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Danno erariale da assenteismo

394 – Sezione giurisdizionale Regione Emilia-Romagna; sentenza 20 dicembre 2021; Pres. Pozzato, Est. Giordano, P.M. Lorenzini; Proc. Reg. Emilia-Romagna c. B. F.

Con la sentenza n. 394 del 2021, in materia di danno erariale da assenteismo, il Collegio ha ribadito che è immanente al processo contabile il principio di autonomia, con riferimento alla definizione di un giudizio che, come quello di licenziamento, vanta elementi costitutivi distinti e in conformità con l’indirizzo della giurisprudenza contabile in materia, che esclude ogni ipotesi di subordinazione temporale del processo erariale verso altri giudizi.

Con la medesima pronuncia, la Corte si è soffermata sulla configurabilità del dolo contabile in relazione a un soggetto affetto da sindrome bipolare.

Secondo il Collegio, essendo la patologia ontologicamente connotata da fasi alterne, non sarebbe la malattia in sé a determinare lo stato d’incapacità di intendere e di volere, ma lo stato di acuzie; e quest’ultimo sarebbe soggetto al rigoroso onere di allegazione e prova di cui all’art. 2697 c.c. (“probatio incumbit ei qui dicit”).

Come ha pure precisato la Sezione, temperamento dell’onere potrebbe discendere dal principio di presunzione iuris tantum di infermità psichica nell’intervallo temporale compreso tra due periodi di comprovata incapacità di intendere e volere della parte.

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE DEI CONTI

SEZIONE GIURISDIZIONALE

PER LA REGIONE EMILIA-ROMAGNA

composta dai seguenti magistrati:

Marcovalerio POZZATO                                   Presidente

Riccardo PATUMI                                            Consigliere

Andrea GIORDANO                                         Referendario relatore

ha pronunziato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di responsabilità iscritto al n. 45776 del registro di Segreteria, proposto dal Procuratore Regionale per la Regione Emilia-Romagna avverso omissis, nata a omissis il omissis, rappresentata e difesa dall’Avv. Paolo Pavani del Foro di Ferrara;

Visto l’atto di citazione;

Visti gli altri atti e documenti di causa;

Visto l’art. 85 d.l. 17 marzo 2020, n. 18, recante “Misure di potenziamento del Servizio sanitario nazionale e di sostegno economico per famiglie, lavoratori e imprese connesse all’emergenza epidemiologica da COVID-19”, convertito, con modificazioni, dalla l. 24 aprile 2020, n. 27, le cui finalità e disciplina procedimentale sono confermate dal d.l. 14 agosto 2020, n. 104, convertito, con modificazioni, dalla l. 13 ottobre 2020, n. 126;

Visti i decreti del Presidente di questa Sezione giurisdizionale che hanno disposto che, fino alla cessazione degli effetti della dichiarazione dello stato di emergenza nazionale da COVID-19, le udienze già fissate devono svolgersi da remoto;

Uditi, nella pubblica udienza del 27.10.2021:

il relatore Ref. Andrea Giordano;

il Pubblico Ministero nella persona del Vice Procuratore Generale Federico Lorenzini;

l’Avv. Paolo Pavani per la convenuta.

RITENUTO IN FATTO

La Procura Contabile ha citato in giudizio omissis, per sentirla condannare a pagare, a favore del Comune di omissis, la somma complessiva di € 2.531,54, o quella diversa dal Collegio ritenuta di giustizia, per il risarcimento del danno dall’Amministrazione patito, oltre rivalutazione monetaria e interessi legali sino al momento dell’integrale soddisfazione, con condanna alla refusione delle spese processuali.

L’incoata azione erariale ha tratto origine dalla nota del 17 novembre 2020, con la quale il Dirigente del Servizio Organizzazione Programmazione e Gestione del Personale del Comune di omissis ha segnalato, ai sensi dell’art. 55- quater, c. 3- quater, d.lgs. n. 165/2001, l’avvio di un procedimento disciplinare, con sospensione cautelare dal servizio senza stipendio, della convenuta omissis, per falsa attestazione della presenza in servizio, accertata in flagranza.

La citazione richiama gli esiti del procedimento disciplinare, culminato con la sanzione del licenziamento senza preavviso della dipendente; dagli atti del detto procedimento sarebbe emerso l’allontanamento ingiustificato dal lavoro della dipendente, in difetto della previa autorizzazione del dirigente e della apposita timbratura “in uscita”.

