Responsabilità amministrativa derivante da “mobbing”: diversa qualificazione dell’elemento psicologico da parte del giudice contabile rispetto alla prospettazione della Procura.
di Antonio Vetro, Presidente on. della Corte dei conti
1) La nozione di mobbing, secondo la Cassazione.
Come statuito dalla Cassazione con sentenza n. 3785/2009, per mobbing si intende comunemente una condotta del datore di lavoro o del superiore gerarchico, sistematica e protratta nel tempo, tenuta nei confronti del lavoratore nell’ambiente di lavoro, che si risolve in sistematici e reiterati comportamenti ostili, che finiscono per assumere forme di prevaricazione o di persecuzione psicologica, da cui può conseguire la mortificazione morale e l’emarginazione del dipendente, con effetto lesivo del suo equilibrio fisiopsichico e del complesso della sua personalità. Ai fini della configurabilità della condotta lesiva del datore di lavoro sono pertanto rilevanti i seguenti elementi: a) la molteplicità dei comportamenti a carattere persecutorio, illeciti o anche leciti se considerati singolarmente, che siano stati posti in essere in modo miratamente sistematico e prolungato contro il dipendente con intento vessatorio; b) l’evento lesivo della salute o della personalità del dipendente; c) il nesso eziologico tra la condotta del datore di lavoro o del superiore gerarchico e il pregiudizio all’integrità psico-fisica del lavoratore; d) la prova dell’elemento soggettivo, cioè dell’intento persecutorio. Tale decisione è stata ribadita dalla Cassazione con sentenza n. 17698/2014, con la precisazione che i comportamenti a carattere persecutorio possano essere posti in essere direttamente da parte del datore di lavoro ovvero da un suo preposto o anche da altri dipendenti, sottoposti al potere direttivo dei primi e che l’elemento soggettivo, cioè l’intento persecutorio, sia unificante di tutti i comportamenti lesivi.
2) La nozione di mobbing, secondo il Consiglio di Stato.
Secondo il costante orientamento del Consiglio di Stato, l’esistenza di un intento persecutorio, al fine di integrare il c.d. mobbing, presuppone la necessaria sussistenza, nei confronti del dipendente, di un complessivo disegno, da parte dell’Amministrazione, preordinato alla vessazione e alla prevaricazione, che deve sempre essere verificato dal giudice amministrativo, anche mediante l’esercizio dei suoi poteri officiosi, in quanto “la pur accertata esistenza di uno o più atti illegittimi adottati in danno di un lavoratore non consente di per sé di affermare l’esistenza di un’ipotesi di mobbing, laddove il lavoratore stesso non alleghi ulteriori e concreti elementi idonei a dimostrare l’esistenza effettiva di un univoco disegno vessatorio o escludente in suo danno” (v., ex plurimis, Cons. St., sez. IV, 6.8.2013, n. 4135).
Con sentenza n. 28/2015 il Consiglio di Stato, Sez. III, ha ulteriormente precisato che la dequalificazione non si può configurare come mobbing, se non si riesce a dimostrare l’esistenza di un intento persecutorio da parte del datore di lavoro. Il demansionamento, comunque, dà diritto, indipendentemente dalla sussistenza anche del mobbing, al risarcimento qualora provochi danni morali e professionali, il cui onere di allegazione incombe al lavoratore. Dal canto suo, il giudice di merito può determinare l’entità del risarcimento in via equitativa, con processo logico-giuridico attinente alla formazione della prova, anche presuntiva, in base agli elementi di fatto relativi alla qualità e quantità della esperienza lavorativa pregressa, al tipo di professionalità colpita, alla durata del demansionamento, all’esito finale della dequalificazione e alle altre circostanze del caso concreto.
3) Responsabilità amministrativa derivante da mobbing.
