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Corruzione e WhistleBlowing: Non c’è diritto senza etica

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Corruzione e WhistleBlowing: Non c’è diritto senza etica *

dell’Avv. Stefano Fondi

SOMMARIO: 1. La corruzione come problema. 2. Cenni sulla legge n. 190/12. 3. Il WhistleBlowing. 4. La ricerca di nuovi mezzi anticorruzione. 5. La corruzione tra prevenzione ed etica.

  1. La corruzione come problema.

La corruzione è il grande male del nostro tempo.

Per “corruzione” (sia politica che amministrativa) si intende l’abuso di ruoli e risorse (per la maggioranza pubblici, ma anche privati) al fine di conseguire vantaggi personali.

In Italia il fenomeno corruttivo, come è ormai noto, implica costi ingentissimi per il sistema in termini di lesione della libera concorrenza, freno alla crescita per le imprese coinvolte e inefficienza della macchina della Pubblica Amministrazione.

In un’ottica ancora più a vasto raggio, essa mina la fiducia dei mercati, frena gli investimenti (anche) esteri e determina una perdita di competitività per gli stati.

Se immediatamente evidente è la gravità del problema, più difficile, anzi problematica, risulta una misurazione del fenomeno in termini di dimensioni.

Paradossale è, a riguardo, la constatazione del livello inversamente proporzionale tra la corruzione denunciata e sanzionata, rilevata tramite i dati giudiziari, la quale sembra ridimensionarsi e la corruzione c.d. “percepita”, invece in vorticosa crescita.

Quanto alla seconda ci si riferisce al notissimo “Corruption Perception Index” della Ong Transparency ed ai dati Ocse, riportati frequentemente, spesso in modo enfatico e acritico, dai media e che vedono l’Italia stabilmente collocata in posizioni poco lusinghiere nelle classifiche internazionali.

Non è questa la sede per occuparsi della attendibilità di tale metodologia di rilevazione, piuttosto, preme riflettere proprio sul fatto che tutti i dati giudiziari (denunce, arresti, condanne) nel campo della corruzione, da anni, mostrino una “dinamica discendente” (cfr. La corruzione in Italia. Per una politica di prevenzione. Analisi del fenomeno, profili internazionali e proposte di riforma, a cura del Governo italiano, 2012, p. 8.).

Oltre a fattori di carattere normativo (può citarsi la disciplina della prescrizione del reato) ciò è dovuto essenzialmente a motivi di carattere culturale.

Essi si sostanziano nella “perdita di fiducia dei cittadini nel sistema giudiziario” (così testualmente La corruzione in Italia, cit, p. 7) e nel consolidarsi di un “sistema” corruttivo, inteso come “prassi stabile e strutturata, rete istituzionalizzata di relazioni e scambi illeciti, coinvolgente tutti i gruppi sociali, dalle élites ai comuni cittadini” (G. Fiandaca).

Come è stato ben notato quando fu enucleato il concetto di “concussione ambientale”, si è ormai creato un “clima culturale di regole antagonistiche (rispetto a quelle legali)” e un “sistema di valori eteronomo” (C. E. Paliero).

 

  1. Cenni sulla legge n. 190/12.

La legge n. 190/2012, ha cercato di dare una prima (non esaustiva) risposta a questo grave fenomeno.

Essa è da leggere in uno con i successivi provvedimenti legislativi che, con pregi e difetti, si sono occupati dei c.d. “reati collegati” (introduzione del reato di autoriciclaggio, riforme dei reati di false comunicazioni sociali e scambio elettorale politico-mafioso).

Sul versante della corruzione “politica” sono intervenuti, poi, il d.lgs. n. 235/2012 sulle incandidabilità e sul divieto di ricoprire cariche pubbliche a seguito di condanne e la legge n. 13/2014 su trasparenza e democraticità nei partiti.

La legge del 2012, oltre ad agire, sul piano repressivo, provvedendo – seppur con gravi lacune – alla riforma dei reati contro la P.A., tenta di predisporre, unitamente alla normativa emanata in attuazione delle deleghe in essa conferite, un articolato sistema anticorruzione da adottare nel settore dell’Amministrazione Pubblica.

Esso dovrebbe agire a più livelli: preventivo, gestionale e informativo.

