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L’insindacabilità nel merito delle scelte discrezionali nei giudizi contabili

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L’insindacabilità nel merito delle scelte discrezionali nei giudizi contabili, alla luce dei principi affermati dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), secondo l’interpretazione della Corte EDU di Strasburgo.

di Antonio Vetro, Presidente on. della Corte dei conti,

 

1) I limiti dell’insindacabilità secondo la giurisprudenza della Corte dei conti e della Cassazione.

L’art. 1, comma 1, della legge n. 20/1994 stabilisce che “la responsabilità dei soggetti sottoposti alla giurisdizione della Corte dei conti in materia di contabilità pubblica è personale e limitata ai fatti ed alle omissioni commessi con dolo o con colpa grave, ferma restando l’insindacabilità nel merito delle scelte discrezionali”.

Nei giudizi contabili una delle più frequenti eccezioni che vengono prospettate dai convenuti riguarda la asserita insindacabilità dei provvedimenti adottati e ritenuti causativi di danno erariale, in quanto riguardanti il merito di presunte scelte discrezionali.

Riguardo ai limiti di tale insindacabilità si è formata una copiosa giurisprudenza della Corte dei conti, in piena conformità alla giurisprudenza della Cassazione sotto indicata (fra le tante, vanno ricordate le sentenze Sez. III n. 570/2010 e n. 786/2013, Sez. II n. 367/2010, Sez. I n. 119/2011 e n. 806/2014, tutte citate nella recentissima sentenza n. 91/2016 della Sez. giurisdizionale Toscana).

La Cassazione a Sezioni unite, in sede di giudizi riguardanti i limiti della giurisdizione del giudice contabile, ha formulato convincenti indirizzi interpretativi in materia.

In particolare, con sentenze n. 14488/2003 e n. 7024/2006, ha chiarito che la nozione di discrezionalità è unitaria e non può subire allargamenti nel caso specifico del giudizio di responsabilità, nel quale il controllo della conformità a legge dell’azione amministrativa deve riguardare anche l’aspetto funzionale di quest’ultima, in relazione alla congruenza dei singoli atti rispetto ai fini imposti, in via generale o, in modo specifico, dal legislatore. L’art. 1 della legge n. 20/1994, deve, infatti, essere posto in correlazione con l’art. 1 della legge n. 241/1990, il quale stabilisce che l’esercizio dell’attività amministrativa deve ispirarsi a criteri di economicità e di efficacia, criteri che assumono rilevanza sul piano della legittimità, e non della mera opportunità. Pertanto, la violazione di tali criteri può assumere rilievo anche nel giudizio di responsabilità amministrativa. In particolare, non è imposto da alcuna ragione di ordine sistematico che il controllo di legalità nel giudizio di responsabilità amministrativa dinanzi al giudice contabile debba avere un contenuto meno ampio e debba essere meno penetrante di quanto avviene nel giudizio di legittimità sugli atti amministrativi, affidato al giudice amministrativo e, in via incidentale, al giudice ordinario.

Con sentenza n. 12902/2011 la Cassazione ha confermato che il giudice contabile è tenuto a verificare la compatibilità delle scelte amministrative con i fini dell’ente pubblico che, ai sensi dell’art. 1 della legge n. 241/1990, devono essere ispirati a criteri di economicità e di efficacia secondo il canone indicato nell’art. 97 Cost., per cui la verifica della legittimità dell’attività amministrativa non può prescindere dalla valutazione del rapporto tra gli obiettivi conseguiti e i costi sostenuti.

Dello stesso tenore sono le successive sentenze n. 831/2012, n. 12102/2013 e 25037/2013.

Tanto precisato in ordine ai principi affermati in materia nella giurisprudenza interna, prima di illustrare i limiti dell’insindacabilità alla luce della CEDU, secondo l’interpretazione della Corte EDU di Strasburgo, è opportuno chiarire in generale il rapporto fra norme convenzionali e norme nazionali.

 

2) La giurisprudenza della Corte costituzionale e della Cassazione sugli obblighi derivanti dal contrasto di norme interne con le norme pattizie della CEDU.

  1. La giurisprudenza della Corte costituzionale.

Numerose sono le sentenze della Consulta in materia: per brevità ne saranno citate solo alcune di particolare interesse.