Nella recente sentenza n. 8/2015 la Sezione giurisdizionale della Corte dei conti per la Sardegna si è occupata di un caso di mobbing, facendo applicazione dei principi affermati dalla suprema Corte. Nel caso esaminato, il sindaco ed un dipendente comunale sono stati condannati al risarcimento di un danno di euro 118.350,71 provocato all’erario di un Comune a seguito di un’attività di mobbing, posta in essere dai predetti, di cui era stata vittima una dipendente comunale, danno consistente, in particolare, nelle somme ad essa corrisposte per il risarcimento dei pregiudizi patiti nell’ambito del rapporto di lavoro, in quelle pagate per la difesa legale dell’ente, nei due gradi della causa intentata dalla dipendente, per consulenze ecc. La dipendente era stata privata delle funzioni direttive, svolte sino ad allora, coerenti con le mansioni proprie della qualifica posseduta, secondo il contratto collettivo nazionale di lavoro del personale degli enti locali e posta in una condizione deteriore in cui le mansioni assegnatele non si differenziavano, di fatto, da quelle proprie della qualifica inferiore.
In sentenza è stata condivisa la prospettazione in diritto della vicenda da parte della Procura, salvo per quanto concerneva l’elemento psicologico, in quanto l’attore pubblico aveva sostenuto la tesi che i convenuti avessero agito con colpa grave, chiedendo conseguentemente la loro condanna pro quota, mentre, ad avviso della Sezione, nel comportamento dei convenuti andava invece riscontrato l’elemento del dolo, in quanto il mobbing è un comportamento persecutorio animato da un preciso intento illecito nei confronti della vittima, tanto è vero che l’elemento soggettivo, consistente per l’appunto nell’intento persecutorio unificante di tutti i comportamenti lesivi, è considerato costitutivo della fattispecie (Cass. n. 17698/2014). Pur ammettendosi, in via teorica, che all’interno dell’amministrazione datrice di lavoro possano concorrere nell’illecito, accanto a quelle dolose, condotte a vario grado colpose (ad esempio di coloro che, pur avendo cognizione della condotta mobbizzante imputabile ad altri soggetti, ed avendo i poteri per farla cessare, se ne astengano), tuttavia, nel caso di specie, gli elementi di giudizio disponibili inducevano a ritenere che il comportamento di entrambi i convenuti fosse stato animato da un palese e preciso intento vessatorio nei confronti della vittima, con la conclusione che entrambi i convenuti avessero scientemente contravvenuto ai propri doveri, con in più la necessaria consapevolezza, quanto meno in termini di volontaria accettazione (c.d. dolo eventuale), delle conseguenze pregiudizievoli, per l’erario pubblico, delle loro azioni ed omissioni.
Così riqualificato l’elemento psicologico in difformità alla richiesta della Procura, la Sezione si è posta il problema se si possano conseguentemente condannare i convenuti al risarcimento del danno non pro parte, ma in solido tra loro, come previsto dall’art. 1, comma 1-quinquies della legge n. 20/1994. Richiamato un precedente analogo (sentenza n. 570/2012), nel quale si era però statuito che la decisione non potesse eccedere il limite posto dalla domanda attrice, la Sezione ha ritenuto che tale orientamento andasse rivisto, tenuto conto che il giudice contabile può operare una qualificazione dell’elemento psicologico anche difformemente da quanto prospettato dal Pubblico Ministero contabile, che la condanna del convenuto a titolo di dolo non comporta violazione della corrispondenza tra chiesto e pronunciato, poiché il giudice è vincolato in relazione ai fatti allegati e non alla loro qualificazione giuridica, che la condanna in solido invece che pro parte non determina vizio di ultrapetizione, atteso che non viene ad essere ampliato il petitum, né viene mutata la causa petendi.
Peraltro, ha osservato la Sezione, occorre tener conto che la Cassazione, con sentenza n. 4018/1996, ha statuito che il giudice al quale sia stata richiesta la condanna di più convenuti, pro quota, al pagamento di una obbligazione solidale non può, per le combinate norme di diritto sostanziale e processuale dettate rispettivamente dall’art. 1311 cod. civ. e 112 cod. proc. civ., pronunciare condanna dei convenuti medesimi in solido e per l’intero.
