Fabrizio Giulimondi
Costituzione materiale, Costituzione formale e riforme costituzionali, Eurilink Editore, Roma, 2016, pp. 215, € 18,00
di Salvatore Sfrecola
La domanda che Fabrizio Giulimondi si pone in apertura di questo suo impegnativo lavoro, se cioè la Costituzione vigente sia anche “vitale” nella sua originaria impostazione ovvero se, in ragione della lettura che ne hanno dato anche di recente i titolari di alcune delle funzioni fondamentali, dal presidente della Repubblica al presidente del Consiglio dei ministri, possa addirittura ritenersi superata la qualificazione di “repubblica parlamentare”, dimostra, con il concorso di autorevoli richiami dottrinali ed originali riflessioni personali, che la necessità di por mano alla normativa sull’ordinamento della Repubblica per un’opera di “manutenzione”, come si usa dire, è attuale e pressante. Perché, lasciato inalterato l’impianto dei principi fondamentali, alla Carta siano apportati aggiustamenti nella organizzazione dei poteri, del governo e del parlamento in primo luogo, a cominciare da quel “bicameralismo perfetto” o “paritario” che per molti è la ragione degli ostacoli ad una adeguata governabilità. Intesa, questa, come maggiore stabilità ed efficienza dell’esecutivo, cioè come capacità di decidere nei modi più adeguati e nei tempi funzionali agli effetti ricercati. Anche se la stabilità è prevalentemente rimessa al sistema elettorale e l’efficienza alla normativa ordinaria che disciplina obiettivi e procedimenti.
La necessità di adeguare l’ordinamento istituzionale alle esigenze appena ricordate è ben presente, ad esempio, nel pensiero di Costantino Mortati laddove, ritenuta “priva di fondamento la censura di dualismo rivolta contro l’attribuzione di rilievo giuridico alla costituzione materiale, poiché viceversa è la concezione dell’ordine sociale come sintesi di essere-dovere la sola valevole a ricondurre ad unità il complesso delle sue manifestazioni di vita”. Ne consegue che poiché “si affida alla costituzione formale una funzione di rafforzamento delle posizioni di potere dominanti”, la sua osservanza “rimane condizionata alla sua congruenza rispetto agli interessi cui è finalizzata”. Interessi che “si fanno valere, in via ordinaria, attraverso i procedimenti di attuazione dei principi consacrati nel testo costituzionale, affidati ad organi sottoposti all’influenza delle forze dominanti e da esse indotti ad interpretarli in modo da consentire mutamenti più o meno sostanziali del loro significato e della loro portata”.
È quanto rileva Giulimondi dall’esperienza concreta, dalla interpretazione che dei rispettivi ruoli è stata data ancora di recente dal Capo dello Stato e dal Presidente del Consiglio, i quali dominano la scena politica e parlamentare, il primo indicando all’agenda del governo la necessità di riforme puntualmente delineate, che definisce sua “eredità”, il secondo assumendo in proprio l’iniziativa della revisione costituzionale, nonostante il monito di Piero Calamandrei secondo il quale “quando si scrive la Costituzione, i banchi del governo devono restare vuoti”. Ugualmente quando si tratta di legge elettorale, in relazione alla quale il Presidente del Consiglio ha determinato forma e tempi della decisione parlamentare, spesso ricorrendo a mozioni di fiducia con conseguente limitazione della capacità emendativa dei singoli parlamentari, in qualche modo dando ragione a chi parla di “crisi del Parlamento” che in ogni caso evidenzia “una questione di fondo, la rappresentanza, come rapporto Parlamento/società; la decisione come rapporto Parlamento/governo” (Manzella).
Questione complessa che, in vario modo, pone alla politica e alla dottrina la necessità di ricercare i momenti critici della attività politica, per quanto riguarda il ruolo dei gruppi parlamentari e l’autorità dei partiti della maggioranza rispetto alle esigenze del governare, perseguite con ampio ricorso alla decretazione d’urgenza e alla delega legislativa che si riconosce sempre meno nell’art. 76, quanto alla indicazione dei “principi e criteri direttivi” che lasciano al potere delegato spazi più ampi di quelli che gli si riconoscevano un tempo.
In questo volume Giulimondi riprende, dunque, temi sui quali si è sviluppato da tempo, e in particolare negli ultimi anni, un dibattito che recupera antiche e più recenti proposte sul ruolo del Presidente della Repubblica, del Presidente del Consiglio, delle Camere e dei rapporti tra lo Stato e le Regioni, che l’Assemblea costituente ha lasciato in eredità al dibattito della politica e degli studiosi avendo avuto di mira, nella fase critica nella quale la Carta è stata scritta, un assetto capace di ottenere il più ampio consenso possibile, in pratica quasi l’unanimità, in ragione di quello che fu definito “patto” o “compromesso” costituzionale, espressione della responsabilità politica dei partiti universalmente apprezzata. Quella eredità sospesa ha formato oggetto, almeno dai primi anni ’80, dei lavori delle Commissioni parlamentari bicamerali, presiedute da Aldo Bozzi (1983-1985), Ciriaco De Mita – Nilde Iotti (1992-1994) e Massimo D’Alema (1997-1998), le quali hanno affrontato un po’ tutte le tematiche del funzionamento della seconda parte della Costituzione, dal bicameralismo, alla governabilità, al ruolo del Presidente della Repubblica, alla Magistratura.