Con sentenze n. 348/2007 e n. 349/2007, la Corte ha chiarito come le norme comunitarie debbano avere diretta applicazione in tutti gli Stati membri, ma che tale principio non riguardi le norme CEDU, pur rivestendo grande rilevanza, nella tutela dei diritti e delle libertà fondamentali delle persone. La peculiare rilevanza degli obblighi internazionali assunti con l’adesione alla Convenzione in esame risulta anche dal Preambolo al Protocollo n. 11, ratificato e reso esecutivo con legge n. 296/1997, di recepimento della nuova disciplina della Corte europea dei diritti dell’uomo, diretta a rafforzare l’efficacia della protezione dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali prevista dalla CEDU. Queste, peraltro, sono norme internazionali pattizie, che vincolano lo Stato, ma non producono effetti diretti nell’ordinamento interno. Il giudice comune non ha, dunque, il potere di disapplicare la norma legislativa ordinaria ritenuta in contrasto con una norma CEDU, poiché l’asserita incompatibilità tra le due si presenta come una questione di legittimità costituzionale, per eventuale violazione dell’art. 117, primo comma, Cost. (“La potestà legislativa è esercitata dallo Stato e dalle Regioni nel rispetto della Costituzione, nonché dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali”), di esclusiva competenza del giudice delle leggi. “Si deve riconoscere che il parametro costituito dall’art. 117, primo comma, Cost. diventa concretamente operativo solo se vengono determinati quali siano gli “obblighi internazionali” che vincolano la potestà legislativa dello Stato e delle Regioni. Nel caso specifico sottoposto alla valutazione di questa Corte, il parametro viene integrato e reso operativo dalle norme della CEDU, la cui funzione è quindi di concretizzare nella fattispecie la consistenza degli obblighi internazionali dello Stato”. La norma nazionale incompatibile con la norma della CEDU e dunque con gli “obblighi internazionali” di cui all’art. 117, primo comma, viola per ciò stesso tale parametro costituzionale.

Con sentenza n. 93/2010 la Corte ha confermato che, nel caso in cui si profili un eventuale contrasto tra una norma interna e una norma della CEDU, il giudice nazionale comune deve preventivamente verificare la praticabilità di una interpretazione conforme alla norma convenzionale e, ove tale soluzione risulti impercorribile, non potendo disapplicare la norma interna contrastante, deve proporre questione di legittimità costituzionale in riferimento al parametro costituzionale espresso dall’art. 117, primo comma, Cost., nella parte in cui impone la conformazione della legislazione interna ai vincoli derivanti dagli «obblighi internazionali».

Con sentenza n. 80/2011 la Consulta ha ulteriormente confermato la tesi espressa nelle sentenze sopra citate, pur tenendo conto che l’art. 6 del Trattato sull’Unione europea è stato incisivamente modificato dal Trattato di Lisbona, con il rafforzamento dei meccanismi di protezione dei diritti fondamentali, prevedendo il nuovo art. 6, al paragrafo 1, che l’Unione riconosce i diritti, le libertà e i principi sanciti nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, al paragrafo 2, che l’Unione aderisce alla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e al paragrafo 3, che i diritti fondamentali, garantiti dalla Convenzione e risultanti dalle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri, fanno parte del diritto dell’Unione in quanto principi generali. In particolare la Corte ha rilevato che l’adesione dell’Unione europea alla CEDU al momento non era ancora avvenuta, rendendo allo stato improduttiva di effetti la statuizione del paragrafo 2 del nuovo art. 6 del Trattato sull’Unione europea, come modificato dal Trattato di Lisbona.

Con sentenza n. 210/2013 la Corte ha statuito che “costituendo l’art. 7 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, rispetto all’art. 117, primo comma, Cost., una norma interposta, la sua violazione, riscontrata dalla Corte europea dei diritti dell’uomo con la sentenza della Grande Camera del 17 settembre 2009, (Scoppola contro Italia), comporta l’illegittimità costituzionale della norma impugnata (art. 7, comma 1, del decreto-legge n. 341 del 2000)”.

