di Salvatore Sfrecola
Il decreto legge n. 76 del 16 luglio, convertito dalla legge 11 settembre 2020, n. 120, il cosiddetto “decreto semplificazioni” ha previsto, al dichiarato intento di accelerare le spese di investimento, come ben sanno i nostri lettori, una nuova configurazione, in senso penalistico, del dolo quale elemento soggettivo della responsabilità per danno “erariale” e l’eliminazione della responsabilità amministrativa nel caso di atti e comportamenti commessi con “colpa grave”, che sopravvive esclusivamente per i comportamenti omissivi. Infatti, al Premier e al Presidente della Repubblica, che quel decreto ha emanato deve essere sembrata cosa buona e giusta escludere la responsabilità per colpa grave evidentemente ritenendo che questo fosse il modo migliore per semplificare i procedimenti amministrativi esorcizzando quel “timore della firma” che condizionerebbe molti funzionari nel momento in cui adottano un atto, soprattutto in materia contrattuale.
La norma è configurata come eccezionale ed a tempo, fino al 31 dicembre 2021, ma le motivazioni che la sorreggono, a leggere le premesse del provvedimento, sono riferite al particolare momento storico che il nostro Paese vive e nella prospettiva di un grande impegno di ricostruzione del contesto sociale ed economico del Paese. Esigenza che, è evidente, non si esaurisce il 31 dicembre 2021, ma è destinata a protrarsi nel tempo perché questo Paese ha urgente bisogno di imponenti investimenti in infrastrutture.
Ora non è dubbio che appare difficile considerare fondata la presunta preoccupazione d funzionari nei quali si deve ritenere accertata una adeguata preparazione professionale, non solo all’atto della assunzione ma anche successivamente nella progressione della carriera. Se una preoccupazione c’è nelle stanze del potere con riferimento ai tempi dell’azione amministrativa, a Palazzo Chigi siedono giuristi che hanno fatto buoni studi, dallo stesso presidente Conte, professore universitario di diritto civile, al Segretario Generale, Riccardo Chieppa, ed al Capo del Dipartimento degli Affari Giuridici e Legislativi (DAGL), Ermanno De Francisco, entrambi Presidenti di Sezione del Consiglio di Stato, per cui sarebbe stato logico attendersi una diversa soluzione, più razionale ed elegante. Anche perché, se il “timore della firma” si può immaginare in chi, magari pressato dall’urgenza e dalle sollecitazioni della politica, deve assumere un rilevante impegno di spesa al termine di una complessa procedura, non si vede perché debba essere esente da responsabilità il guardiano di un museo il quale spolverando un importante soprammobile lo faccia cadere distruggendolo. O l’addetto alla conduzione di un’automobile il quale, in violazione del limite di velocità previsto nei centri abitati, sfrecciando non a 55 km ma ad oltre 100 km/h provochi un grave incidente con feriti e gravi danni all’erario. Sono entrambi esempi tratti dall’esperienza e dimostrano l’irragionevolezza di una disciplina generale per la quale è indifferente la funzione o la mansione svolta dal responsabile di un pregiudizio a carico della finanza e/o del patrimonio dello Stato o di un ente pubblico. Ad esempio il furto da un museo per inidonea organizzazione del servizio di vigilanza che non tenga conto della presenza del pubblico dei visitatori o degli studiosi, determina la perdita di un valore patrimoniale a volte molto rilevante. Lo sanno bene i Carabinieri dello speciale Comando che si occupa della tutela del patrimonio storico artistico alla ricerca di preziosi reperti sottratti a musei ed aree archeologiche.