La lotta all’illegalità è un tema che lambisce trasversalmente fondamentali principi che presidiano l’organizzazione e l’azione amministrativa: i principi di legalità, buon andamento e imparzialità dell’amministrazione (art. 97, comma 2 Cost.) nonché quello di responsabilità (art. 28 Cost.).

La trasparenza e la pubblicità, come applicazioni del citato principio di imparzialità, sono il dato da cui è partito il legislatore per rendere l’amministrazione controllabile e verificabile dal cittadino, sul presupposto che nell’opacità si nascondano i comportamenti di maladministration (cfr. gli obblighi di cui al d.lgs. n. 33/2013 sulla pubblicazione di documenti e dati inerenti le risorse utilizzate e i servizi erogati; il diritto di accesso civico spettante ad ogni cittadino in ordine ai dati suddetti, a prescindere dalla titolarità di interessi procedimentali).

Su questa amministrazione “aperta”, su questa “accessibilità totale” si innestano le procedure di contrasto all’illegalità quali: l’adozione di un modello di risk management per la mappatura dei rischi,  l’adozione in ogni Amministrazione di un piano triennale di prevenzione della corruzione modellato sul Piano Nazionale approvato dall’Autorità Nazionale Anticorruzione (ANAC), la disciplina sui conflitti di interessi ed anche le norme sulla inconferibilità ed incompatibilità degli incarichi (d.lgs. 39/2013).

Inoltre: la previsione di un codice di comportamento per i dipendenti della P.A la cui violazione da luogo a responsabilità disciplinare (art. 54 d.lgs. 165/01), temporanei divieti di pantouflage  (passaggio al settore privato) per chi ha esercitato poteri autoritativi o negoziali per conto della P.A., l’istituzione delle white list presso le Prefetture con l’elenco delle imprese appaltatrici non soggette ad infiltrazione mafiosa, divieti e limiti all’assegnazione di funzioni per i condannati per reati contro la P.A. (anche in via non definitiva).

 

  1. Il WhistleBlowing.

Rilevante è, nell’ambito della legge del 2012, la norma prevista per attuare una “rete di protezione” nei confronti del dipendente che segnala gli illeciti (whistleblowing).

Il nuovo art. 54 bis del d.lgs 165/01 prevede che “Fuori dei casi di responsabilità a titolo di calunnia o diffamazione, ovvero per lo stesso titolo ai sensi dell’articolo 2043 del codice civile, il pubblico dipendente che denuncia all’autorità giudiziaria o alla Corte dei conti o all’Autorità nazionale anticorruzione (ANAC), ovvero riferisce al proprio superiore gerarchico condotte illecite di cui sia venuto a conoscenza in ragione del rapporto di lavoro, non può essere sanzionato, licenziato o sottoposto ad una misura discriminatoria, diretta o indiretta, avente effetti sulle condizioni di lavoro per motivi collegati direttamente o indirettamente alla denuncia”.

La norma prosegue, poi, disciplinando il divieto di rivelazione del nome del segnalante nei procedimenti disciplinari (la tutela della privacy è fondamentale per incentivare la segnalazione), con un importante limite tuttavia: “Qualora la contestazione sia fondata, in tutto o in parte, sulla segnalazione, l’identità può essere rivelata ove la sua conoscenza sia assolutamente indispensabile per la difesa dell’incolpato”.

Infine è previsto il controllo del Dipartimento della Funzione Pubblica su eventuali procedimenti disciplinari discriminatori e la sottrazione delle segnalazioni dal diritto di accesso di cui alla legge n. 241/90 sul procedimento amministrativo.

La norma è, dunque, riferita esclusivamente ai dipendenti del settore pubblico e presuppone l’identificazione del segnalante (non riguarda le segnalazioni anonime).

Restano fuori anche le segnalazioni di cittadini o imprese, le quali, comunque possono essere ricevute dall’ANAC pur seguendo, naturalmente, un iter procedurale diverso da quelle di cui all’art. 54 bis.

L’oggetto della segnalazione riguarda sia le fattispecie di reato contro la P.A, sia altre pratiche distorsive – a prescindere dalla rilevanza penale – concretizzanti abuso di funzioni e risorse, malfunzionamenti e inquinamenti (esterni) dell’azione amministrativa.