Con sentenza n. 49/2015 la Corte ha ritenuto inammissibile la questione di legittimità costituzionale avente per “oggetto l’art. 44, comma, 2, del d.P.R. n. 380 del 2001, anziché la legge 4 agosto 1955, n. 848 (Ratifica ed esecuzione della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali e del Protocollo addizionale alla Convenzione stessa), nella parte in cui con essa si è conferita esecuzione ad una norma reputata di dubbia costituzionalità (l’art. 7 della CEDU, nell’interpretazione adottata dalla Corte EDU con la sentenza Varvara c/Italia) ovvero al divieto di applicare la confisca urbanistica se non unitamente ad una pronuncia di condanna penale”. In particolare, la Corte ha osservato che “è solo un “diritto consolidato”, generato dalla giurisprudenza europea, che il giudice interno è tenuto a porre a fondamento del proprio processo interpretativo, mentre nessun obbligo esiste in tal senso, a fronte di pronunce che non siano espressive di un orientamento oramai divenuto definitivo”. Solo nel caso in cui si trovi in presenza di un “diritto consolidato” o di una “sentenza pilota”, il giudice italiano sarà vincolato a recepire la norma come interpretata a Strasburgo, adeguando ad essa il suo criterio di giudizio per superare eventuali contrasti rispetto ad una legge interna, anzitutto per mezzo di «ogni strumento ermeneutico a sua disposizione», ovvero, se ciò non fosse possibile, ricorrendo all’incidente di legittimità costituzionale.

 

B)La giurisprudenza della Cassazione.

Con sentenza n. 28507/2005 la Cassazione s.u. civili ha dichiarato la natura immediatamente precettiva delle norme convenzionali, a seguito di ratifica dello strumento di diritto internazionale, già affermata con sentenza n. 7662/1991 ed ha espressamente riconosciuto la natura sovraordinata alle norme della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), sancendo l’obbligo per il giudice di disapplicare la norma interna in contrasto con la norma pattizia dotata di immediata precettività nel caso concreto (Cass. 19 luglio 2002, n. 10542).

Con sentenze n. 13287/2006, 15748/2006, 25526/2006 e 4842/2007, la stessa Cass. s.u. civ., dopo aver richiamato la predetta sentenza, ha affermato che, in tema di equa riparazione per la irragionevole durata del processo ai sensi dell’art. 2 della legge n. 89 del 2001, la fonte del riconoscimento del relativo diritto non deve essere ravvisata nella sola legge nazionale, coincidendo il fatto costitutivo del diritto attribuito da detta legge con la violazione della norma contenuta nell’art. 6 della Convenzione europea, di immediata rilevanza nell’ordinamento interno siccome ratificata e resa esecutiva in Italia con la legge n. 848/1955, onde il diritto all’equa riparazione del pregiudizio derivato dall’irragionevole durata del processo, verificatosi prima dell’entrata in vigore della citata L. n. 89 del 2001, va comunque riconosciuto dal giudice nazionale.

Con ordinanza n. 34472/2012 la Cassazione s.u. penali ha affrontato la questione di diritto relativa alla possibilità, “in attuazione dei principi dettati dalla Corte EDU con la sentenza 17.9.2009, Scoppola c/ Italia, di sostituire, nei confronti del ricorrente, la pena dell’ergastolo con la pena di anni trenta di reclusione, in tal modo modificando il giudicato con l’applicazione, nella successione di leggi intervenute in materia, di quella più favorevole”. La Corte, premesso che tale quaestio iuris impone, innanzi tutto, di stabilire la rilevanza che nell’ordinamento interno possano assumere, in deroga anche al giudicato, le violazioni, accertate dalla Corte di Strasburgo (Corte EDU), della Convenzione europea dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), ha affermato la necessità che gli ordinamenti interni assicurino, anche a prescindere da un intervento del giudice europeo sul caso concreto, il rispetto degli obblighi convenzionali, così come già individuati dalla Corte EDU, pongano fine a persistenti violazioni degli stessi e prevengano nuove violazioni. In tale situazione, la preclusione, effetto proprio del giudicato, non può operare allorquando risulti pretermesso, con effetti negativi perduranti, un diritto fondamentale della persona, quale quello relativo alla propria libertà. Ciò premesso, la Corte ha precisato che “l’esito negativo della verifica circa la praticabilità di una interpretazione della normativa interna conforme all’art. 7 CEDU, quale quella datane dalla Corte di Strasburgo, e l’insanabile contrasto tra dette norme a confronto impongono di sottoporre al giudice delle leggi, non apparendo manifestamente infondata, la questione di legittimità costituzionale, in riferimento agli artt. 3 e 117, comma primo, Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 7 CEDU, degli artt. 7 e 8 d.l. n. 341 del 2000, convertito dalla legge n. 4 del 2001”.

