del Dott. Stefano Imperiali,
Presidente di Sezione della Corte dei conti
1. L’interpretazione della legge da parte dei giudici.
L’art. 94 del progetto della Costituzione prevedeva: “I magistrati dipendono soltanto dalla legge, che interpretano e applicano secondo coscienza”. Il richiamo alla “coscienza” fu poi abbandonato, perché ritenuto “dichiarazione generica di ovvio significato” e quindi superflua, oppure “pericolosa” se letta come un’inammissibile accettazione della “costruzione teorica” del “cosiddetto <diritto libero>” (Ruini).[1]Era stato anche proposto (Laconi) un testo che prevedeva: “I magistrati sono soggetti soltanto alla legge, che interpretano e applicano secondo la volontà che vi è espressa”. Ma l’emendamento non venne accolto, poiché fu ritenuto che “l’affermare che la legge va interpretata secondo la volontà che vi è espressa è così elementare e tautologico, che non è davvero il caso di inserirlo in una Costituzione” (Ruini).
L’art. 94 del progetto fu poi trasfuso nell’art. 101, comma 2, della Costituzione, che stabilisce: “I giudici sono soggetti soltanto alla legge”.
Appare chiaro come i Costituenti fossero ispirati dalla teoria dell’interpretazione che ora viene chiamata cognitiva (o normativistica, positivista stretta, legalista-logicista, formalistica etc.): “I documenti normativi sono dotati di un significato proprio antecedente l’interpretazione. Gli interpreti altro non fanno che accertare e dichiarare questo significato già dato. In tal senso l’interpretazione è un’attività intellettuale di tipo conoscitivo. E pertanto il discorso interpretativo può essere vero o falso. E’ vera quella interpretazione che riferisce l’esatto significato delle parole o, alternativamente, quella che penetra la reale volontà del legislatore”.[2]
Attualmente, vieneinvece spessoritenutoche “ciascuna disposizione esprime potenzialmente non già una sola norma univocamente, ma più norme alternativamente: tante norme quante sono le possibili interpretazioni confliggenti (o semplicemente divergenti) di quell’unica disposizione”.[3]Inoltre, “la naturale difficoltà delle operazioni ermeneutiche, con l’inevitabile margine di <creatività> che esse implicano, è oggi accresciuta dalle caratteristiche di estrema complessità di un sistema normativo come il nostro, caratterizzato da un enorme numero di atti normativi in vigore, dalla loro stratificazione, dalla pluralità di soggetti da cui essi provengono, dall’ambiguità (talora voluta) delle formulazioni utilizzate”.[4]
Orbene, la molteplicità dei giudici chiamati a interpretare la stessa disposizione di legge ela conseguente concreta possibilità di risultati interpretativi divergenti possono portare, di fatto, a una vanificazione della fondamentale disposizione dell’art. 3, comma 1,della Costituzione, per il quale “tutti i cittadini”sono“eguali davanti alla legge”.[5]
Appare quindi evidente che“l’uniformità della interpretazione” costituisce un “valore essenziale di ogni ordinamento”. “La interpretazione della legge non può darsi mai per certa, è vero: ma almeno, essa deve essere prevedibile. Preesistenza della legge e prevedibilità della sua <lettura>, per via di un’opera coerente della giurisprudenza, realizzano l’esigenza di fondo dell’esperienza giuridica, cioè caratterizzata da norme; <de prima dignitate, ut certaesint>”.[6]
E’ stata pertanto da tempo ravvisata la necessità di un’attività di nomofilachia.[7]
- La nomofilachia nella giurisdizione ordinaria.
L’art. 65 del r.d. n. 12/1941 sull’ordinamento giudiziario dispone che“la Corte Suprema di Cassazione, quale organo supremo della giustizia, assicura l’esatta osservanza e l’uniforme interpretazione della legge, l’unità del diritto oggettivo nazionale, il rispetto dei limiti delle diverse giurisdizioni; regola i conflitti di competenza e di attribuzioni, ed adempie gli altri compiti ad essa conferiti dalla legge”.Questa disposizionederiva dagli studi del Calamandrei[8] e appare ispirata a una nozione formalistica dell’interpretazione,[9]che presuppone la possibilità di individuare come “esatta” una determinata portata della norma.[10]Trova comunque corrispondenza in varie disposizioni del vigente codice di procedura civile.
In primo luogo, l’art. 360 c.p.c.stabilisce che“le sentenze pronunciate in grado d’appello o in unico grado possono essere impugnate con ricorso per cassazione”, tra l’altro, “per violazione o falsa applicazione di norme di diritto”. Orbene, appare chiaro che la presenza di un orientamento chiaro e consolidato della giurisprudenza della Corte di Cassazione, posta al vertice del sistema delle impugnazioni, tenda comunque di per sé a indirizzare e uniformare la giurisprudenza dei giudici del primo e del secondo grado. Infatti, “il giudice di merito, il quale pronunci in modo difforme dai principi formulati dalla Corte di Cassazione, ben sa che la sua decisione potrà essere impugnata e, se del caso, annullata dalla Suprema Corte: ciò concorre a prevenire le difformità di decisione ed a garantire, anche nella giurisprudenza di merito, quella continuità di indirizzi che, a sua volta, favorisce le decisioni simili in casi simili, e che si può ritenere attuativa del principio costituzionale di uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge (art. 3 Cost.), nel senso che essa concorre ad evitare irragionevoli difformità di decisioni in controversie simili. In questo senso, il principio di prevedibilità delle decisioni giudiziarie consente, o dovrebbe consentire, di individuare, prima ancora di rivolgersi al giudice, i principi che regolano la materia e il possibile esito della controversia sottoposta al giudice”.[11]
Una finalità nomofilattica si rinviene anche nell’art. 363 c.p.c., modificato dal d.lgs. n. 40/2006, che stabilisce: “Quando le parti non hanno proposto ricorso nei termini di legge o vi hanno rinunciato, ovvero quando il provvedimento non è ricorribile in cassazione e non è altrimenti impugnabile, il Procuratore generale presso la Corte di cassazione può chiedere che la Corte enunci nell’interesse della legge il principio di diritto al quale il giudice di merito avrebbe dovuto attenersi”.[12]Peraltro, “il principio di diritto può essere pronunciato dalla Corte anche d’ufficio, quando il ricorso proposto dalle parti è dichiarato inammissibile, se la Corte ritiene che la questione decisa è di particolare importanza. La pronuncia della Corte non ha effetto sul provvedimento del giudice di merito”.[13]
La funzione nomofilattica della Cassazione appare poi molto chiara nell’art. 374c.p.c., modificato dall’art. 8 del d.lgs. n. 40/2006, che ai commi 2 e 3 stabilisce: “Inoltre il primo presidentepuò disporre che la Corte pronunci a sezioni unite sui ricorsi che presentano una questione di diritto già decisa in senso difforme dalle sezioni semplici, e su quelli che presentano una questione di massima di particolare importanza. Se la sezione semplice ritiene di non condividere il principio di diritto enunciato dalle sezioni unite, rimette a queste ultime, con ordinanza motivata, la decisione del ricorso”.