Più in particolare, secondo la prospettazione attorea, sarebbe risultato che:

– alle ore 8,42 del 9 novembre 2020, la convenuta avrebbe registrato la sua entrata, senza alcuna marcatura che successivamente attestasse il suo allontanamento e con timbratura di rientro alle ore 13,16;

– alle ore 10,40, la medesima omissis si sarebbe trovata al di fuori della struttura presso la quale prestava servizio, intrattenendosi con altra persona in luogo aperto al pubblico (fatti, questi ultimi, accertati in flagranza dai Carabinieri intervenuti in loco).

L’organo requirente ha sussunto la condotta posta in essere da omissis nella fattispecie di falsa attestazione della presenza in servizio di cui all’art. 55- quater, c. 1, lett. a), d.lgs. n. 165/2001, avendo la dipendente consapevolmente lasciato il luogo di lavoro per finalità personali, trasgredendo all’obbligo di registrare alla macchina segnatempo gli ingressi e le uscite dall’ufficio.

Ha precisato come, a proprio avviso, l’uscita dal luogo di lavoro, avvenuta alle 10,30 del 9 novembre 2020, si sarebbe verificata in ragione di un appuntamento previamente fissato; cosa che troverebbe, in particolare, dimostrazione:

– nel verbale di audizione per assunzione di informazioni del giorno 1 dicembre 2020, nel quale la dipendente omissis avrebbe dichiarato di essere uscita, alle 9,30, con la Sig.ra omissis per fumare una sigaretta e che, in tale occasione, sarebbe passata una signora di origine straniera con cui la omissis si sarebbe accordata per rivedersi dopo;

– nelle produzioni fotografiche pure agli atti, nelle quali la omissis sarebbe stata “immortalata con una borsa piena di oggetti vari che evidentemente prima non aveva, a conferma di un incontro successivo e previamente fissato” (così, la pag. 6 dell’atto di citazione).

Sempre stando alla prospettazione di cui in citazione, il contestato contegno sarebbe connotato dal coefficiente psicologico del dolo, avendo la convenuta deliberatamente violato gli obblighi di servizio, rendendosi intenzionalmente inadempiente; non sarebbero accoglibili le eccezioni formulate dalla convenuta all’esito dell’invito a dedurre, secondo cui la “sindrome bipolare di tipo 1”, di cui sarebbe affetta la omissis, l’avrebbe resa incapace di avere piena coscienza delle sue azioni e del loro disvalore.

I fatti avrebbero cagionato un danno erariale, distinguibile in due voci: quanto al danno patrimoniale, € 31,54, pari al compenso indebitamente erogato per le prestazioni lavorative non effettuate nell’arco temporale compreso tra le ore 10,30 e le ore 13,16 del giorno 9 novembre 2020 (incluso, dunque, il periodo in cui la parte è stata accompagnata alla Caserma dei Carabinieri), in consonanza con quanto disposto dall’art. 55- quinquies d.lgs. n. 165/2001; quanto al danno all’immagine pubblica, € 2.500,00, alla luce di quanto pure previsto dall’art. 55- quinquies d.lgs. n. 165/2001, e considerati i parametri oggettivo, soggettivo e sociale rilevanti ai fini della quantificazione del pregiudizio, nonché del criterio di proporzionalità rispetto al fatto e all’entità del danno patrimoniale.

Si è costituita in giudizio omissis, chiedendo sospendersi il processo ex art. 106 c.g.c., in attesa della definizione della causa di lavoro pendente avanti al Tribunale di Ferrara – Sez. lavoro (R.G. n. omissis); respingersi la domanda attorea, siccome inammissibile e infondata; ridurre l’addebito posto a carico della convenuta mediante l’esercizio del potere riduttivo nella sua massima estensione.

Più in particolare, in fatto, la parte convenuta ha precisato che la vicenda sarebbe sorta dall’iniziativa del Vicesindaco del Comune di omissis, che, il 9 novembre 2020, avrebbe visto una nomade in compagnia della dipendente comunale, cui sono stati mostrati alcuni monili con fare sospetto; la signora omissis sarebbe stata quindi accompagnata in Caserma per riferire sull’accaduto.

La omissis avrebbe fatto poi rientro presso il posto di lavoro alle ore 13,16 e avrebbe, quindi, inviato una e-mail al responsabile del servizio per giustificare e regolarizzare l’omessa timbratura; il dirigente non avrebbe accettato la richiesta della convenuta, dando per converso avvio al procedimento disciplinare di cui si è detto e segnalando il fatto tanto alla Procura della Repubblica quanto alla Procura contabile.

Nella parte in diritto della comparsa, omissis ha, anzitutto, chiesto la sospensione del procedimento “in attesa della definizione del procedimento iscritto al n. omissis del Tribunale di Ferrara – Sezione Lavoro” (pagg. 4-5 della comparsa).

