostanziale riconosce. Quindi, “il giusto processo si pone come correttivo di una legalità processuale carente” (F. Merusi, La legalità amministrativa, cit., 113).

Infine, non va omesso di evidenziare la condivisibile riflessione di S. Baccarini (Processo amministrativo e ordine di esame delle questioni, in Dir. proc. amm., 2016, 770), che “il processo amministrativo, come l’essere umano, continua a rivolgere a se stesso gli interrogativi di sempre: chi sono; dove vado; qual’è il mio scopo. Le risposte dei giudici non sono sempre legate da un filo di rigorosa conseguenzialità logica e storica, tanto che alcune decisioni sono state commentate con un tagliente un passo avanti e due indietro”.

Ma il nostro è purtroppo un Paese “afflitto da una sorta di amnesia collettiva” (S. Settis, Costituzione!, Torino, 2016, 191) perché dimentica troppo spesso di tutelare adeguatamente e sempre i diritti dei cittadini. Di qui la necessità impellente di rimettere in circolo più che le speranze, le certezze, principalmente nel settore della giustizia.

In definitiva, in un codice che ha preteso di regolamentare ogni aspetto del processo amministrativo l’inserimento dei termini “dimidiati” ha creato soltanto caos e, quindi, deleterie incertezze. Meglio sarebbe stato, limitatamente a talune materie, prevedere termini specifici e più contenuti rispetto a quelli generali evitando, tra l’altro, continui rinvii e riferimenti ad altre norme che contribuiscono a rendere ancor più paludosa l’impalcatura del codice. Per quanto attiene, poi, al giudizio di ottemperanza non si comprende perché il termine ordinario per ricorrere in primo grado diverrebbe, in forza di una esoterica logica, dimidiato per il giudizio di appello, nonostante la precisa, esplicita previsione del codice in senso contrario. E tale arcana mutatio appare ancor più deleteria anche perché il ricorso sia in primo, sia in secondo grado, nella prassi, viene deciso in tempi tutt’altro che tempestivi, con la memoria degli accadimenti in buona parte avvizzita.

Ma forse – e senza forse – la dimidiazione del termine per la proposizione dell’appello nei giudizi di ottemperanza costituisce comodo espediente per evitare di affrontare l’esame del merito di annose vicende, oppure per contribuire alla riduzione del ponderoso arretrato che affligge anche i ruoli di Palazzo Spada.

Purtroppo, dinanzi alla Giustizia (di ogni ordine e grado) può accadere di tutto ed il contrario di tutto, nonostante lo spezzatino di mininterventi riformatori che, a ben vedere, non riformano nulla, ma anzi contribuiscono a rendere sempre più avventurosa la tutela delle posizioni giuridiche del cittadino.

Tornando a quella che costa fatica a qualificare “sentenza”, possiamo amaramente concludere che, pur se “Giustizia mosse il mio alto Fattore… non ti crucciare: vuolsi così colà dove si puote ciò che si vuole, e più non dimandare” (Dante Alighieri, La divina commedia, Inferno, canto III, 4, 94-96).

Per concludere non possiamo non rinnovare l’accorato auspicio che nessuno sia costretto a dover riporre le uniche speranze di giustizia in “un giudice a Berlino” come accadde al malcapitato mugnaio Arnold (che non è affatto mera leggenda, come ampiamente documentato nell’opera di E. Broglio, il Regno di Federico di Prussia, detto il Grande, Roma, 1880).

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