La disposizione del comma 2 dell’art. 374 c.p.c., sulla rimessione alle sezioni unite da parte del primo presidente della decisione “sui ricorsi” – si badi: non sulle sole questioni di diritto decise in senso difforme – era in realtà già prevista nel testo dell’articolo precedente la riforma del 2006. Costituisce invece una rilevante innovazione il vincolo che consegue, per le sezioni semplici, dalla decisione delle sezioni unite.Le sezioni semplici, infatti, qualora intendano discostarsi dal principio enunciato dalle sezioni unite, potranno solo rimettere “la decisione del ricorso” a queste ultime, le quali o riaffermeranno il principio già enunciato oppure muteranno orientamento ed enunceranno un principio di diritto diverso. In sostanza, le sezioni semplici della Corte di Cassazione non hanno l’obbligo di conformarsi al contenuto del precedente dellesezioni unite, ma solo il divieto di emettere una pronuncia di contenuto difforme.
La nuova disposizione “è stata introdotta come ulteriore presidio alla funzione nomofilattica, per evitare che i principi di diritto enunciati dalle Sezioni unite possano essere elusi da successive pronunce della stesa Corte, come di frequente avveniva in precedenza”.[14]Peraltro, si tratta di una disposizione “sfornita di specifica sanzione. Il principio di diritto enunziato dalle sezioni unite vincola la sezione semplice da un punto di vista deontologico (e forse disciplinare), ma se quest’ultima se ne discosta, la legge non prevede alcun mezzo di impugnazione della decisione assunta”.[15]
- La nomofilachia nella giurisdizione amministrativa.
Se la funzione nomofilattica affidata alla Cassazione è indubbia e chiaramente delineata da più disposizioni, sembrainnegabile che l’ordinamento attribuisca anche “agli altri organi di vertice della giustizia amministrativa e di quella contabile il compito di assicurare <l’esatta osservanza e l’uniforme interpretazione della legge> ciascuno entro i confini della propria giurisdizione”.[16]Infatti, “al di fuori delle questioni di giurisdizione, il Consiglio di Stato e la Corte dei conti” devono essere considerati “gli unici arbitri della propria nomofilachia e nessun intervento della Cassazione è possibile in proposito”.[17]
L’art. 45 del r.d. n. 1054/1924, modificato dall’art. 5 della legge n. 1018/1950, già stabiliva che la sezione semplice del Consiglio di Stato, “se rileva che il punto di diritto sottoposto al suo esame ha dato luogo o possa dar luogo a contrasti giurisprudenziali, con ordinanza emanata su richiesta delle parti o di ufficio può rimettere il ricorso all’Adunanza plenaria. Prima della decisione il Presidente del Consiglio di Stato, su richiesta delle parti o d’ufficio può deferire all’adunanza plenaria qualunque ricorso che renda necessaria la risoluzione di questioni di massima di particolare importanza”.
L’art. 99 del d.lgs. n. 104/2010 sul processo amministrativo, modificato dal d.lgs. n. 160/2012, ha riprodotto il testo del vecchio art. 45 con tre aggiunte. A) “L’adunanza plenaria, qualora ne ravvisi l’opportunità, può restituire gli atti alla sezione”. B)Il presidente del Consiglio di Stato può deferire un ricorso all’adunanza plenaria anche “per dirimere contrasti giurisprudenziali”. C)“Se la sezione cui è assegnato il ricorso ritiene di non condividere un principio di diritto enunciato dall’adunanza plenaria, rimette a quest’ultima, con ordinanza motivata, la decisione del ricorso.L’adunanza plenaria decide l’intera controversia, salvo che ritenga di enunciare il principio di diritto e di restituire per il resto il giudizio alla sezione remittente. Se ritiene che la questione è di particolare importanza, l’adunanza plenaria può comunque enunciare il principio di diritto nell’interesse della legge anche quando dichiara il ricorso irricevibile, inammissibile o improcedibile, ovvero l’estinzione del giudizio. In tali casi, la pronuncia dell’adunanza plenaria non ha effetto sul provvedimento impugnato”.