In relazione alla asserita illegittimità del licenziamento intimatole dalla parte datoriale, ha evidenziato di essere stata “colta fuori dalla sede comunale a parlare con una ROM, senza aver timbrato, in una fase acuta della patologia da cui è affetta, ossia la “Sindrome bipolare di Tipo 1”, come attestato dalla numerosa documentazione medica già prodotta nel giudizio di impugnazione del licenziamento” (pag. 5 della comparsa); ha pure dedotto che, in particolare, il 9 novembre 2020, si sarebbe trovata in un “momento molto ansiogeno, sia perché in attesa dell’esito del procedimento disciplinare nato da contestazione disciplinare del Comune di omissis, per una omessa timbratura in data 14/10/2020 e conclusosi in data 24/11/2020 con l’irrogazione di una sanzione di “giorni dieci di sospensione”, sia perché affetta da una patologia al polso” (ancora pag. 5 della comparsa).

Il peculiare stato di salute della parte – qualificato in termini di “riacutizzazione [della] sindrome bipolare in fase maniacale” (pag. 10 della comparsa) – avrebbe determinato l’illegittimità del licenziamento, non potendo quest’ultimo prescindere da una colpa del dipendente.

Secondo parte convenuta la particolare fase di acutizzazione dello stato patologico non consentirebbe di ritenere la medesima responsabile “della omessa timbratura, né di alcun danno erariale, né di eventuali illeciti penali” (pag. 11 della comparsa).

A tutto ciò concorrerebbero due ulteriori rilievi:

– ogni danno all’immagine sarebbe, in radice, escluso dal dato per cui sarebbe stato lo stesso Comune di omissis a provocare il clamore mediatico per “rivendicare i meriti” conseguenti a una politica di rigore e intransigenza concretata da iniziative, come quella per cui è controversia, contro i “furbi del cartellino” (pag. 11 della comparsa);

– sarebbe esistita una consolidata prassi, presso il Comune di omissis, di “sanatoria” delle omesse timbrature nelle “ipotesi incolpevoli” (pag. 12 della comparsa).

All’udienza del 27 ottobre 2021, le parti si sono riportate ai rispettivi atti, insistendo nelle conclusioni ivi rassegnate.

In particolare, per la Procura contabile, il V.P.G. Lorenzini ha ribadito le ragioni in fatto e in diritto fondanti l’addebito di responsabilità, precisando come, all’esito delle deduzioni presentate dalla convenuta nella fase pre-processuale, abbia decurtato la posta risarcitoria individuata nell’invito a dedurre.

Per la parte convenuta, pure personalmente presente, l’Avv. Pavani si è riportato alle eccezioni tutte contenute nella propria comparsa, anzitutto insistendo per la chiesta sospensione del presente processo sino alla definizione del giudizio di impugnativa del licenziamento; ha, quindi, ribadito le proprie tesi difensive, soffermandosi sulla non imputabilità della parte e sulla riconducibilità degli articoli di stampa a una precisa iniziativa dell’Amministrazione comunale.

CONSIDERATO IN DIRITTO

È preliminarmente necessario pronunciarsi sull’istanza di sospensione del processo contabile “in attesa della definizione del procedimento iscritto al n. omissis del Tribunale di Ferrara – Sezione Lavoro” (pagg. 4-5 della comparsa della sig.ra omissis).

Il Collegio osserva che è immanente al processo contabile il principio di autonomia, con riferimento alla definizione di un giudizio che, come quello di licenziamento, vanta elementi costitutivi distinti; constano, peraltro, ex actis tutti i presupposti in fatto tali da permettere l’approdo alla giusta decisione.

Ciò è conforme al consolidato, rigoroso, indirizzo della giurisprudenza contabile in materia, che esclude ogni ipotesi di “subordinazione temporale” del processo erariale verso altri giudizi (in termini, ad es., Sez. Lazio, sent. n. 517/2018).

Nel merito, la domanda attorea è parzialmente fondata, nei termini che qui si espongono.