E se le conclusioni cui sono pervenuti quei lavori non hanno imboccato la strada dell’art. 138 per dare concretezza alle proposte, in ragione della mancanza di quell’ampio consenso da sempre ritenuto necessario per modificare la Carta, nondimeno il dibattito e il confronto hanno continuato ad evidenziare pienamente l’esigenza di rincorrere l’attualità, come dimostra la circostanza che questo libro, il quale interviene su “Costituzione materiale, Costituzione formale e riforme costituzionali”, giunge nelle librerie mentre è in corso un vivace confronto tra i fautori della legge di revisione votata dalle Camere e quanti avrebbero desiderato scelte diverse e, pertanto, invitano i cittadini elettori a bocciare le soluzioni adottate.
Delle scelte operate dalle Camere dà ampia testimonianza l’Autore richiamando le opinioni di autorevoli costituzionalisti per convenire o garbatamente dissentire sulla capacità concretamente innovativa del nuovo ordinamento della Repubblica, per condurre il lettore a scoprirne pregi e difetti che, alla luce dell’esperienza, sempre essenziale secondo l’einaudiano “conoscere per deliberare”, consentono di dire se effettivamente la riforma ha l’autorevolezza di un’idea funzionale al perseguimento dell’interesse della democrazia e del buon funzionamento delle istituzioni. Il che significa efficienza del sistema normativo e della governabilità, in un contesto di pesi e contrappesi che rassicurino i cittadini che non si è barattata l’efficienza con i diritti di libertà politica. Considerato che il sistema di voto è parte integrante dell’assetto istituzionale e la legge elettorale 6 maggio 2015, n. 52, assicura alla lista che raggiunge il 40% dei consensi o che prevalga nel ballottaggio, un premio di maggioranza che le consente di disporre di 340 seggi alla Camera (pari al 54% dei deputati), in tal modo condizionando scelte importanti, l’elezione del Presidente della Repubblica, dei giudici costituzionali, dei componenti laici del Consiglio Superiore della Magistratura.
Al centro della revisione è innanzitutto la razionalizzazione del bicameralismo, modello accusato di assoluta inadeguatezza quanto ai tempi della decisione legislativa e del complessivo rapporto con il governo, sicché si è scelta la strada di lasciare la Camera unica espressione della volontà popolare e, pertanto, abilitata a dare fiducia al governo, per affidare al Senato la rappresentanza delle autonomie locali, regioni e comuni. Con attenzione per la normativa da attuare in ragione dell’appartenenza dell’Italia all’Unione Europea.
Un dibattito che viene da lontano – come si è fatto cenno – se, già in Assemblea costituente Mortati aveva individuato nella seconda Camera tre funzioni “ritardatrice della procedura legislativa” per riflettere sulle decisioni prese; “integrazione della rappresentanza”; “assunzione delle competenze specifiche”; funzioni che avrebbero richiesto un sistema di formazione “non collegato con l’elezione diretta da parte del corpo elettorale indifferenziato”. Le proposte allora furono molte e articolate per giungere alla decisione di puntare su una scelta che si basasse sulla differenza di età quanto all’elettorato attivo (25 anni) e passivo (40 anni), rispetto alla Camera dei deputati e su un sistema elettorale “a base regionale” su collegi uninominali collegati, quindi con correzione proporzionale. Ciò che sembrò delineare una Camera di riflessione con eletti ed elettori che potessero vantare una maggiore esperienza ed avendo sullo sfondo percepito l’esigenza di dare corpo ad una rappresentanza delle regioni e degli enti locali, tornata prepotentemente di attualità anche se in un modo sulla cui efficacia taluno dubita, in ragione dell’accentuato centralismo reso palese dalla “clausola di garanzia” che, posta a tutela dell’ “unità giuridica o economica della Repubblica, ovvero a tutela dell’interesse nazionale”, si presta ad inevitabili contestazioni.
Una riforma ampia, dunque, ritenuta migliorabile, il che conferma che quello dell’adeguatezza della Costituzione alle esigenze della governabilità, intesa come espressione riassuntiva del buon funzionamento delle istituzioni, continua ad essere un cantiere aperto.
Resta sullo sfondo il tema delle istituzioni di garanzia, il cui rilievo appare nel tempo a tratti enfatizzato, in particolare in Assemblea costituente nel clima infuocato dalle contrapposizioni ideologiche, in parte trascurato, rimettendosi da taluno al giudizio del popolo l’efficacia complessiva del sistema e la sua validità nel tempo. Riguardano il ruolo di garanzia del presidente della Repubblica, la forma di governo parlamentare, che si ritiene non essere stata intaccata, la garanzia delle minoranze e dell’opposizione, le competenze dello Stato e delle regioni, già disciplinate dalla legge costituzionale del 2001 che non ha fatto buona prova di sé. Un sistema di garanzie capace di generare il più ampio consenso “perché le regole del giuoco, che riguardano allo stesso modo maggioranza e opposizione, non possono essere dettate da contingenti esigenze di parte”, come ha scritto Elena Paciotti nella prefazione ad un agile libretto che raccoglie le risposte fornite da alcuni costituenti in tema di attualità della Costituzione.
L’efficacia di una Carta costituzionale, ha scritto Onida, “si gioca molto sul suo essere una casa comune per cui “se spesso il “cambiamento” è presentato come la cifra dell’agire politico, esso non può essere un fine di per sé quando si ha a che fare con la materia costituzionale. Le costituzioni, quando sono valide… esprimono non ciò che è mutevole ma ciò che è destinato a durare nel tempo”.
Chiudo ancora con una affermazione di Onida, il quale ricorda che cambiare richiede l’esistenza di “progetti di revisione ampiamente condivisi” a “salvaguardia delle basi comuni del nostro ordinamento democratico”.