Come può notarsi, per l’art. 99 del d.lgs. n. 104/2010 la sezione semplice può rimettere la decisione all’adunanza plenaria solo in caso di “contrasti giurisprudenziali”, attuali o potenziali; il Presidente lo può fare invece anche nel caso della “particolare importanza” di una questione “di massima”.L’adunanza plenaria può poi decidere il ricorso (“l’intera controversia”) oppure la sola questione controversa o di massima (“il principio di diritto”).[18]
Con “formulazione derivata direttamente dall’art. 374, terzo comma, c.p.c.”, è stato poi introdotto “un vero e proprio vincolo (<rimette> e non, come suggerito dalla Commissione per il codice amministrativo, <può rimettere>)”, per le sezioni semplici del Consiglio di Stato che ritengano “di non condividere un principio di diritto enunciato dall’adunanza plenaria”.[19]
4.La nomofilachia nella giurisdizione contabile:A) l’art. 4 della legge n. 161/1953.
L’art. 4 della legge n. 161/1953 aveva stabilito: “Ove una sezione giurisdizionale della Corte dei conti rilevi che il punto di diritto sottoposto al suo esame ha dato luogo a contrasti giurisprudenziali può, con ordinanza emanata su richiesta delle parti o di ufficio, rimettere il giudizio alle sezioni riunite. Prima della discussione il presidente della Corte dei conti, su istanza delle parti o di ufficio, può rimettere alle sezioni riunite i giudizi che rendano necessaria la risoluzione di questioni di massima di particolare importanza. Per i giudizi per i quali è ammesso l’appello alle sezioni riunite ai sensi delle vigenti disposizioni, il deferimento alle sezioni medesime previsto dai commi precedenti è subordinato al consenso delle parti”.[20]
Come può notarsi, si trattava di una disposizione simile a quella dell’allora vigente art. 45 del r.d. n. 1054/1924; come quella, prevedeva due distinte legittimazioni alla rimessione del “giudizio” – si badi bene: del “giudizio”, e non solo del “punto di diritto” o della questione “di massima” – alle sezioni riunite: una della “sezione giurisdizionale” chiamata a decidere la controversia e un’altra, da esercitare “prima della discussione”, del “presidente della Corte dei conti”. E come nella disposizione sul Consiglio di Stato, i presupposti erano diversi: “contrasti giurisprudenziali” per la sezione, una questione “di massima di particolare importanza” per il presidente.
Era invece nuovala previsione di un “consenso delle parti”. Nel giudizio davanti alla Corte dei conti, questo “consenso” era ritenuto in particolare necessario per i giudizi di responsabilità. Poiché infatti per questi giudizi – non anche per quelli pensionistici – l’ordinamento dell’epoca prevedeva la possibilità di un appello alle sezioni riunite, la rimessione del “giudizio” alle stesse sezioni riunite comportava, di fatto, la perdita di un grado di giudizio.[21]
- Segue: B) L’art. 1, comma 7,del d.l. n. 453/1993 convertito nella legge n. 19/1994.
In concomitanza con il decentramento della Corte dei conti che ha portato all’istituzione di una sezione giurisdizionale in ogni regione, l’art. 1, comma 7, del d.l. n. 453/1993 convertito nella legge n. 19/1994 ha stabilito:“Le sezioni riunite della Corte dei conti decidono sui conflitti di competenza e sulle questioni di massima deferite dalle sezioni giurisdizionali centrali o regionali ovvero su richiesta del procuratore generale”.
Anche nella nuova disposizione – tuttora vigente ma con rilevanti integrazioni (v. infra al capitolo 6) – erano previste due diverse legittimazioni alla proposizionedi una questione alle sezioni riunite: A) la sezione giurisdizionale, centrale o regionale; B) il procuratore generale, anziché il “presidente della Corte dei conti”com’era previsto dalla precedente disposizione dell’art. 4 della legge n. 161/1953.[22]
Sull’oggetto della rimessione, era stato precisato chele sezioni riunite “decidono solo relativamente al punto di diritto oggetto della questione di massima”e che “la sentenza di queste non si sostituisce a quella del giudice remittente anche se questi <è tenuto a formare il suo convincimento con riguardo a ciò che ha deciso altra sentenza emessa nella stessa causa> (Corte cost. n. 375/1996)”.[23]
In dottrina, è stata ritenuta“significativa” questa“scelta del legislatore di non inserire come ipotesi di deferimento alle Sezioni riunite il contrasto giurisprudenziale, fenomeno considerato evidentemente fisiologico con la diffusione degli organi giurisdizionali prevista dalla riforma”.[24]
Ma in realtà, la giurisprudenza delle sezioni riunite si era orientata in un senso sostanzialmente differente. Era stato infatti affermato che “le questioni di massima debbono investire problematiche giuridiche di particolare importanza ed obiettiva complessità ed aventi rilevanza generale, in quanto suscettibili di diffusa applicazione. Nell’ambito così delimitato il punto di maggiore incisività è dato dalla obiettiva difficoltà interpretativa di una norma (o di un sistema normativo) suscettibile di più significati secondo i vari criteri ermeneutici adottati dall’ordinamento”. E questa“difficoltà interpretativa può essere attestata dalla esistenza sul punto di contrasti giurisprudenziali, i quali rendono evidente che la norma consente più interpretazioni tra loro contrastanti”.[25]