L’art. 55- quinquies d.lgs. n. 165/2001, ispirato a un particolare sfavore per l’assenteismo fraudolento (Sez. App. Sicilia, sent. n. 119/2019: “[…] non v’è dubbio che i frequenti interventi normativi recentemente succedutisi appaiono improntati ad una crescente severità nel disciplinare le conseguenze dell’assenteismo fraudolento del dipendente pubblico dal posto di lavoro e che ciò costituisce chiara espressione sia della generale riprovazione che le condotte assenteistiche suscitano sempre di più nella collettività sociale sia del correlativo discredito che esse inevitabilmente arrecano alla P.A.”), prevede espressamente che: “1. Fermo quanto previsto dal codice penale, il lavoratore dipendente di una pubblica amministrazione che attesta falsamente la propria presenza in servizio, mediante l’alterazione dei sistemi di rilevamento della presenza o con altre modalità fraudolente, ovvero giustifica l’assenza dal servizio mediante una certificazione medica falsa o falsamente attestante uno stato di malattia è punito con la reclusione da uno a cinque anni e con la multa da euro 400 ad euro 1.600. La medesima pena si applica al medico e a chiunque altro concorre nella commissione del delitto. 2. Nei casi di cui al comma 1, il lavoratore, ferme la responsabilità penale e disciplinare e le relative sanzioni, è obbligato a risarcire il danno patrimoniale, pari al compenso corrisposto a titolo di retribuzione nei periodi per i quali sia accertata la mancata prestazione, nonché il danno d’immagine di cui all’articolo 55-quater, comma 3-quater.

Nella fattispecie si presenta un significativo episodio di assenteismo fraudolento, risalente al giorno 9 novembre 2020, debitamente provato dalla Procura attrice e non contestato, nel suo materiale atteggiarsi, dalla parte convenuta.

Appare infatti dimostrato che la parte abbia registrato la sua entrata alle ore 8,42 del 9 novembre 2020, senza attestare il suo allontanamento dal posto di lavoro, pure provato per essere stata la convenuta trovata in luogo aperto al pubblico, mentre si intratteneva con altra persona.

Parimenti sussiste l’elemento soggettivo del dolo, che ha sorretto la condotta contestata in sede di citazione.

Non è, invero, accoglibile l’eccezione di parte, secondo cui la patologia della convenuta l’avrebbe resa integralmente incapace di intendere e volere e, quindi, di percepire il disvalore del fatto causativo del danno erariale.

Le coordinate di sistema si devono trarre dalla giurisprudenza che si è, a più riprese, occupata di imputabilità dei fatti a soggetto affetto da sindrome bipolare.

Rileva, in particolare, la sentenza Cass. civ., Sez. lav., 31 ottobre 2017, n. 25955, che, in armonia con la migliore scienza medica, ha ricordato che, essendo la sindrome bipolare ontologicamente caratterizzata da fasi alterne, “[…] non è la malattia in sé a determinare lo stato d’incapacità di intendere e di volere, ma lo stato di acuzie” (par. 3.1 della decisione); e lo stato di acuzie è soggetto al rigoroso onere di allegazione e prova di cui all’art. 2697 c.c. (“probatio incumbit ei qui dicit”).

Temperamento dell’onere può discendere dal principio di presunzione iuris tantum di infermità psichica nell’intervallo temporale compreso tra due periodi di comprovata incapacità di intendere e volere della parte (“una volta che sia accertata in giudizio la totale incapacità di un soggetto in due periodi prossimi nel tempo, la sussistenza dell’incapacità naturale conseguente ad infermità psichica è presunta iuris tantum anche nel periodo intermedio” – par. 3.2 della sentenza citata).

Nel caso di specie non è stata data prova della totale incapacità della parte al momento del fatto causativo del danno, né può ritenersi applicabile la presunzione iuris tantum di infermità psichica, in assenza della puntuale prova della radicale incapacità della convenuta nei momenti antecedenti e susseguenti all’evento.

Infatti, fermo restando che la certificazione medica agli atti non riguarda le specifiche condizioni della parte il 9 novembre 2020 (non attestando alcuno stato di acuzie in quella data) e che l’unico certificato – sub all. n. 19 alla comparsa della omissis – inerente alla mensilità di novembre è oltremodo generico (e notevolmente postumo, risalendo al 2 marzo 2021), è difficile revocare in dubbio la lucidità della parte sia prima del fatto, per avere la stessa portato con sé i gioielli da casa (con una chiara teleologica proiezione verso l’incontro con la persona con cui è stata ripresa – proiezione avvalorata dal “verbale dell’audizione per l’assunzione di informazioni” della sig.ra omissis del giorno 1.12.2020), sia dopo il suddetto, per avere, al rientro in ufficio (per esplicita ammissione della stessa convenuta – v. pag. 12 della comparsa di costituzione e risposta – e conferma nella pag. 5 della memoria difensiva depositata dal Comune di omissis nel processo lavoristico, doc. all. n. 8 alla citata comparsa di costituzione e risposta), immediatamente chiesto al responsabile del servizio di “regolarizzare” o “sanare” l’omessa timbratura (cosa che, con ogni evidenza, dimostra che la omissis ben poteva percepire il disvalore del suo contegno, vieppiù considerato l’altro, recente, procedimento disciplinare subito dalla convenuta in relazione a un precedente episodio di assenteismo del mese di ottobre 2020 – sul punto, v. anche il “verbale audizione per l’esercizio del diritto di difesa” del 30.11.2020).