Secondo la Sezione, tale massima appare condivisibile se posta in relazione ad un processo governato dal principio dispositivo, nel quale, come evidenziato dal richiamo operato alla norma di diritto sostanziale, è rimesso alla facoltà del creditore di scegliere se chiedere al singolo debitore l’intero ovvero solo la parte a lui imputabile. Principio non estensibile al giudizio di responsabilità amministrativa, nel quale l’azione proposta dal Pubblico Ministero contabile è pubblica, indisponibile ed non retrattabile. Di conseguenza deve ritenersi che i limiti al potere decisorio del giudice indotti dalla domanda attrice non possano essere connessi ad un inesistente potere del requirente pubblico di esercitare facoltà proprie di un soggetto che abbia disponibilità del proprio diritto, ma siano giustificati solo in relazione al rispetto del diritto di difesa del convenuto, costituzionalmente tutelato. Diritto che sarebbe violato, ad esempio, ove la condanna fosse pronunciata per un danno diverso e/o superiore o per fatti non allegati nella domanda. Tali circostanze non ricorrono nella fattispecie e pertanto non vi sono motivi che ostino a che la condanna dei convenuti, sulla base della riqualificazione dell’elemento psicologico, sia pronunciata in conformità alla disposizione di legge, secondo la quale la responsabilità di coloro che abbiano agito con dolo è solidale.
Con riguardo, infine, alla incidenza causale o concausale di condotte di soggetti rimasti estranei al giudizio, sostenuta dalla difesa al fine di sollecitare un’estensione del giudizio nei loro confronti, la Sezione ha ritenuto che essa possa essere ammessa con riguardo ai componenti della Giunta presieduta dal sindaco, avendo gli stessi contribuito, con il loro voto favorevole, all’approvazione dell’atto di riorganizzazione dei servizi comunali che ha consentito ai convenuti di perseguire il loro intento di “mobbizzare” la dipendente. Tuttavia, l’integrazione del contraddittorio non è stata ammessa dalla Sezione in quanto “da tale affermazione non conseguono effetti favorevoli sulla posizione dei convenuti, essendo il loro comportamento connotato da dolo” ed inoltre “stante l’inutile prolungamento dei tempi di definizione della causa che ne conseguirebbe”.
4) Osservazioni sulla sentenza n. 8/2015 della Sezione per la Sardegna.
Trattasi di pregevole sentenza, da condividere, in linea di massima, sia in punto di fatto che di diritto, ad eccezione di alcune argomentazioni, ivi contenute, che suscitano perplessità.
- A) La Cassazione, con la citata sentenza n. 4018/1996, si è riferita al caso nel quale “l’attore abbia chiesto la condanna di più convenuti soltanto pro quota, pur potendo richiederne la condanna solidale”. Orbene, nella presente fattispecie la Procura regionale, una volta qualificata come colposa la condotta dei convenuti, non poteva richiedere la condanna solidale. Infatti, ai sensi della legge n. 20/1994, art. 1, “se il fatto dannoso è causato da più persone, la Corte dei conti, valutate le singole responsabilità, condanna ciascuno per la parte che vi ha preso” mentre “nel caso di cui al comma 1-quater i soli concorrenti che abbiano conseguito un illecito arricchimento o abbiano agito con dolo sono responsabili solidalmente”. In tale sentenza è scritto testualmente: “ove l’attore abbia chiesto la condanna di più convenuti soltanto pro quota, pur potendo richiederne la condanna solidale,il giudice, per le combinate norme di diritto sostanziale e processuale dettate rispettivamente dagli artt. 1311 cod. civ. e 112 cod. proc. civ., non può emettere pronuncia di condanna per l’intero ed in solido a carico dei convenuti (sent. n. 1602-62)”. In definitiva, il principio affermato nella sentenza della Cassazione non sembra abbia rilevanza ai fini della soluzione del quesito posto dalla Sezione, le cui conclusioni sono comunque da ritenere esatte.