Il “passaggio” ulteriore era poi consistito nel ritenere, più o meno esplicitamente, che solo il contrasto giurisprudenziale – ovverosia proprio il presupposto processuale non più menzionato dal d.l. n. 453/1993 – consentisse la rimessione di una questione alle sezioni riunite. In sostanza, se la “questione” era già stata uniformemente decisa e risolta dalla giurisprudenza non vi era contrasto giurisprudenziale enon vi erano quindi ragioni – si riteneva – per chiedere una decisione delle sezioni riunite sulla stessa “questione”.[26]
Inoltre, era stato precisato che il contrasto doveva essere “orizzontale”:“Il deferimento alle Sezioni riunite per la soluzione di contrasto giurisprudenziale non può essere utilizzato per sovvertire i livelli di giudizio previsti dall’ordinamento. Sulla base di detto presupposto la giurisprudenza di queste Sezioni riunite è costante nel ritenere che il deferimento della questione è consentito solo quando il contrasto di giurisprudenza sia orizzontale investendo sentenze pronunciate nello stesso grado di giudizio, mentre non è ammissibile in ipotesi di contrasto verticale e cioè di difformità di pronunce di grado diverso”.[27]
Peraltroquesto principio – la necessità di un contrasto di giurisprudenza “orizzontale” – non era stato sempre coerentemente applicato. Per questioni che possono costituire oggetto di giudizi solo davanti alle due sezioni siciliane di primo e di secondo grado-evidentemente senza alcuna possibilità di un contrasto di giurisprudenza “orizzontale” – era stato infatti affermato che può formare oggetto di questione di massima anche un conflitto “verticale”, ovverosia fra la sezione di primo grado e quella di appello.[28]
Sull’efficacia delle decisioni delle sezioni riunite era stato poi chiarito che “il principio di diritto affermato in sede di questione di massima non può non valere in tutte le fasi e gradi dello stesso giudizio” e “pertanto, il giudice d’appello resta vincolato al detto principio, anche se la questione sia stata deferita dal giudice di primo grado”. Ed era stato inoltre chiarito, con riferimento all’“efficacia della pronuncia in giudizi diversi da quello a quo”, che“dopo l’intervenuta pronuncia delle Sezioni riunite, sorge la doverosità, ma non l’obbligo giuridico, di adeguarsi ad essa per le Sezioni singole, sia di primo grado che di appello. Ciò in ragione del superiore principio della certezza del diritto, a tutela del quale le Sezioni riunite sono istituite, quale giudice delle questioni di massima, per ricondurre ad unità gli orientamenti difformi. Tale doverosità di adeguamento alle decisioni di massima può venire meno laddove il ragionamento seguito dalle Sezioni riunite sembra non del tutto convincente sulla base di ulteriori elementi e argomentazioni della sezione, purché non si tratti di motivazioni apodittiche o comunque non sorrette da adeguate considerazioni in diritto”.[29]
- Segue: C) L’art. 42, comma 2, della legge n. 69/2009.
L’art. 42, comma 2, della legge n. 69/2009 ha aggiunto, all’art. 1, comma 7, del d.l. n. 453/1993,i seguenti periodi: “Il presidente della Corte può disporre che le sezioni riunite si pronuncino sui giudizi che presentano una questione di diritto già decisa in senso difforme dalle sezioni giurisdizionali, centrali o regionali, e su quelli che presentano una questione di massima di particolare importanza. Se la sezione giurisdizionale, centrale o regionale, ritiene di non condividere il principio di diritto enunciato dalle sezioni riunite, rimette a queste ultime, con ordinanza motivata, la decisione del giudizio”.
Come può notarsi, la legge n. 69/2009 ha aggiunto una nuova (anzi vecchia) legittimazione alla proposizione di una “questione” alle sezioni riunite: una “questione può essere ora proposta non solo “dalle sezioni giurisdizionali centrali o regionali” e dal “procuratore generale”, com’era stato previsto dal d.l. n. 453/1993, ma anche, appunto dal “presidente della Corte”, com’era in precedenza previsto dalla legge n. 161/1953.[30]
Inoltre e soprattutto, la nuova normativa del 2009 ha previsto un vincolo nomofilattico, derivante dalla decisione delle sezioni riunite, analogo a quello già previsto dall’art. 374 c.p.c.,[31] modificato dall’art. 8 del d.lgs. n. 40/2006, e certamente più “stringente” di quello derivante dalle disposizioni in precedenza vigenti (v. infra).
- Segue: D) la giurisprudenza sulla riforma disposta dall’art. 42 della legge n. 69/2009.
Nel biennio successivo all’entrata in vigore della riforma prevista dall’art. 42, comma 2, della legge n. 69/2009, le sezioni riunite hanno esaminato le non semplicissime problematiche interpretative derivate dalla stessa riforma.
In primo luogo, la decisione delle sezioni riunite n. 4/QM/2010 ha chiarito che “la regola dettata dal secondo periodo, aggiunto dall’art. 42, comma 2, della legge 18.6.2009 n. 69 al comma 7 dell’art. 1 del decreto-legge n. 453/1993, convertito in legge 14.1.1994 n. 19, sulla rimessione della decisione del giudizio alle Sezioni riunite, in caso di non condivisione, da parte della Sezione centrale o regionale, del principio di diritto enunciato dalle Sezioni riunite medesime, deve intendersi riferita sia alle ipotesi in cui l’enunciazione del principio di diritto sia contenuta in sentenze emanate a seguito del deferimento presidenziale previsto dal primo comma aggiunto, sia alle ipotesi in cui tale enunciazione sia contenuta in sentenze emanate a seguito delle altre tipologie di deferimento previste dal su detto comma 7, con riferimento alle pronunzie successive all’entrata in vigore della legge n. 69/2009”.