Ciò è avvalorato dalle ripetute richieste, rivolte dalla omissis ai Carabinieri, di tornare in ufficio per non dover, poi, scontare le conseguenze della propria assenza (da un articolo di stampa allegato alla segnalazione, e depositato sub all. n. 6 alla comparsa di costituzione della convenuta, risulta che la parte avrebbe detto agli operatori dell’Arma “devo timbrare prima di venire in caserma”).

Tutto ciò posto, la sussistenza degli elementi oggettivo e soggettivo della responsabilità amministrativo-contabile impone di stimare l’entità del pregiudizio addebitabile alla convenuta.

Non vi è dubbio che il danno patrimoniale debba essere quantificato nell’importo di complessivi € 31,54, pari al compenso indebitamente erogato per le prestazioni lavorative non effettuate nell’arco temporale compreso tra le ore 10,30 e le ore 13,16 del giorno 9 novembre 2020; ciò in ossequio al chiaro dettato dell’art. 55- quinquies, c. 2, d.lgs. n. 165/2001 (“Nei casi di cui al comma 1, il lavoratore, ferme la responsabilità penale e disciplinare e le relative sanzioni, è obbligato a risarcire il danno patrimoniale, pari al compenso corrisposto a titolo di retribuzione nei periodi per i quali sia accertata la mancata prestazione”).

Il quantum del danno patrimoniale non è stato, del resto, contestato dalla parte, se non in relazione alla presunta non computabilità del lasso di tempo nel quale la omissis è stata trattenuta dai Carabinieri.

La non contestazione comporta, tanto nel processo civile quanto in quello contabile, la relevatio ab onere probandi del soggetto onerato (si veda l’indirizzo fatto proprio da Cass. civ., Sez. un., sent. 23 gennaio 2002, n. 761 e ribadito, ad es., da Cass. civ., Sez. VI, sent. 21 dicembre 2018, n. 33155; per un’applicazione al processo contabile, Sez. Emilia-Romagna, sent. n. 90/2020); e il lasso temporale contestato dalla parte è chiaramente ascrivibile alla di lei condotta a monte, che ha reso necessari i controlli a presidio dell’ordine pubblico.

Quanto al danno all’immagine pubblica, l’originaria formulazione dell’art. 55- quater, c. 3- quater, d.lgs. n. 165/2001, cui l’art. 55- quinquies, c. 2, del medesimo decreto delegato rinviava e rinvia, è stata incisa dal recente intervento della Corte costituzionale.

Il criterio per cui l’ammontare del danno risarcibile non potesse essere inferiore a sei mensilità dell’ultimo stipendio in godimento è, infatti, caduto in ragione dell’avvenuta declaratoria di incostituzionalità del disposto con la sentenza C. Cost., 10 aprile 2020, n. 61 (“[…] la questione di legittimità costituzionale dell’art. 55-quater, comma 3-quater, del d.lgs. n. 165 del 2001, inserito dall’art. 1, comma 1, lettera b), del d.lgs. n. 116 del 2016, sollevata in riferimento all’art. 76 Cost., è fondata. 4.1.- A differenza di quanto avvenuto con la precedente legge n. 15 del 2009, laddove il legislatore aveva espressamente delegato il Governo a prevedere, a carico del dipendente responsabile, l’obbligo del risarcimento sia del danno patrimoniale che del danno all’immagine subìti dall’amministrazione, tanto non si rinviene nella legge di delegazione n. 124 del 2015. L’art. 17, comma 1, lettera s), di detta legge prevede unicamente l’introduzione di norme in materia di responsabilità disciplinare dei pubblici dipendenti, finalizzate ad accelerare e rendere concreto e certo nei tempi di espletamento e di conclusione l’esercizio dell’azione disciplinare […] la materia delegata è unicamente quella attinente al procedimento disciplinare, senza che possa ritenersi in essa contenuta l’introduzione di nuove fattispecie sostanziali in materia di responsabilità amministrativa. […] Non può dunque ritenersi compresa la materia della responsabilità amministrativa e, in particolare, la specifica fattispecie del danno all’immagine arrecato dalle indebite assenze dal servizio dei dipendenti pubblici. 4.2.- La disposizione in esame, già testualmente richiamata, prevede una nuova fattispecie di natura sostanziale intrinsecamente collegata con l’avvio, la prosecuzione e la conclusione dell’azione di responsabilità da parte del procuratore della Corte dei conti. Applicando ad essa il criterio di stretta inerenza alla delega precedentemente enunciato, risulta inequivocabile il suo contrasto con l’art. 76 Cost. Sebbene le censure del giudice rimettente siano limitate all’ultimo periodo del comma 3-quater dell’art. 55-quater, che riguarda le modalità di stima e quantificazione del danno all’immagine, l’illegittimità riguarda anche il secondo e il terzo periodo di detto comma perché essi sono funzionalmente inscindibili con l’ultimo, così da costituire, nel loro complesso, un’autonoma fattispecie di responsabilità amministrativa non consentita dalla legge di delega”).