- B) Non sembra da condividere la tesi secondo cui potrebbe ammettersi, sia pure solo “in via teorica”, la sussistenza di condotte a vario grado colpose, accanto a quelle dolose, individuate ad esempio nei confronti di coloro che, pur avendo cognizione della condotta “mobbizzante” imputabile ad altri soggetti, ed avendo i poteri per farla cessare, se ne astengano. Si ritiene, infatti, che anche in tali casi la condotta sia da qualificare come dolosa: d’altra parte, nella stessa sentenza, sono state imputate ai convenuti azioni “mobizzanti” sia di natura commissiva che omissiva.
- C) Secondo la Sezione, il diritto di difesa del convenuto sarebbe violato ove la condanna fosse pronunciata per un danno diverso e/o superiore o per fatti non allegati nella domanda. Tale affermazione è senz’altro condivisibile riguardo al “danno diverso” o ai “fatti non allegati alla domanda”, mentre dà adito a dubbi riguardo al “danno superiore”, purché prodotto nell’ambito del medesimo fatto lesivo contestato dalla Procura.
Sul punto, nell’articolo dello scrivente in data 26 marzo 2013 (“La problematica relativa alla ultrapetizione, con particolare riguardo al processo contabile”), si è premesso che, secondo la Cassazione (sent. n. 1083/2011), le variazioni puramente quantitative del petitum sono consentite in quanto, se non alterano i termini sostanziali della controversia e non introducono nuovi temi di indagine, non comportano alcuna violazione del principio del contraddittorio né menomazione del diritto di difesa dell’altra parte. Nel commentare poi la sentenza della Sezione Abruzzo n. 414/2012, è stato prospettato il problema se il giudice potesse condannare il responsabile all’intero danno erariale che la Procura aveva l’obbligo di richiedere e non alla sola quota percentuale effettivamente richiesta e si è concluso esprimendosi l’avviso che la Sezione non potesse andare oltre il thema decidendum – nella fattispecie il risarcimento del danno conseguente all’esecuzione di lavori contra legem – ma potesse liberamente interpretare la normativa applicabile per determinare la violazione della stessa ed il nocumento economico patito dalla p.a., da porre a carico del presunto responsabile, anche in difformità, per eccesso o per difetto, alle richieste della Procura sull’entità del danno erariale. In subordine si è prospettata la competenza della Sezione, in perfetta analogia con quanto avviene nell’ipotesi di integrazione del contraddittorio, di emettere ordinanza, compiutamente motivata, con la quale ordinare al p.m. di contestare al presunto responsabile la violazione della normativa effettivamente applicabile ed il relativo danno erariale, nella misura eventualmente diversa rispetto a quella indicata nell’atto di citazione.
- D) La Sezione ha ammesso l’incidenza causale o concausale nella produzione dell’evento lesivo nella condotta dei componenti della Giunta presieduta dal sindaco, avendo gli stessi contribuito, con il loro voto favorevole, all’approvazione dell’atto di riorganizzazione dei servizi comunali che aveva consentito ai convenuti di perseguire il loro intento di “mobbizzare” la dipendente. Tuttavia, l’integrazione del contraddittorio non è stata ammessa dalla Sezione in quanto “da tale affermazione non conseguono effetti favorevoli sulla posizione dei convenuti, essendo il loro comportamento connotato da dolo” ed inoltre “stante l’inutile prolungamento dei tempi di definizione della causa che ne conseguirebbe”.
In altri termini, secondo la Sezione, la condotta dei componenti della Giunta avrebbe concorso a determinare il danno ma la loro chiamata in causa non avrebbe comportato “effetti favorevoli sulla posizione dei convenuti”, in quanto, essendo il loro “comportamento connotato da dolo” mentre, come sembra di capire, quello imputabile ai componenti della Giunta sarebbe connotato da colpa, costoro potevano essere chiamati a rispondere della quota del danno loro imputabile solo in via sussidiaria. Di qui la decisione di non ordinare l’integrazione del contraddittorio, anche per evitare “l’inutile prolungamento dei tempi”.
Su punto sono prospettabili notevoli motivi di perplessità. Per prima cosa sembra che la condotta dei componenti della Giunta sia da qualificare come dolosa, se effettivamente preordinata alle successive azioni “mobizzanti” dei convenuti. Comunque, ipotizzandosi la natura colposa, considerata la conseguente responsabilità sussidiaria, tale circostanza non avrebbe effettivamente comportato “effetti favorevoli sulla posizione dei convenuti”, ma al contempo non avrebbe comunque causato alcuna preclusione per l’integrazione del contraddittorio che la Sezione avrebbe potuto ordinare d’ufficio.