La stessa decisione n. 4/QM/2010 aveva anche prospettato, sull’oggetto del giudizio davanti alle sezioni riunite, un’interpretazione delle nuove disposizioni che avrebbe comportato una rilevante innovazione rispetto alla precedente giurisprudenza delle stesse sezioni riunite: “il nuovo istituto di cui alla novella normativa del 2009 introduce, nel sistema della giustizia contabile, uno spostamento di competenza funzionale, dal Giudice <semplice> verso le Sezioni riunite, che pertanto decideranno anche nel merito le vertenze in tutti quei casi in cui il Giudice adito dalle parti ritenesse di non condividere un principio di diritto precedentemente enunciato dalle Sezioni riunite medesime”. E aveva precisato: “la competenza decisoria delle Sezioni riunite estesa anche al merito – nel caso di non condivisione, da parte del Giudice di merito, del principio di diritto da esse enunciato – potrà operare per i giudizi diversi da quello oggetto del deferimento; per il giudizio a quo, infatti, il giudice di merito resta in ogni caso vincolato all’enunciazione del punto di diritto”.[32]
La tesi di un’estensione della decisione delle sezioni riunite al “merito” del giudizio è stata però subito abbandonata.Esaminando le analogie e le differenze tra la nuova disposizione dell’art. 42, comma 2, della legge n. 69/2009 e l’art. 374, comma 3, c.p.c., modificato dal d.lgs. n. 40/2006, la sentenza delle sezioni riunite n. 6/QM/2010 ha infatti precisato: “L’identità delle norme è solo apparente: non può invero essere trascurata la considerazione che le disposizioni apparentemente identiche si indirizzano a soggetti giuridici totalmente differenti. La disposizione di cui all’art. 374 c.p.c. concerne le sezioni <semplici> delle Corte di cassazione”, ovverosia “organi del medesimo grado di giudizio in quanto il presupposto è la pendenza di un ricorso per cassazione e, quindi, di un giudizio di legittimità introdotto con ricorso avverso una sentenza di merito non appellabile. Viceversa, la disposizione di cui all’ultima parte del comma 2 dell’art. 42 della l. n. 69 del 2009 concerne i <giudici di merito>, di primo grado e d’appello della Corte dei conti in sede giurisdizionale, che, all’evidenza, non possono essere considerati <del medesimo grado> rispetto alle Sezioni Riunite della stessa Corte dei conti, alle quali, peraltro, appare estranea la funzione di giudicante nel merito delle controversie”.
La sentenza delle sezioni riunite n. 7/QM/2010 ha poi ribadito che “la novella normativa” prevista dall’art. 42, comma 2, della legge n. 69/2009, “lungi dall’aver voluto creare una nuova competenza (quella di esame del merito della controversia) in capo al Supremo Organo giurisdizionale, deve essere interpretata nell’unico significato possibile e costituzionalmente orientato, consistente nel principio che la rimessione del giudizio, in caso di dissenso, in tanto sia possibile in quanto sia diretta ad approfondire e a riesaminare sotto diversi profili la sola questione di diritto, ragioni che devono essere congruamente esplicitate nell’ordinanza di deferimento. In sostanza, le Sezioni riunite potrebbero, in caso di dissenso adeguatamente motivato, rivedere il principio di diritto affermato o dare una diversa soluzione alla questione di massima presentata rispetto a quanto in precedenza enunciato, rimettendo, poi, la definizione del merito della fattispecie agli organi giurisdizionali remittenti”.
Subito dopo, la decisione delle sezioni riunite n. 8/QM/2010 ha precisato che “il potere di deferimento, di cui al nuovo art. 1, comma 7, della l. n. 19/1994, spetta a tutti i giudici di questa Corte, di primo e di secondo grado (collegiali e monocratici), oltre che com’è ovvio al Procuratore Generale ed – ora – anche al Presidente della Corte stessa (espressamente considerati), data l’importanza – di <base> – che riveste l’esatta interpretazione della legge nel concreto esplicarsi della funzione di nomofilachia; il potere di remissione, previsto dall’art. 42, comma 2, secondo periodo, della l. n. 69/2009, spetta” invece “alle sole sezioni di appello, in quanto espressivo della funzione nomofilattica di uniforme interpretazione della legge, con esclusione – com’è ovvio – del Presidente della Corte e del Procuratore Generale, ma anche degli organi giurisdizionali (collegiali o monocratici) di primo grado”. Infatti, la “non condivisione del principio di diritto” da parte della Sezione di primo grado“resta soggetta”, ai fini della remissione prevista dall’art. 42, comma 2, della legge n. 69/2009, “al vaglio del giudice di appello, quale organo intermedio di nomofilachia per l’uniforme interpretazione della legge, così che l’adesione di quest’ultimo alla motivazione di <dissenso> del primo ne rafforza intrinsecamente la consistenza, equiparandola – nei suoi effetti ultimi – ad un <giudicato> in senso sostanziale”.[33]
La sentenza delle sezioni riunite n. 6/QM/2011 ha invece ribadito il principio, sostanzialmente già affermatosi nella giurisprudenza precedente la legge n. 69/2009, secondo il quale “la soluzione data ad una questione, ancorché in maniera uniforme da parte delle sezioni giurisdizionali regionali, però divergente da quella seguita dalle sezioni di appello, non può essere assunta quale presupposto per il deferimento della questione stessa alle sezioni riunite, poiché la sua proposizione finirebbe con l’alterare il sistema processuale e costituirebbe un espediente per aggirare l’eventuale ed effettivo diverso orientamento del giudice d’appello. Ciò in quanto – affinché sia ritenuta ammissibile – la questione di massima deve investire un contrasto giurisprudenziale orizzontale, poiché la difformità di indirizzo in senso verticale trova la sua soluzione funzionale nella decisione del giudice d’appello”.[34]
Non sembra che questi principi siano stati modificati dalla successiva giurisprudenza delle sezioni riunite.
- Conclusioni.
L’art. 8 del d.lgs. n. 40/2006 per la Cassazione, l’art. 42, comma 2, della legge n. 69/2009 per la Corte dei contie l’art. 99 del d.lgs. n. 104/2010 per il Consiglio di Stato hanno introdotto un particolare effetto nomofilattico che consiste come si è detto nell’onere, per la sezione che dissenta da un “precedente” delle sezioni unite (o delle sezioni riunite o dell’adunanza plenaria) di rimettere la decisione allo stesso giudice del “precedente”[35].