L’assenza di coordinate testuali induce a riempire il sopravvenuto vuoto normativo alla luce del sistema.

Se è innegabile la portata sanzionatoria dell’art. 55- quinquies (su cui, ad es., App. Sicilia, sent. n. 119/2019: “[…] l’obbligo del risarcimento del danno all’immagine della P.A., correlato ad episodi di assenteismo fraudolento si configura come fattispecie peculiare appositamente tipizzata dal legislatore […] non v’è dubbio che i frequenti interventi normativi recentemente succedutisi appaiono improntati ad una crescente severità nel disciplinare le conseguenze dell’assenteismo fraudolento del dipendente pubblico”), è parimenti complesso emancipare il “danno d’immagine” cui fa riferimento l’art. 55- quinquies, c. 2, dall’onere della Procura di puntualmente allegare e provare l’entità della posta risarcitoria, in ossequio al principio di cui all’art. 2697 c.c., fatto proprio dall’art. 94 c.g.c. (Sez. Riun., sent. n. 12/2011; sulla prova del danno all’immagine, ad es., Sez. I App., sent. n. 428/2017, par. 8).

La verifica della correttezza del quantum non può che dipendere da un vaglio di proporzionalità in concreto, imposto dai canoni costituzionali (non da ultimo l’art. 3 Cost. rispetto al tertium comparationis dell’art. 1, c. 1- sexies, l. n. 20/1994) e dalla giurisprudenza sovranazionale.

Infatti, pur avendo i parametri di valutazione del danno all’immagine carattere ontologicamente equitativo (ad es., con riguardo alla fattispecie dell’assenteismo, Sez. Piemonte, sent. n. 57/2017; Sez. Calabria, sent. n. 265/2020), e pur potendosi la quantificazione fondare su prove anche presuntive o indiziarie (Sez. Riunite, sent. n. 10/2003), l’ortodossia della determinazione del quantum è preservata se contenuta negli argini di una “doppia proporzionalità”, ossia a un tempo di:

– una prima proporzionalità rispetto al fatto;

– una seconda proporzionalità rispetto all’entità del danno patrimoniale.

Criterio siffatto è non solo implicito al dettato art. 1, c. 1- sexies, l. n. 20/1994 (non applicabile alla fattispecie ma, come si è detto, tertium comparationis rispetto all’art. 3 Cost.), che introduce una tecnica di quantificazione parametrata al dato patrimoniale (la “somma di denaro” o “il valore patrimoniale di altra utilità illecitamente percepita dal dipendente”), ma appare altresì conforme ai più recenti orientamenti pretori.

A rilevare è l’indirizzo della giurisprudenza della Suprema Corte sui cc.dd. danni punitivi, ormai ammessi nel nostro ordinamento – nonostante la precedente, contraria, tesi pretoria – purché conformi, non solo al principio di legalità (artt. 23 e 25 Cost.), ma anche al criterio di proporzionalità rispetto al fatto e all’entità dei danni compensativi (Cass., Sez. un., sent. 5 luglio 2017, n. 16601: “[…] il controllo delle Corti di appello [sia] è portato a verificare la proporzionalità tra risarcimento riparatorio-compensativo e risarcimento punitivo e tra quest’ultimo e la condotta censurata, per rendere riconoscibile la natura della sanzione/punizione”); a rilevare è, prima ancora, la giurisprudenza sovranazionale, che, pur ormai consentendo più risposte sanzionatorie in relazione a un medesimo fatto, richiede che la loro sommatoria sia conforme all’invocato principio di proporzionalità (ad es., Corte EDU, sent. 15 novembre 2016, ric. nn. 24130/11 e 29758/11, A and B v. Norway, per la quale, tra l’altro, la sanzione imposta all’esito di un procedimento deve essere tenuta presente nell’altro, in modo da non far gravare sull’interessato un onere eccessivo, e C. Giust., sent. 20 marzo 2018, C-524/15 Menci, secondo cui le norme devono consentire di garantire che la severità del complesso delle sanzioni sia limitato a quanto strettamente necessario rispetto alla gravità del fatto; sulla verifica di proporzionalità in concreto, anche C. cost., sent. 23 giugno 2020, n. 123, con specifico riferimento alla valutazione della giusta causa di cui all’art. 2106 c.c. del licenziamento ex art. 55- quater d.lgs. n. 165/2001).