Con sentenza n. 6891/2016, la Cassazione s.u. civ. ha stabilito che “essendo il contrasto tra norma nazionale e norma convenzionale insuperabile in sede interpretativa, è legittimo porsi il dubbio che la norma dell’art. 69, c. 7, del d.lgs. 30.03.01 n. 165 si ponga in contrasto con l’art. 117, comma 1, della Costituzione, nella parte in cui prevede che la potestà legislativa sia esercitata dallo Stato nel rispetto degli obblighi internazionali, quale l’obbligo assunto con l’adesione alla Convenzione EDU, ratificata e posta in esecuzione con la legge 4.8.55 n. 848. Di fronte a tale dubbio il giudice è tenuto a risolvere il contrasto sollevando apposita questione di legittimità della disposizione di legge, in ragione del noto principio più volte affermato dalla Corte costituzionale, secondo cui le norme della Convenzione, così come interpretate dalla Corte di Strasburgo, assumono rilevanza nell’ordinamento interno quali norme interposte, assumendo esse un’efficacia intermedia tra legge e Costituzione, idonea a dare corpo agli “obblighi internazionali” costituenti parametro normativo cui l’art. 117, c. 1, ricollega l’obbligo di conformazione”.

 

3) Osservazioni sul “modus operandi” nel processo contabile, in presenza di norme interne contrastanti con quelle della CEDU, come interpretate dalla Corte di Strasburgo.

Secondo una prima tesi, ormai superata, andava riconosciuta natura sovraordinata alle norme della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, sancendo l’obbligo per il giudice di disapplicare la norma interna in contrasto con la norma pattizia, dotata di immediata precettività nel caso concreto.

La tesi che si è successivamente affermata, invece, ritiene che la CEDU non crei un ordinamento giuridico sopranazionale e non produca norme direttamente applicabili negli Stati contraenti, per cui il giudice interno non ha il potere di disapplicare la norma legislativa ordinaria ritenuta in contrasto con una norma CEDU, poiché l’asserita incompatibilità tra le due si presenta come una questione di legittimità costituzionale, per eventuale violazione dell’art. 117, primo comma, Cost., di esclusiva competenza del giudice delle leggi.

Quindi, non può riconoscersi un primato delle norme contenute nella Convenzione, come interpretata dalle sentenze della Corte di Strasburgo, analogo a quello conferito al diritto dell’Unione europea e alle sentenze della Corte di Giustizia, che incidono direttamente nell’ordinamento nazionale e che possono determinare la disapplicazione delle norme interne eventualmente contrastanti.

Accertato che il giudice contabile, come qualsiasi altro giudice nazionale, deve provvedere ad una interpretazione della norma da applicare in modo convenzionalmente orientato, senza poter però disporre la diretta disapplicazione della norma stessa, questi dovrà sollevare questione di legittimità costituzionale dinanzi alla Consulta, nel caso in cui rilevi che il contrasto con l’ordinamento CEDU comunque non risulti superabile.

 

Al riguardo, sorge però il problema di stabilire il corretto parametro di riferimento della norma da indicare in eventuale violazione dell’art. 117, primo comma, della Costituzione.

 

Come si è visto, con sentenza n. 49/2015 la Corte costituzionale ha ritenuto inammissibile la questione di legittimità costituzionale avente per “oggetto l’art. 44, comma, 2, del d.P.R. n. 380 del 2001, anziché la legge 4 agosto 1955, n. 848 (Ratifica ed esecuzione della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali e del Protocollo addizionale alla Convenzione stessa), nella parte in cui con essa si è conferita esecuzione ad una norma reputata di dubbia costituzionalità”.

Tale statuizione suscita notevoli perplessità. A prescindere che in numerose altre precedenti sentenze la decisione della Consulta ha pacificamente riguardato le specifiche norme di legge ordinaria, che il giudice rimettente prospettava come inficiate da profili di incostituzionalità, per violazione delle norme pattizie, l’incongruenza di tale prospettazione appare evidente ove si pensi alle conseguenze che deriverebbero dalla eventuale declaratoria di illegittimità costituzionale della legge di ratifica della Convenzione, nella parte in contestazione. Infatti, ne discenderebbe l’inapplicabilità di parte della Convenzione, misura unilaterale chiaramente inaccettabile dagli altri Stati firmatari e dagli organi istituzionali previsti dalla CEDU, con conseguente violazione, da parte dello Stato italiano, degli obblighi assunti in sede internazionale.