Orbene, è stato affermato, non senza qualche sottigliezza, che in realtà “non vi è alcun vincolo giuridico, tra sezioni semplici e Sezioni Unite, vincolo che tra l’altro non troverebbe conforto nel nostro sistema che tuttora non conosce il principio del precedente vincolante (né in quella direzione va letta l’intentio della riforma del 2006). Si tratta piuttosto di un vincolo di natura processuale, nel senso che, ove le sezioni vogliano discostarsi dal precedente delle Sezioni Unite, possono farlo, ma sono tenute a convogliare il loro dissenso in una ordinanza che investa della decisione le Sezioni Unite, nella quale siano indicati i motivi che inducono al dissenso”.[36]
Diversamente, è stato però anche ritenuto che la disposizione dell’art. 8 del d.lgs. n. 40/2006 “costituisca una patente violazione dell’art. 101, secondo comma, Cost., che prescrive che i giudici debbano essere subordinati solo <alla legge>, non all’interpretazione che di questa forniscano altri giudici. In sostanza, tolto il giustificabile vincolo per il giudice del rinvio” in quanto “la fase che si svolge davanti a lui è un prosieguo del giudizio di cassazione, è difficilmente comprensibile l’idea di un’opzione interpretativa della legge fatta da un giudice (sia pure nella massima composizione) che possa vincolare un altro giudice, al pari di quanto possa fare la legge stessa”.[37]
Ad avviso di chi scrive, il vincolo nomofilattico de quo costituisce un ragionevole e opportuno contemperamento di esigenze diverse e tendenzialmente divergenti: la soggezione di ogni giudice soltanto alla legge in applicazione dell’art. 101 della Costituzione e l’uguaglianza di ogni cittadino davanti alla legge in applicazione dell’art. 3 della stessa Costituzione.[38]
Occorre però che l’organo di nomofilachia resti un’espressione, un’“articolazione” delle stesse sezioni le cui decisioni condiziona, con la ricordata obbligatoria procedura di dissenso, in misura indubbiamente incisiva. In effetti, ciò avviene per la Cassazione e per il Consiglio di Stato.
Per la Corte dei conti, l’attuale composizione dell’organo nomofilattico con magistrati tratti non solo dalle sezioni d’appello ma anche in gran parte dalle sezioni territoriali di primo grado sembra invece giustificare più di qualche perplessità.
Stefano Imperiali
[1]www.nascitacostituzione.it
[2] R. Guastini, “Interpretazione”, in “Enciclopedia Giuridica”, Roma 1990. L’A., critico nei confronti di questa teoria-dottrina, riconosce però che si fonda su “una concezione democratica e liberale dello Stato e del diritto. E’ del pensiero politico democratico ritenere che le decisioni politiche (quali sono le statuizioni di norme) debbano essere competenza esclusiva di organi elettivi e politicamente responsabili, e non di organi burocratici e irresponsabili, come sono i giudici”.
[3] R. Guastini, op. cit. Nello stesso senso, ex aliis, L. Lombardi Vallauri, “Giurisprudenza”, in “Enciclopedia Giuridica”, Roma 1986. Sul punto, v. anche M. Dogliani, “Interpretazione”, in “Dizionario di Diritto Pubblico” a cura di S. Cassese, IV, Milano 2006, pag. 3187.
[4] M. Mengozzi, in www.osservatorioaic.it,marzo 2015.
[5] S. Furfaro, “Nomofilachia”, in “Digesto Penale”, Aggiornamento 2011, richiama anche il principio di “sicurezza giuridica” – che troverebbe fondamento negli artt. 2 della Costituzione e 8 della Carta Europea dei Diritti dell’Uomo (CEDU) – “intesacompiutamente come diritto alla conoscenza certa di tutte le conseguenze giuridiche” alle quali l’individuo “si espone a seguito della sua condotta e alla prevedibilità delle decisioni che lo riguardano, non ultime (anzi, l’esatto contrario) quelle relative alla tutela giudiziale delle proprie posizioni soggettive, entro gli ovvi limiti dell’alea normalmente insita in ogni scelta o decisione affidata a terzi”.
[6] E. Fazzalari, “Istituzioni di diritto processuale”, Padova 1989, pagg. 389 e seg.
Sottolinea il legame tra funzione nomofilattica e attuazione dell’art. 3 della Costituzione, ex aliis, anche A. Proto Pisani, “Lezioni di diritto processuale civile”, Napoli 2002, pag. 504.
[7]“Il termine nomofilachia (o nomofilacìa), come tutti sanno, deriva dal combinarsi delle parole greche nòmos (legge) e phylax (proteggere con lo sguardo): guardiano della legge. Nell’antica Grecia, la nomofilacìa era la magistratura incaricata di custodire il testo originale delle leggi e di assicurare una certa stabilità alla legislazione. La nomofilachia, quindi, si distingueva dalla nomotesia, che all’opposto, in Atene, puntava alla revisione del nomos. I nomofilachicustodivano il nomos originario; i nomateti, invece, lo adeguavano al divenire dei tempi”. Così F.M. Longavita, nell’accurato ed esauriente studio “la nomofilachia nelle SS.RR. della Corte dei Conti in sede giurisdizionale”, in www.amcorteconti.it.
[8] V., soprattutto,P. Calamandrei, La Cassazione civile, Milano 1920.
[9] M. Taruffo, La Corte di Cassazione e la legge, in Rivista Trimestrale di Diritto e Procedura Civile 1990, pag. 349.
[10] Sul punto, v. supra al capitolo 1.
[11] G. Arieta – F. De Santis, “Corso base di diritto processuale civile”, Padova 2013, pag. 550.