Chiaramente la segnalazione ha bisogno di essere il più possibile circostanziata e non sono ammissibili – al fine di evitare attività inutili e dispendiose – segnalazioni basate su meri sospetti o voci.

Come visto, la protezione del dipendente decade nei “casi di responsabilità a titolo di calunnia o diffamazione o per lo stesso titolo ai sensi dell’art. 2043 del codice civile”. La norma tutela, dunque, la segnalazione di buona fede.

Alla luce del generico riferimento alla “responsabilità”, si ritiene che – a tutela del dipendente – la protezione debba cessare solo a seguito di accertamento giudiziale di questa, vale a dire in presenza di una sentenza (anche di primo grado).

L’istituto, ovviamente, non interferisce con la diversa disciplina relativa al generale obbligo gravante su pubblici ufficiali e incaricati di pubblico servizio di riferire notizie di reato.

Proprio la figura del whistleblower è attualmente al centro di ferventi dibattiti in quanto esso è visto come veicolo indispensabile per l’acquisizione di informazioni inerenti irregolarità e attività illecite  (l’istituto è stato recepito anche in materia di vigilanza bancaria come previsto dall’art. 52 bis T.U.B. introdotto dal d.lgs. 72/2015).

Da più parti si lamenta che per rendere effettivo il sistema di segnalazione e la protezione del segnalante sia necessario rinforzare la normativa, ritenuta “generale ed astratta”, come sottolineato anche dall’ANAC nelle sue “Linee guida” emanate con determina n. 6/2015.

Proprio l’ANAC ha, comunque, tentato di specificare la normativa mediante le disposizioni inserite nel § 3.1.11 del Piano Nazionale Anticorruzione (PNA) e con l’indicazione di un modello procedurale nella “Linee guida” appena citate.

In Parlamento sono attualmente in corso i lavori inerenti una proposta di legge volta (nelle intenzioni) a dare disciplina compiuta al whistleblowing (Atti Camera n. 1751 e n. 3365).

Il compimento dell’iter legislativo del provvedimento (che si applicherebbe anche al settore privato), potrebbe, quindi, a breve far mutare la disciplina dell’istituto, le cui linee essenziali sono, tuttavia, già sostanzialmente delineate.

Problema che richiama l’attenzione non è solo la privacy del whistleblower ma anche la previsione di un sistema premiale, volto ad incentivare la segnalazione.

Spesso – con poca attenzione al dato tecnico-giuridico – si cita come modello di efficacia incentivante l’esempio della legislazione statunitense (False Claim Act) dove il premio all’informatore è commisurato a quanto recuperato dal Governo dagli illeciti per merito delle segnalazioni.

Si sono tentate anche quantificazioni del premio, ad esempio, basandolo sulla corresponsione di una somma di denaro parametrata in termini percentuali a quella oggetto di recupero a seguito della sentenza di condanna (definitiva) della Corte dei Conti per danno all’erario o danno all’immagine.

Esattamente su questa linea si muoveva, in modo frettoloso e superficiale, la prima versione del disegno di legge sopra citato (n. 1751).

Sulla opportunità delle misure premiali, c’è sostanziale unanimità: un meccanismo incentivante è indubbiamente decisivo per stimolare le segnalazioni.

Tuttavia, la strada della condanna parametrata al danno all’erario o per danno all’immagine è, per varie ragioni, difficilmente praticabile.

La precisa quantificazione del danno derivante dal patto corruttivo è il primo ostacolo.

La corruzione non determina soltanto passaggi diretti di denaro tra privato e pubblico funzionario, ma anche, si pensi al caso degli appalti di lavori pubblici, più ampi ed articolati effetti dannosi come, ad esempio, l’aumento del costo dei lavori in conseguenza di ritardi nella consegna dell’opera o a causa di perizie di variante inutili. Oppure (è il caso delle forniture), si pensi al danno conseguenza della qualità scadente della fornitura.

I tempi del processo contabile – sarebbe necessaria una sentenza definitiva – sono, poi, tali da azzerare l’efficacia incentivante di eventuali premi ad esso legati.