Come accade per molte cose della nostra vita politica e amministrativa, anche in materia di danno pubblico, che continuiamo a definire “erariale” mentre in realtà è da tempo configurato dalla dottrina e dalla giurisprudenza più avvedute come un danno alla comunità, una indicazione di straordinaria saggezza la troviamo in Camillo Benso Conte di Cavour. Nella seduta del 27 dicembre 1852, parlando al Parlamento subalpino, allorché si affrontò l’ipotesi di introdurre, accanto alla responsabilità dei cassieri quella solidale dei “verificatori ministeriali”, rivolgendosi ai parlamentari disse: “Io credo che, per voler troppo, noi otterremo nulla, e che se noi stabiliamo che l’impiegato delle finanze, il quale per sua colpa avrà lasciato che si facesse un deficit abbia un castigo in danaro da determinarsi dalla Camera (dei conti, n.d.A.), la legge sarà applicata; ma se invece lo volete rendere garante e solidario di tutti i contabili da esso dipendenti, voi non troverete mai un tribunale che dichiari che vi fu colpa reale, salvo che vuoi retribuiate così largamente i vostri impiegati da far sì che vi sia corrispettivo fra l’onorario che loro è dato e la pena che è comminata per una colpa in cui non vi sia dolo né complicità”. L’osservazione di Cavour, ricorda Paolo Maddalena, già Vicepresidente della Corte costituzionale, in un saggio pubblicato dalla Rivista della Corte dei conti (2028, n. 1 207) fu accolta. La solidarietà fu respinta dalla Camera che volle circoscrivere il rischio del dipendente in modo che rispondesse nei limiti del suo “corrispettivo” tra “onorario e pena”. Così attuando una ripartizione del rischio tra lo Stato e chi agisce in suo nome (quello che si chiama “rischio d’impresa”). È, in nuce, il cosiddetto “potere riduttivo” che il giudice contabile può esercitare ponendo “a carico dei responsabili tutto o parte del danno accertato o del valore perduto” (art. 82 della legge di contabilità generale dello Stato, R.D. 18 novembre 1918, n. 2440), potere lato sensu equitativo importante, che di fatto individua anche una tipizzazione delle condotte punibili.
Orbene, se avessero riletto il discorso di Cavour, a Palazzo Chigi avrebbero potuto scegliere una ipotesi più funzionale e rassicurante, ad esempio commisurando l’ammontare della condanna ad una somma che costituisca una quota della retribuzione in relazione al danno accertato (una mensilità, una annualità o più, tentativo che vi fu ai tempi del Ministro della funzione pubblica Mazzella). Ciò che taluno potrebbe ritenere espressione di una responsabilità più sanzionatorie a che risarcitoria ma sarebbe stata una scelta maggiormente condivisa. Ugualmente, sarebbe stato possibile tipizzare talune fattispecie di danno in rapporto alla condotta, in modo da circoscrivere la responsabilità ad ipotesi che effettivamente destino nei cittadini quell’allarme sociale che accompagna da sempre l’individuazione di sprechi nella gestione delle risorse pubbliche. Un esempio? Di tanto in tanto la televisione, in special modo il TG satirico “Striscia la notizia”, documenta, con immagini estremamente significative, opere pubbliche la cui realizzazione è iniziata e mai terminata o non rispondenti alle regole dell’arte per cui immobili costosi richiedono, appena entrati in esercizio, rilevanti spese di manutenzione straordinaria. Oppure opere inutili per definizione, come nel caso, periodicamente riprodotto in TV, di un campo di Polo a Giarre, città di 22 mila abitanti, che dovrebbe ospitare 20 mila spettatori, un numero che non si troverebbe neppure a Roma. E nessuno sembra si sia dato carico di verificare chi e perché abbia finanziato quell’opera con fondi pubblici.
La riforma della responsabilità per danno pubblico erariale ci dice che a Palazzo Chigi l’Istituzione Corte dei conti non è amata, per cui si è preferito dare una risposta al tam tam dei funzionari preoccupati di essere chiamati a risarcire, enfatizzato anche dalla stampa in relazione a determinate azioni di danno contestate. Da ultimo quelle riguardanti le consulenze dei professori ordinari a tempo pieno, una categoria che sta molto a cuore a molti esponenti del mondo politico. E così si è scelta la strada rozza della eliminazione della responsabilità per colpa grave tout court, senza tener conto che non è assolutamente ragionevole una disciplina generale giustificata dall’esigenza di semplificazioni per interventi diretti ad assumere impegni per iniziative finalizzate alla ripresa economica del Paese. Così tra decreti legge e la selva dei decreti del Presidente del Consiglio dei Ministri, i famosi d.P.C.M. di cui il Presidente Conte si riempie la bocca, si è imbrigliata una delle forme più importanti di garanzia della gestione del pubblico denaro, mentre non si ha notizia che da viale Mazzini sia partita in direzione di Piazza Colonna una adeguata e pubblica iniziativa che, per autorevolezza e funzionalità, fosse idonea ad indirizzare diversamente l’iniziativa governativa e parlamentare che da tempo era nell’aria.