E, nella nostra materia, la proporzionalità rispetto al fatto è assicurata dalla concreta verifica della gravità di quest’ultimo, del fenomenico atteggiarsi della condotta, della sua eventuale reiterazione nel tempo, della posizione ricoperta dalla parte convenuta (con riferimento all’importanza della sua funzione e alla delicatezza dei suoi compiti), del grado di diffusività e risonanza dell’episodio (il c.d. clamor fori, che, pur non condizionando l’an del pregiudizio, inevitabilmente incide sulla sua quantificazione; ad es., Sez. App. Sicilia, sent. n. 119/2019; Sez. II App., sent. n. 290/2020).

Al riscontro in concreto dei tradizionali criteri oggettivo (l’intrinseca idoneità del fatto ad arrecare un pregiudizio di tipo reputazionale al soggetto passivo per la gravità del comportamento illecito tenuto dal dipendente e l’entità del suo scostamento rispetto ai canoni ai quali egli avrebbe dovuto obbligatoriamente ispirarsi), soggettivo (il ruolo dell’agente nell’ambito della struttura amministrativa) e sociale (l’ampiezza della diffusione nell’ambiente sociale, anche per effetto del clamor fori e dell’eco giornalistica dell’accaduto; riscontro dei richiamati indicatori che è stato confermato, ad es., all’esito di C. cost., sent. n. 61/2020, cit., da Sez. Calabria, sent. n. 265/2020, ove si afferma: “[…] si deve […] fare riferimento alla copiosa giurisprudenza di questa Corte […] la quale, al fine precipuo di evitare soluzioni arbitrarie, richiede che tale quantificazione si basi su di un’analisi in concreto delle singole fattispecie di comportamento illecito e si fondi su una serie di indicatori ragionevoli: a) di natura oggettiva, inerenti alla natura del fatto, alle modalità di perpetrazione dell’evento pregiudizievole, alla eventuale reiterazione dello stesso, all’entità dell’eventuale arricchimento; b) di natura soggettiva, legati al ruolo rivestito dal pubblico dipendente nell’ambito della Pubblica Amministrazione; c) di natura sociale, legati alla negativa impressione suscitata nell’opinione pubblica locale ed anche all’interno della stessa Amministrazione, all’eventuale clamor fori e alla diffusione ed amplificazione del fatto operata dai mass-media, la quale diffusione non integra, dunque, la lesione del bene tutelato, indicandone semplicemente la dimensione”) deve, poi, aggiungersi il secondo vaglio di proporzionalità, teso a evitare che il danno punitivo irragionevolmente sovrasti quello compensativo.

Ciò è, del resto, conforme alla stessa tradizione di common law, che, nell’ammettere i cc.dd. danni punitivi, ne correla l’entità a quelli compensativi, ostando a condanne eccessivamente afflittive (U.S. Supreme Court, State Farm Mutual Automobile Insurance Co. v. Campbell, 538 U.S. 408 (2003), che richiama la due process clause; sul divieto di liquidazioni di danni “grossly excessive”, anche U.S. Supreme Court, Philip Morris USA v. Williams, 549 U.S. 346 (2007)).

Ora, la verifica in concreto degli elementi oggettivo, soggettivo e sociale induce, infatti, a considerare dapprima l’entità della condotta, quindi la qualifica soggettiva della convenuta e, infine, la rilevanza mediatica dei fatti contestati.

Il secondo vaglio di proporzionalità passa per la verifica della non irragionevole divaricazione della posta sanzionatoria rispetto al danno patrimoniale compensativo, corrispondente alla somma di 31,54.

Dal concorso dei due test di proporzionalità discende la necessità di determinare l’importo ex art. 1226 c.c. in una misura non irragionevolmente eccessiva, anche considerato, in un’ottica imposta dalle Corti sovranazionali, il contestuale concorso del binario penale con quello disciplinare, culminato con il licenziamento della dipendente.