Bene ha fatto, quindi, la Cassazione a non tenere affatto conto di tale statuizione, prospettando, nella citata recente sentenza n. 6891/2016, il contrasto, con l’art. 117, comma 1, della Costituzione, dell’art. 69, comma 7, del d.lgs. 30.3.2001 n. 165 e non già, in parte qua, della legge 4.8.1955, n. 848, in relazione al principio desumibile dall’art. 6 della Convenzione, secondo l’interpretazione datane dalla Corte di Strasburgo con le sentenze Mortola e Staibano, secondo cui la legge italiana, nel fissare la decadenza prevista dal richiamato art. 69, comma 7, pone un ostacolo procedurale che costituisce una sostanziale negazione del diritto invocato ed esclude un giusto equilibrio tra gli interessi pubblici e privati in gioco.

Ma la sentenza della Corte costituzionale n. 49/2015 non può essere condivisa anche sotto un ulteriore profilo. Secondo la Consulta, premesso che “alla Corte di Strasburgo compete di pronunciare la parola ultima in ordine a tutte le questioni concernenti l’interpretazione e l’applicazione della Convenzione e dei suoi Protocolli, secondo quanto le parti contraenti hanno stabilito in forza dell’art. 32 della CEDU”, va affermato che “è solo un <diritto consolidato>, generato dalla giurisprudenza europea, che il giudice interno è tenuto a porre a fondamento del proprio processo interpretativo, mentre nessun obbligo esiste in tal senso, a fronte di pronunce che non siano espressive di un orientamento oramai divenuto definitivo”… “solo nel caso in cui si trovi in presenza di un <diritto consolidato> o di una <sentenza pilota>, il giudice italiano sarà vincolato a recepire la norma individuata a Strasburgo”.

Al riguardo è sufficiente osservare che nessuna norma della Convenzione fa riferimento a tali condizioni, tanto più che non si ravvisano motivi convincenti per affermare che un principio convenzionale, suffragato da una sola, condivisibile sentenza, non possa trovare applicazione o che, a tali fini, si debba attendere una “sentenza pilota” la quale, lungi dal rivestire maggiore autorevolezza, si caratterizza soltanto per il numero dei procedimenti pendenti di uguale contenuto (c.d. ricorsi seriali).

Infine non è accettabile la stessa idea che l’attività ermeneutica in materia del giudice, soggetto soltanto alla legge, possa essere limitata, o meglio sostanzialmente esclusa, al di fuori dei “paletti” che la Consulta vorrebbe imporre, tanto più che i principi affermati in una decisione di inammissibilità non sono affatto vincolanti.

L’esigenza di conformare, al di fuori di inammissibili “strozzature”, la normativa interna a quella dettata dalla CEDU è tanto più pressante ove si tenga conto dell’entità delle condanne già inflitte per violazione di quest’ultima disciplina e del numero elevatissimo dei ricorsi pendenti presso la Corte EDU che, secondo un rapporto redatto dal Comitato per gli affari giuridici sul futuro della Corte europea dei diritti dell’uomo, alla data dell’1.7.2014, già superava il numero di 11.000 ricorsi.

In tale prospettiva va visto con estremo favore il “Protocollo d’intesa tra CEDU e Cassazione” siglato nel dicembre 2015, che si spera possa essere seguito da analoghe iniziative da parte delle altre magistrature, in particolare dalla Corte dei conti, con l’obiettivo di diffondere e favorire lo scambio di conoscenza della giurisprudenza anche ai fini di una migliore e costante attuazione della Convenzione europea dei diritti dell’uomo e per consentire efficace espletamento del meccanismo di parere preventivo che andrà a regime con l’entrata in vigore del Protocollo n. 16, non appena raggiunta la quota di n. 10 ratifiche (al momento le ratifiche sono 6) e che consentirà di superare le attuali “strozzature” adottate in sede di giurisprudenza costituzionale, con una completa apertura all’affermazione dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali.

Esaurite tali considerazioni di carattere generale, formulate per sommi capi, può adesso illustrarsi il tema specifico in trattazione.

3) L’esigenza di una giurisdizione piena (full jurisdiction) anche sugli atti discrezionali, secondo la Corte europea dei diritti dell’uomo.