Qualche riflessione al riguardo è necessaria, anche per non dare l’impressione di ritenere che Governo e Parlamento, che hanno, nei rispettivi ruoli, proposto e convertito in legge la norma della quale abbiamo fin qui detto, abbiano una preconcetta ostilità nei confronti della Corte dei conti e, in specie, della giurisdizione contabile.
La Corte nei suoi vertici, il nuovo Presidente e il nuovo Procuratore Generale, dovrà darsi carico di questa situazione e farsi promotrice di una riforma di questa norma che sia coerente con le esigenze che essa ha inteso soddisfare sia pure in forma sbagliata. Certamente il potere politico, cioè il Parlamento, cosa che sembra molti non vogliano considerare, ha adottato una disposizione che dimostra aperto dissenso rispetto a come è stata negli ultimi anni gestita la giurisdizione in materia di responsabilità amministrativa. Che evidentemente la classe politica, in veste di legislatore, ritiene debba essere limitata a condotte effettivamente gravi. Basta ripercorrere gli eventi degli ultimi anni per percepire una costante critica all’esercizio dell’azione di danno. Da quando, nel 1990 la legge 8 giugno n. 142 (Ordinamento delle autonomie locali) all’art. 58 (Disposizioni in materia di responsabilità) ha previsto al comma 1 che “Per gli amministratori e per il personale degli enti locali si osservano le disposizioni vigenti in materia di responsabilità degli impiegati civili dello Stato” ed al comma 4 che “L’azione di responsabilità si prescrive in cinque anni dalla commissione del fatto. La responsabilità nei confronti degli amministratori e dei dipendenti dei comuni e delle province è personale e non si estende agli eredi”. Significativa riforma che afferma la natura personale dell’obbligazione risarcitoria che in passato si estendeva agli eredi, contestualmente limitando la prescrizione a cinque anni rispetto ai dieci al momento vigenti.
In sostanza il legislatore invitava la Corte, in particolare l’allora Procuratore Generale, titolare dell’azione di responsabilità, a far presto, perché un’azione risarcitoria a dieci anni data è priva di quell’effetto deterrente che sollecita le buone pratiche. L’esclusione degli eredi è un fatto di civiltà. Cosa ne potevano sapere della condotta posta in essere dal dante causa? Come si potevano difendere? Si trattava di una sorta di responsabilità oggettiva.
Nel 1993 iniziano una serie di decreti legge che riordinano la giurisdizione decentrandola su base regionale, l’ultimo dei quali, il decreto 15 novembre 993, n. 453, è convertito dalla legge 14 gennaio 1994, n. 19. La nuova normativa attribuisce al Pubblico Ministero, collocato vicino ai luoghi dove si sono svolti i fatti sui quali indagare, strumenti di carattere investigativo e istruttorio importanti, dalle audizioni agli accertamenti diretti, alla possibilità di avvalersi di consulenti tecnici.
Questo ampliamento delle attribuzioni andava gestito con maggiore saggezza se, nel 1996, a tre anni dall’entrata in vigore del decentramento, il decreto legge n. 543 del 23 ottobre prevede che “La responsabilità dei soggetti sottoposti alla giurisdizione della Corte dei conti in materia di contabilità pubblica e personale e limitata ai fatti ed alle omissioni commessi con dolo o con colpa grave , ferma restando la insindacabilità nel merito delle scelte discrezionali”.
Colpa grave al posto della colpa semplice (lieve). Non occorre fantasia per comprendere che quella disposizione era da interpretare come un segnale evidente di dissenso della classe politica rispetto ad un certo indirizzo delle Procure regionali, accolto dalle Sezioni giudicanti. In quella occasione, per un pugno di voti, non fu approvato l’emendamento che prevedeva la limitazione della responsabilità alle sole ipotesi di dolo. Bisognava comprendere che il decisore politico non voleva eliminare l’azione risarcitoria ma limitarla a comportamenti effettivamente negligenti.