[12] “Non siamo in presenza di un ricorso per cassazione in senso proprio, in quanto l’iniziativa del procuratore generale non ha ad oggetto l’impugnazione del provvedimento del giudice di merito, ma trae spunto da quel provvedimento per sollecitare, nell’interesse generale, l’esercizio della funzione nomofilattica. In pratica, la procura generale attiva le funzioni della Corte non a beneficio delle singole parti del processo, ma a beneficio dell’ordinamento nel suo complesso”: G. Arieta – F. De Santis, op. cit., pag. 551.
[13]La disposizione dell’art. 363 c.p.c. è stata applicata anche con riferimento a un giudizio davanti alla Corte dei conti. Con la sentenza n. 28653/2008, le Sezioni Unite della Cassazione hanno infatti “enunciato a norma dell’art. 363 c.p.c., nell’interesse della legge, il seguente principio di diritto: <Qualora il Procuratore generale presso la Corte dei conti richieda alle Sezioni Riunite della stessa Corte la soluzione di una questione di massima, il giudice della causa in relazione alla quale la questione è sollevata non può rifiutare la trasmissione del fascicolo processuale alle Sezioni Riunite che gliene abbiano fatto richiesta e non può decidere senza attendere la pronunzia di detto organo>”.
Il principio “enunciato” è certamente condivisibile (sul punto, v. anche infra), ma in realtà non riguarda questioni “inerenti alla giurisdizione” (art. 111, comma 8, della Costituzione): la sua affermazione presuppone pertanto, erroneamente, una qualche funzione nomofilattica anche nei confronti delle Sezioni giurisdizionali contabili. Sul punto, v. anche subito infra al capitolo 3.
[14] G. F. Ricci, “Il giudizio civile di cassazione”, Torino 2013, pag. 445.
[15] G. Arieta – F. De Santis, op. cit., pag. 563. Conf. M. Taruffo, “Una riforma della Cassazione civile?”, in Rivista Trimestrale di Diritto e Procedura Civile 2006, pag. 773.
[16] A. Storto, Decisioni della plenaria e vincolo di conformazione, in www.giustizia-amministrativa.it
[17] G. F. Ricci, op. cit., pag. 432. V. peraltro la decisione della Cassazione ricordata alla nota 13.
[18]E’ stato precisato che l’adunanza plenaria, investita di una questione oggetto di contrasto giurisprudenziale, in omaggio al principio di economia processuale e per esigenze di celerità, di regola decide la controversia anche nel merito, a meno che non risultino ulteriori esigenze istruttorie: C.d.S., ad. plen., n. 22/2012, idemn. 31/2012.
[19] A. Storto, op. cit. L’A. peraltro si interroga sulle “conseguenze di una eventuale <ribellione> delle sezioni semplici che risolvano in modo patente una questione in termini difformi da un precedente della Plenaria, in assenza della previsione, ad opera dell’art. 99 c.p.a., di sanzioni processuali esplicite”.Sull’analoga questione con riferimento alle sezioni semplici della Cassazione, v. supra al capitolo 2.
E’ stato rilevato che le discipline sulla nomofilachia delle sezioni unite della Cassazione e dell’adunanza plenaria del Consiglio di Stato hanno “sempre manifestato un reciproco notevole condizionamento, stimolando l’adeguamento dell’una all’altra, in un processo quasi <circolare>. Ricordiamo che il previgente art. 45 t.u.Cons. St. sull’Adunanza Plenaria era stato modificato fin dal 1950, con la legge n. 1018, per avvicinare la disciplina della medesima a quella delle sezioni unite della Corte di Cassazione, stabilita nel codice di procedura civile all’art. 374. A sua volta, tale articolo sul deferimento alle Sezioni Unite, non previsto nel codice del 1865, era stato introdotto nel 1940 proprio ispirandosi alle disposizioni dettate per il Consiglio di Stato, fin dal r.d. n. 6166 del 1989, con l’art. 38, e, poi, nel testo unico del 1924”. Così M. Mengozzi, op. cit.
[20] L’art. 4 della legge n. 161/1953 viene talora considerato come la prima disciplina compiuta sulla nomofilachia nei giudizi davanti alla Corte dei conti. Ma in realtà, “uno strumento di questo genere” era stato “per la prima volta previsto dal R.D. 28 giugno 1941 n. 856, che con l’art. 3 istituì, sul modello del collegio avente la stessa denominazione nel Consiglio di Stato (art. 45 del t.u. del 1924 del Consiglio di Stato) l’Adunanza plenaria, alla quale le sezioni giurisdizionali per le pensioni ordinarie e di guerra (non quelle del contenzioso contabile) potevano deferire le controversie che <su un punto di diritto al loro esame … avevano dato luogo a decisioni difformi>. Successivamente, con il decreto legislativo 6 maggio 1948, n. 655, istitutivo della sezione siciliana, questo rimedio venne esteso anche ai giudizi di contabilità pubblica” : AA.VV. (a cura di F.Garri), “La Corte dei conti – controllo e giurisdizione – contabilità pubblica”, Milano 2012, pag. 1110.
[21] “Ciò comportò che la maggior parte dei deferimenti riguardassero le controversie pensionistiche, che si svolgevano in unico grado, mentre i giudizi di responsabilità raramente venivano deferiti alle sezioni riunite, perché era difficile che si avesse il consenso delle parti in primo grado” (AA.VV. “La Corte dei conti etc.”cit, pag. 1111). La prassi cambiò, ma nel contempo la previsione sul “consenso delle parti” perse la sua giustificazione, allorché con sentenza n. 29/1974 le sezioni riunite mutarono orientamento, ritenendo che la loro sentenza dovesse deciderenon l’intero giudizio, ma solo la questione di diritto oggetto appunto del deferimento.
[22] Era stata prospettata una questione di legittimità costituzionale della disposizione, “nella parte in cui prevede che le sezioni riunite della Corte dei conti decidono sulle questioni di massima a richiesta del procuratore generale”. Con sentenza n. 375/1996, la questione è stata reputata “inammissibile, per quanto attiene alla lamentata violazione degli art. 3, 24, 25”.