Ciò anche nel caso in cui l’Amministrazione danneggiata riuscisse a quantificare esattamente l’ammontare del danno complessivo costituendosi in giudizio.

Inoltre è da tenere a mente che questi processi, in particolare dopo il d.l. 78/2010, si celebrano dopo quelli penali: in particolare il danno all’immagine è stato rigidamente ancorato al passaggio in giudicato della sentenza di condanna per un reato contro la P.A.

Né, naturalmente, si potrebbe pagare una somma prima che la sentenza passi in giudicato.

Ulteriori cause che renderebbero incerto il parametro sono l’ampio uso, da parte della Corte, del potere riduttivo dell’addebito (nonostante il dolo della condotta) ed il fattore prescrizione che, in questa materia, spesso compie il proprio corso.

Il nuovo testo del disegno di legge sopra citato sembra comunque aver tagliato di netto il problema ed il premio in denaro è stato sostituito da generiche ed indefinite “forme di premialità” da concordarsi in sede contrattuale.

Il tema – caratterizzato finora da assoluta improvvisazione – richiederebbe una riflessione seria: qualsiasi forma di premialità dovrebbe tener conto di una ineludibile esigenza di certezza del fatto presupposto del danno, dovendosi conseguentemente legare alla definitività dei relativi giudizi (penale e contabile).

La ragione è ovvia: un premio connesso ad un fatto non certo darebbe luogo a forme maligne di incentivazione delle segnalazioni.

Quindi anche pensando ad un sistema premiante modellato su quello già teorizzato nel campo delle risorse umane del settore privato oppure ad un piano da definirsi contrattualmente, ci si dovrebbe confrontare sempre con la suddetta realtà.

L’argomento, dunque, è impegnativo, molto di più di quanto gli sbrigativi lavori parlamentari potevano far pensare.

 

  1. La ricerca di nuovi mezzi anticorruzione.

Più in generale, nell’ambito della più vasta riflessione sulla corruzione, si chiede un potenziamento complessivo della disciplina normativa.

Si va dalle richieste di aumento dei poteri dell’ANAC (poteri di organo vigilante e regolatore del mercato degli appalti pubblici e sanzionatori sembrano in cantiere nell’ambito della riforma che toccherà questa materia) fino alla rimodulazione della risposta repressiva.

Per quest’ultima si auspica un più ampio uso di misure interdittive e di tipo patrimoniale, nonchè l’introduzione di benefici per la collaborazione post delictum.

Tuttavia l’aspetto più critico è l’opportunità, avanzata da molti, di istituire le figure degli “infiltrati” e degli “agenti provocatori” in funzione anticorruzione.

La considerazione di fondo è l’assimilazione, a livello di fenomenologia e contrasto, tra corruzione e criminalità organizzata.

Il sistema penale conosce la figura degli “infiltrati” nel campo degli stupefacenti, della criminalità organizzata o in materia di armi ed esplosivi (art. 9 legge 146/06 – “attività sotto copertura”) la cui attività è giustificata, in base al paradigma dell’adempimento di un dovere ex art. 51 c.p., al solo fine di raccolta delle prove (ad esempio l’infiltrato compie il “simulato acquisto” di armi o stupefacenti).

Oppure può citarsi la figura della falsa vittima, cioè di colui che agisce per far uscire allo scoperto l’autore di reati volti a coartare la volontà o ingannare (concussione e truffa).

Tuttavia si deve tener contro dei rigorosi limiti operativi che incontrano figure di tal genere (il c.d. “infiltrato” è una particolare figura di agente provocatore ma i limiti sono comuni, poiché unica è la disciplina del concorso di persone nel reato).

In particolare, è esclusa la punibilità nelle sole ipotesi in cui l’attività si risolve in osservazione, controllo e contenimento delle azioni illecite altrui: è consentito solo svelare l’attività illecita esistente ma non indurre o istigare al reato l’indagato, altrimenti il soggetto risponde di concorso (morale) nell’illecito.

Come è stato autorevolmente sottolineato (M. Gallo) il confine tra indagine e istigazione è labile e la liceità dell’agire richiede complesse e problematiche valutazioni da farsi caso per caso.