È lo stesso principio di proporzionalità a imporre, al contempo, di evitare che, ad una troppo significativa riduzione del quantum, si accompagni lo svilimento, non solo della ratio delle recenti novelle, ma anche di quel prestigio della p.a. – leso dal contegno della convenuta – che il ristoro mira a ripristinare (in questo senso, Sez. Trentino-Alto Adige, sent. n. 48/2020, § 3.1: “[…] il Collegio non condivide neppure la tesi difensiva finalizzata a limitare l’importo del danno risarcibile in applicazione del criterio indicato dall’art. 1, c. 1- sexies, della legge n. 20/1994, in quanto tale disposizione prevede unicamente una presunzione iuris tantum in ordine alla quantificazione del danno subito dall’erario e dunque un criterio meramente indicativo per il Giudice […] Nel caso di specie si ritiene del tutto inadeguato l’importo pari al doppio del danno patrimoniale arrecato al datore di lavoro pubblico, trattandosi di somme irrisorie che non riflettono l’effettivo vulnus arrecato al prestigio e alla personalità dell’Amministrazione”).

L’importo posto a risarcimento deve, in definitiva, valorizzare:

– da una parte, le prove dedotte dall’accusa (prove che inducono a differenziare il caso che ne occupa ad es. da quello di cui in Sez. Toscana, sent. n. 75/2020, ove era del tutto mancata la produzione di articoli di stampa), a fronte delle deduzioni contrarie della parte convenuta (nei limiti delle scarne prove dalla stessa dedotte, sia in relazione alle proprie effettive condizioni al momento del fatto causativo del danno sia alla tesi – indimostrata e indimostrabile, vuoi soltanto per i limiti del c.d. segreto giornalistico ex art. 2 l. 3 febbraio 1963, n. 69, in forza dell’esplorativo capitolo di prova sub n. 5), pag. 15 della comparsa di costituzione – per cui l’Ufficio del Vicesindaco avrebbe dato origine al clamor fori); 

– dall’altra, l’intentio del legislatore (che verrebbe contraddetta dalla mera applicazione del parametro del duplum – così, Sez. Trentino-Alto Adige, sent. n. 48/2020) di reprimere il fenomeno dell’assenteismo fraudolento dei dipendenti pubblici dal posto di lavoro, per come dimostrata dalle significative novelle che si sono succedute (a propria volta radicate sulla massima di esperienza, non smentita dall’odierna controversia, per cui il singolo episodio porta con il sé il fumus di una reiterazione nel tempo di comportamenti analoghi).

Ferma restando la non operatività del potere riduttivo dell’addebito ex art. 52, c. 2, del R.D. n. 1214/1934 (siccome incompatibile con il carattere doloso delle condotte; ad es., Sez. II App., sent. n. 469/2019), valutate le peculiarità dei fatti, insieme alla loro diffusione mediatica (per come provata dagli allegati alla segnalazione, doc. all. n. 1 alla citazione, e alla stessa comparsa di costituzione e risposta della parte, doc. all.ti nn. 4-5-6) e al contempo all’afflittività dell’irrogato licenziamento, la Sezione ritiene equa la condanna ex art. 1226 c.c. della parte convenuta al risarcimento del danno all’immagine nella complessiva misura di € 2.000,00 (rivalutazione inclusa), oltre interessi legali dalla pubblicazione della sentenza all’effettivo soddisfo.

Le spese di giustizia seguono la soccombenza ai sensi dell’art. 31, c. 1, d.lgs. n. 174/2016 e sono poste a carico di omissis nella misura liquidata in dispositivo.

P.Q.M.

La Corte dei conti, Sezione Giurisdizionale per la Regione Emilia-Romagna, definitivamente pronunciando,

accoglie parzialmente

la domanda attorea come da motivazione, e per l’effetto

condanna

omissis al pagamento, in favore del Comune di omissis, dell’importo di                € 2.000,00 (duemila/00), già comprensivi di rivalutazione monetaria, oltre interessi legali dalla pubblicazione della sentenza all’effettivo soddisfo.

Condanna, altresì, la convenuta omissis al pagamento delle spese di giustizia, che sino alla pubblicazione della sentenza liquida in € 144,00 (centoquarantaquattro/00).

Manda alla Segreteria per i conseguenti adempimenti.

Manda alla Procura della Repubblica presso il Tribunale di Ferrara per le valutazioni di competenza.

Così deciso in Bologna nella camera di consiglio del 27 ottobre 2021, tenuta in remoto.

               L’ESTENSORE                                      IL PRESIDENTE

               f.to digitalmente                                      f.to digitalmente

            Andrea GIORDANO                          Marcovalerio POZZATO

Depositata in Segreteria il giorno 20 dicembre 2021

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