L’art. 111 della Costituzione prevede: comma 1) “La giurisdizione si attua mediante il giusto processo regolato dalla legge”; comma 2) “Ogni processo si svolge nel contraddittorio tra le parti, in condizioni di parità, davanti a giudice terzo e imparziale. La legge ne assicura la ragionevole durata”.

Tale articolo, novellato, costituisce una derivazione dell’art. 6 della CEDU “Diritto a un equo processo”, secondo cui “Ogni persona ha diritto a che la sua causa sia esaminata equamente, pubblicamente ed entro un termine ragionevole da un tribunale indipendente e imparziale, costituito per legge, il quale sia chiamato a pronunciarsi sulle controversie sui suoi diritti e doveri di carattere civile o sulla fondatezza di ogni accusa penale formulata nei suoi confronti ….”.

Ciò premesso, come si è visto, secondo l’insegnamento della Cassazione, “la nozione di discrezionalità è unitaria” ed il sindacato giurisdizionale da parte del giudice contabile non può essere “meno penetrante di quanto avviene nel giudizio di legittimità sugli atti amministrativi, affidato al giudice amministrativo e, in via incidentale, al giudice ordinario”.

Quindi, le valutazioni espresse dalla Corte europea dei diritti dell’uomo in relazione ai limiti che incontrerebbe il giudice amministrativo nel sindacato di legittimità possono essere estese agli analoghi limiti che incontrerebbe il giudice contabile nei giudizi di responsabilità amministrativa.

Per inciso va ricordato che sulla natura del giudizio contabile si è espressa la Corte di Strasburgo nella sentenza del 13 maggio 2014, sul ricorso n. 20148/09 (Rigolio c/Italia), che, esclusa la natura sanzionatoria del processo, ne ha sottolineato la natura risarcitoria volta a ristorare il pregiudizio patrimoniale sofferto dall’amministrazione danneggiata, con la conseguenza che le relative controversie vanno inquadrate fra quelle riguardanti diritti e doveri di carattere civile che incidono sulle situazioni giuridiche soggettive considerate nell’art. 6, paragrafo 1, della CEDU.

Tanto precisato, in materia assume particolare rilievo la sentenza della Corte EDU in data 21 gennaio 2014 sul ricorso n. 48754/11 (Placì c/Italia), le cui risultanze, oltre che per i giudizi di responsabilità, di cui si tratta in questa sede, sono particolarmente rilevanti anche per i giudizi pensionistici dinanzi alla Corte dei conti.

Nella sentenza, in sintesi, è scritto quanto segue (punto 74 e seguenti):

L’art. 6 § 1 della Convenzione garantisce il diritto ad un equo processo da parte di un tribunale indipendente e imparziale e non esige espressamente che il consulente udito da tale tribunale soddisfi gli stessi requisiti. Tuttavia, è probabile che il parere di un consulente nominato dal tribunale competente per risolvere le questioni che sorgono in una causa abbia un peso significativo nella valutazione di tali questioni da parte di detto tribunale. La Corte osserva che il Collegio medico dipende dal Ministero della Difesa, che nomina i suoi membri. Il Consiglio di Stato ha approvato senza ulteriori valutazioni le conclusioni del rapporto del Collegio medico, osservando che, con i suoi limitati poteri di riesame giudiziario degli atti amministrativi (sede di legittimità), esso non poteva esaminare il merito di tale relazione, nonostante il fatto che il consulente del ricorrente avesse prodotto una relazione contrastante. Ne consegue che gli aspetti pertinenti della sentenza adottata erano basati interamente sulle conclusioni del Collegio medico. La Corte osserva che il Collegio era stato chiamato a valutare fatti specifici al fine di assistere il C.d.S. a determinare la questione della responsabilità dell’esercito, che avrebbe potuto condurre alla concessione di un indennizzo al ricorrente, le cui censure alle conclusioni del Collegio erano respinte perché tale tribunale non aveva il potere di esaminare il merito delle conclusioni della consulenza tecnica redatta dal Collegio. Ciò faceva sì che le conclusioni del Collegio fossero l’unica prova incontestata e decisiva utilizzata per determinare le questioni della causa. In conclusione, la Corte ritiene che il ricorrente, in conseguenza della composizione, della posizione e del ruolo processuale del Collegio medico nel procedimento dinanzi al C.d.S., non era in posizione di parità con il suo avversario, lo Stato, come avrebbe dovuto essere in conformità con il principio della parità delle armi. Tale conclusione è sufficiente per concludere che il ricorrente non ha avuto un equo processo dinanzi ad un tribunale imparziale ed in posizione di parità con il suo avversario e pertanto vi è stata violazione dell’art. 6 della Convenzione.