[23]Ex aliis: SS.RR. n. 7/QM/1998.
[24] L. Savagnone, “La funzione nomofilattica nelle supreme magistrature”, in “Rivista della Corte dei conti” n. 6/2007, pag. 309.
[25] SS.RR. n. 7/QM/1998 cit.
[26]Ex multis: SS.RR. n. 22/QM/1998, n. 26/QM/1998, n. 17/QM/2003, n. 3/QM/2004, n. 6/QM/2004, n. 8/QM/2009.
[27]Ex multis: SS.RR. n. 5/QM/2004.
[28]Ex aliis: SS.RR. n. 5/QM/2006. La decisione è stata criticata da L. Savagnone, per la quale “le difficoltà interpretative di particolare complessità” non possono “costituire motivo di deferimento quando il punto controverso è stato risolto e deciso dal giudice d’appello in modo univoco” (op. cit., pag. 310).
[29]Ex aliis: SS.RR. n. 5/QM/2008.
[30] Su questa nuova (anzi vecchia) legittimazione del presidente della Corte, alla proposizione di una questione alle sezioni riunite, con ordinanza n. 1/QM/2010 le stesse sezioni riunite hanno prospettato dubbi di legittimità costituzionale, con riferimento agli artt. 24 comma 1, 25 comma 1, e 111 della Costituzione.
Ma con decisione n. 30/2011, la Corte costituzionale ha affermato: “non si comprende, a prescindere dalla genericità della censura prospettata, la ragione per la quale la previsione del potere di deferimento attribuito al Presidente della Corte dei conti possa recare un vulnus al diritto di difesa tutelato dall’evocata norma costituzionale”; “il principio di certezza del giudice, di cui all’art. 25, primo comma, Cost., è efficacemente espresso nel concetto di <pre-costituzione del giudice>, <vale a dire nella previa determinazione della competenza, con riferimento a fattispecie astratte realizzabili in futuro, non già, a posteriori, in relazione, come si dice, a una regiudicanda già insorta>”; lo stesso principio, invece, “non può operare nella ripartizione, tra sezioni interne, <dei compiti e delle attribuzioni spettanti ad un determinato ordine giurisdizionale>”; “al Presidente della Corte, anche nell’esercizio di detto peculiare potere di deferimento, deve essere riconosciuta senza dubbio la qualità di <giudice terzo e imparziale>, la cui attività è esclusivamente diretta ad assicurare l’esatta osservanza della legge, nell’interesse, in definitiva, degli utenti del <servizio giustizia>”; le sezioni centrali di appello “non si trovano affatto nella situazione di differenziazione ordinamentale richiamata dall’ordinanza di rimessione”, poiché le sezioni riunite sono in realtà “una articolazione interna della Corte nella sede giurisdizionale di appello avverso le sentenze rese dai primi giudici in sede regionale”; non “assume un particolare rilievo significativo” nemmeno “la circostanza che la questione di massima sia portata all’esame di <un giudice costituito nominativamente dallo stesso Presidente della Corte>”, in applicazione dell’art. 11, comma 7, della legge n. 15/2009, poiché non vi è “alcuna differenziazione nelle modalità di composizione delle Sezioni riunite con specifico riguardo alla ipotesi in cui il deferimento delle questioni di massima involga controversie rientranti nella competenza del giudice di appello”.
[31] Questa voluta analogia è confermata anche dai lavori preparatori della riforma del 2009: “tale disposizione riproduce in parte il testo dell’art. 374 del codice di procedura civile relativo alle pronunce a sezioni unite della Corte di cassazione”. Sul punto,SS.RR. n. 4/QM/2010.
[32] Sia pure in un obiterdictum, nella già citata sentenza n. 30/2011 anche la Corte costituzionale ha ritenuto che le sezioni riunite giudichino sull’intera controversia, ove una sezione dissenta da una precedente pronuncia delle sezioni riunite stesse.
[33] Secondo le Sezioni Riunite, questo “potere di remissione” è “previsto, al singolare, solo per la <Sezione giurisdizionalecentrale o regionale>. L’indicazione letterale della norma, pertanto, è piuttosto pregnante nel lasciar ritenere che il ridetto potere spetti alle sole Sezioni di appello, agevolmente individuabili, appunto, nelle tre <Sezioni Centrali> (espressamente considerate dalla norma), alle quali si aggiunge l’unica, analoga <Sezione Regionale> titolare di funzioni di appello, individuabile (anch’essa agevolmente) nella Sezione Giurisdizionale di Appello per la Regione Siciliana” (SS.RR. n. 8/QM/2010 cit.).
Il principio per il quale la remissione alle Sezioni riunite per dissenso da una precedente decisione delle stesse riunite è riservata ai “soli Giudici di appello” è stato confermato, tra le altre, da SS.RR. n. 12/QM/2011 e n. 16/QM/2011.
[34]SS.RR. n. 17/QM/2011 ha poi ribadito “il principio generale per cui, ai fini del deferimento di una questione di massima alle Sezioni riunite ai sensi dell’articolo 1, comma 7 della legge n. 19/1994, costituisce presupposto necessario il (solo) contrasto orizzontale fra Sezioni d’appello”, ma ove già avvenga, “il deferimento della questione di massima” è possibile anche da parte dei “Giudici di primo grado”.
[35] V. supra, ai capitoli 2, 3 e 6.
[36] R. Tiscini, “Il giudizio di cassazione”, in “Le impugnazioni civili”, a cura di F.P.Luiso – R. Vaccarella, Torino 2013, pag. 427.
[37] G. F. Ricci, op. cit., pagg. 445 e seg.
[38] V. supra al capitolo 1.
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