In proposito la Corte costituzionale (20 novembre 1998, n. 371), giudicando conforme ai principi della Carta fondamentale la disposizione che limitava la responsabilità alla “colpa grave”, aveva fatto presente che l’intento del legislatore era stato quello “di predisporre, nei confronti degli amministratori e dei dipendenti pubblici, un assetto normativo in cui il timore della responsabilità non esponga all’eventualità di rallentamenti ed inerzia nello svolgimento dell’attività amministrativa”.
Un avviso inequivoco, un segnale che doveva essere colto. Invece, qualcuno ha ritenuto che il medesimo comportamento, prima definito lieve poteva essere qualificato grave e via così, con l’effetto evidente che irritare il potere politico che difatti, in sede di Commissione bicamerale per le riforme istituzionali (Commissione D’Alema) concluse i suoi lavori con una relazione sulla Giustizia (c.d. bozza Boato) che prevedeva l’attribuzione della giurisdizione per danno erariale ai Tribunali Amministrativi Regionali che avrebbero giudicato senza la presenza del Pubblico Ministero.
Sono passati un po’ di anni nei quali, tra l’altro, due fattispecie di danno, quello “all’immagine” e quello “da disservizio”, importanti intuizioni della giurisprudenza contabile, tra Roma e Perugia, sono state utilizzate ad ogni piè sospinto, così svilendo un’intuizione faticosamente elaborata, ed ecco, nel bel mezzo della pandemia da Convid-19, il Governo, assistito da uno stuolo di giuristi, come innanzi ho ricordato, che certo s’intendono di leggi e di giurisprudenza, decide di rivedere le norme sulla responsabilità amministrativa. Lo fa correggendo l’art. 1 della legge 14 gennaio 1994, n. 20, disegnando un dolo in versione penalistica ed eliminando la colpa grave nelle condotte commissive. Anche qui un segnale preciso, in primo luogo per il dolo che viene “interpretato” ad evitare che sia la Corte a farlo con formule tipo “dolo civile o contrattuale” che sa tanto di responsabilità oggettiva. Un obbrobrio giuridico, una sfida al legislatore.
Non sarebbe onesto se non si prendesse atto della contrarietà del potere politico in funzione di legislatore rispetto a come la Corte ha gestito la responsabilità ex art. 1 della legge 20/1994. In assenza di una funzione di indirizzo e coordinamento che avesse dato un’impronta più conforme all’evidente indirizzo legislativo e al richiamato orientamento della Corte costituzionale che intendeva fossero colpite solamente condotte effettivamente caratterizzate da gravissima trascuratezza, negligenza e imperizia. In sostanza il legislatore appare convinto che, in un Paese dove la corruzione è notevolmente diffusa, come rileva anno dopo anno Transparency International, anche se sostanzialmente impunita, lo spreco di denaro pubblico e l’incuria per i beni patrimoniali, soprattutto quelli del patrimonio storico artistico, e percepibile anche dal comune cittadino che legga il giornale o veda la televisione, occuparsi di munuscula sia assolutamente da evitare.
La Corte, se avesse nei suoi vertici compreso per tempo l’orientamento evidente del legislatore avrebbe potuto riservare l’attenzione a casi eclatanti per i quali c’è solo l’imbarazzo della scelta, ma è evidente che è un impegno investigativo gravoso che non tutti sono in condizione o hanno la volontà di assumere. Riusciranno il nuovo Presidente, Guido Carlino, ed il nuovo Procuratore Generale, Angelo Canale, magistrati di vasta esperienza e di buone letture, a rappresentare agli occhi del decisore politico una nuova configurazione della responsabilità che rassicuri i cittadini sempre più disgustati da come in taluni ambienti vengono dissipate le risorse che loro con personale sacrificio mettono a disposizione delle amministrazioni pubbliche pagando imposte e tasse? Contestualmente assicurando di essere capaci di attuare, nei confronti dei dipendenti pubblici, un assetto giurisprudenziale “in cui il timore della responsabilità non esponga all’eventualità di rallentamenti ed inerzia nello svolgimento dell’attività amministrativa”, come ammoniva 22 anni fa la Corte costituzionale?