Altra sentenza rilevante della Corte EDU è quella del 4 marzo 2014, sul ricorso n. 18640/10 (Grande Stevens e altri c/Italia), nella quale si precisa che il rispetto dell’art. 6 della Convenzione non esclude che una decisione di natura amministrativa non soddisfi essa stessa le condizioni del medesimo art. 6, a condizione però che questa sia successivamente sottoposta al controllo di un organo giudiziario dotato di piena giurisdizione (Schmautzer, Umlauft, Gradinger, Pramstaller, Palaoro e Pfarrmeier c. Austria, sentenze del 23 ottobre 1995, rispettivamente §§ 34, 37, 42 e 39, 41 e 38, serie A nn. 328 A-C e 329 A C). Fra le caratteristiche di un organo giudiziario dotato di piena giurisdizione figura il potere di riformare qualsiasi punto, in fatto come in diritto, della decisione impugnata, resa dall’organo inferiore. In particolare esso deve avere competenza per esaminare tutte le pertinenti questioni di fatto e di diritto che si pongono nella controversia di cui si trova investito (Chevrol c. Francia, n. 49636/99, § 77, CEDU 2003-III; Silvester’s Horeca Service c. Belgio, n. 47650/99, § 27, 4 marzo 2004; e Menarini Diagnostics S.r.l.).

In quest’ultima sentenza, in data 27 settembre 2011, sul ricorso n. 43509/08 (Menarini Diagnostics S.r.l.), oltre ad affermare i concetti poi ripresi nella citata sentenza del 4 marzo 2014, la Corte rileva che “la competenza del giudice amministrativo non si è limitata ad un semplice controllo di legittimità. I giudici amministrativi hanno potuto verificare se, in relazione alle particolari circostanze della causa, l’AGCM aveva fatto uso appropriato dei suoi poteri. Hanno potuto esaminare l’adeguatezza e la proporzionalità della misura della AGCM e anche controllarne le valutazioni di ordine tecnico. Inoltre, il controllo effettuato sulla sanzione è stato di piena giurisdizione nella misura in cui il TAR ed il Consiglio di Stato hanno potuto verificare l’adeguatezza della pena all’infrazione commessa e, ove necessario, avrebbero potuto sostituirla. In particolare, il Consiglio di Stato, andando al di là di un controllo «esterno» sulla coerenza logica della motivazione della AGCM, ha respinto un’analisi dettagliata dell’adeguatezza della sanzione in relazione a parametri rilevanti, come la proporzionalità della sanzione stessa. La decisione della AGCM è stata sottoposta al controllo a posteriori da parte di un giudice avente giurisdizione estesa al merito, pertanto nel caso di specie non può essere rilevata alcuna violazione dell’art. 6 § 1 della Convenzione”.

In conclusione, va sottolineato come la Corte EDU adotti un consolidato orientamento volto a garantire una effettività della tutela e della equità processuale che, secondo la Corte, può essere conseguita esclusivamente a condizione che il giudice eserciti una giurisdizione piena (full jurisdiction) sulla controversia, attraverso la integrale cognizione di ogni aspetto, di legittimità o di merito, della causa, con il potere di esaminare tutte le questioni, di fatto o di diritto, che dovessero insorgere.

Di conseguenza, il concetto di merito amministrativo è destinato inevitabilmente a regredire in termini massivi, in relazione al potere giurisdizionale di riformare «qualsiasi punto, in fatto come in diritto, della decisione impugnata», potendosi ammettere in via residuale esclusivamente per le scelte discrezionale di natura rigidamente politica e di pianificazione.

Alla luce delle anzidette considerazioni non può che rilevarsi come l’art. 1, comma 1, della legge n. 20/1994 nella parte relativa alla “insindacabilità nel merito delle scelte discrezionali”, sia in manifesto contrasto con la normativa CEDU e che quindi vada eliminato o, quanto meno, drasticamente delimitato, o in via legislativa o attraverso il sindacato della Corte costituzionale, attraverso il rimettente giudice contabile.

 

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