Né ciò avrebbe comportato “l’inutile prolungamento dei tempi”, ma al contrario avrebbe consentito un’efficace misura di salvaguardia per il pubblico erario, potendo la p.a. rivalersi sul patrimonio degli amministratori condannati pro quota, qualora non fosse andato a buon fine il risarcimento a carico dei convenuti per dolo.
Nell’articolo dello scrivente in data 2 marzo 2011 (“Il potere sindacatorio della Corte dei conti: l’integrazione del contraddittorio su disposizione del giudice contabile”) sono state svolte sul tema le seguenti considerazioni che è opportuno richiamare:
L’art. 47 del regolamento per la procedura nei giudizi innanzi alla Corte dei conti, approvato con r.d. n. 1038/1933, prevede che “chiunque abbia interesse nella controversia può intervenire in causa con atto notificato alle parti e depositato nella segreteria della Sezione. L’intervento può essere anche ordinato dalla Sezione, d’ufficio, o anche su richiesta del procuratore generale o di una delle parti”. La disposizione – come l’analoga norma contenuta nell’art. 107 c.p.c. – è perfettamente in linea con i principi del giusto processo. Non sembra logico affermare – sia pure in via ipotetica, ma in ultima analisi con caratteri di concretezza, – la responsabilità di un soggetto senza prima aver sentito le proprie ragioni giustificative che avrebbero anche potuto portare ad un diverso convincimento sull’esistenza o sul grado della responsabilità stessa. Inoltre, si osserva una manifesta violazione del diritto di difesa: un soggetto, cui non viene notificato alcun avviso di discussione di una causa che può interessare il suo onore e la sua reputazione, si trova coinvolto in giudizi di presunta colpevolezza, sia pure solo astrattamente sanzionata, per fatti che possono anche essere di natura infamante, senza avere la minima possibilità di difendersi. Anche se il p.m. ha comunque la possibilità di procedere alla citazione in giudizio di tali soggetti in un secondo momento – ma ciò non risulta sia mai avvenuto – questi avranno comunque una possibilità di difesa che potrebbe essere pregiudicata dal fatto che, sulla contestata vicenda, il giudice che dovrebbe esprimersi si è già pronunziato, sia pure nei confronti degli altri soggetti coinvolti. Devesi quindi aderire a quanto statuito dalla Sez. I App. con sentenza n. 407/08, che ha sottolineato “l’interesse di ottenere l’economia dei giudizi ed evitare i rischi di giudicati contraddittori in relazione a cause caratterizzate da elementi comuni, decise separatamente”. Nel caso deciso, i componenti dell’Ufficio di presidenza di un Consiglio regionale si sono visti imputare una condotta illecita senza avere alcuna possibilità di difesa, ed una corresponsabilità nella produzione del danno erariale senza che si sia tenuto conto degli eventuali elementi probatori che le parti interessate, ma non chiamate in giudizio, avrebbero potuto produrre e che avrebbero potuto comportare una diversa decisione. Indubbiamente è molto più rapido e sbrigativo un giudizio limitato alle sole parti chiamate in giudizio dalla Procura, ma questo non risponde ad esigenze di giustizia sostanziale, quando il giudice ravvisi ulteriori corresponsabilità che dovrebbero essere perseguite e non chiama in giudizio i presunti responsabili, ai sensi del citato art. 47 del regolamento approvato con r.d. n. 1038/1933, con la conseguenza paradossale – contraria a criteri costituzionali di ragionevolezza – che il contribuente e non il corresponsabile del danno erariale venga gravato dell’onere relativo alla quota a lui imputata.
Nella presente vicenda, peraltro, va sottolineato che tale “conseguenza paradossale” è solo eventuale, ma si potrà verificare qualora non si consegua il risarcimento posto a carico dei convenuti.