Non è casuale che la soluzione in esame – mentre abbia riscontrato immediati favori tra i sostenitori di un approccio marcatamente “inquirente” – abbia suscitato perplessità nella dottrina più attenta e accorta.

La criticità della figura è esemplificata, del resto, anche da noti casi giudiziari che sono scaturiti delle attività sotto copertura.

Tutto da verificare, infine, sarebbe l’impatto sull’azione amministrativa di queste figure, così come, quello degli auspicati “collaborati di giustizia”.

 

  1. La corruzione tra prevenzione ed etica.

Tirando le fila del discorso sul generale tema della lotta alla corruzione, va sicuramente dato un ruolo primario alla prevenzione, ormai essendo il controllo formale di legalità inidoneo da solo a scovare la maladministration e quelle repressivo penale di per sé tardivo e necessariamente post factum (pur avendo efficacia deterrente).

Dall’altro lato è anche vero, però, che l’effettività del sistema preventivo non deve costruire una Amministrazione occupata più nel controllarsi che nell’agire.

Basti ricordare che l’attuale sistema produce l’effetto per il quale i meccanismi anticorruzione si sovrappongono, integrandoli, agli ordinari procedimenti amministrativi (anche con incidenza della politica sull’Amministrazione, poichè i piani anticorruzione sono approvati dagli organi di indirizzo politico), le amministrazioni devono ottemperare a nuovi e gravosi compiti, non solo di monitoraggio, ma anche di tipo programmatico per elaborare i piani.

Dal punto di vista organizzativo manca una struttura tecnica per definire e gestire la politica di prevenzione e l’unica figura creata è il responsabile per la prevenzione che dovrebbe agire – nelle intenzioni della legge – in solitaria nonostante sia gravato da oneri complessi e responsabilità notevoli (ma la necessità di un adeguato supporto è avvertita dalla Circolare 1/2013 della Presidenza del Consiglio dei Ministri).

Il punto chiave è che tale complesso sistema – che comunque appesantisce il quadro giuridico – è da attuarsi senza aver previsto investimenti aggiuntivi a supporto.

Senza risorse è difficile che tale sistema possa sfuggire al rischio di formalismo e di burocratizzazione della macchina amministrativa.

Parlando di norme è inevitabile un richiamo all’esigenza di chiarezza (la CEDU parla di accessibilità e conoscibilità): bisogna semplificare il quadro normativo afflitto da una moltitudine e sovrapposizione di leggi che aumentano l’incertezza e, di conseguenza, il contenzioso. L’incertezza normativa è tale da minare lo stesso principio di legalità dell’Amministrazione di cui all’art. 97 Cost. nel suo significato più autentico

In ogni caso nessuna norma può arginare, da sola, un problema socio-culturale quale è lo scadimento del senso dell’etica pubblica.

In questo senso si deve iniziare una battaglia culturale, come via maestra nella lotta all’illegalità: la legge n. 190/2012, sul piano della promozione della cultura della legalità, compie solo un timido passo, consistente nell’avvio di percorsi formativi dedicati ai temi del rispetto delle regole e dell’etica pubblica, destinati (solamente) ai dipendenti delle Pubbliche Amministrazioni statali, affidandone l’elaborazione alla Scuola Superiore della P.A.

Di rilievo sono anche le white list di cui sopra ed il rating di legalità su base volontaria per le imprese rilasciato dall’Antitrust, cenni della creazione di una cultura delle reputazione, elemento essenziale per rinsaldare i legami di fiducia in un contesto sociale, come quello italiano, che ormai sembra averli  persi.

Resta da fare ancora tantissimo: la stessa legge del 2012, sembra, invero, più adempimento a sollecitazioni internazionali che espressione di una volontà politica di risolvere un problema etico e morale.

Impietose e – purtroppo – condivisibili risultano la parole di Gabrio Forti proprio sulla centralità del problema morale: “lo  scoramento e lo scarso rispetto di sé e della propria funzione (…) costituisce il principale fattore di indebolimento del sistema immunitario dei pubblici funzionari nei confronti del morbo corruttivo” e ciò è in insanabile contrasto con l’art. 54, comma 2 Cost. che richiama i principi di disciplina ed onore per chi adempie una funzione pubblica.

 

*Articolo destinato alla rivista Logos

 

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6 Commenti

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