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Analisi del decreto legislativo 26 agosto 2016, n. 174

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Analisi del decreto legislativo 26 agosto 2016, n. 174, Codice di giustizia contabile, adottato ai sensi dell’art. 20 della legge 7 agosto 2015, n. 124.

di Antonio Vetro, Presidente on. della Corte dei conti

Prima di iniziare l’analisi del decreto delegato n. 174/2016, è opportuno richiamare, per sommi capi, le considerazioni critiche svolte nell’articolo dello scrivente in data 13 settembre 2015, sulla riforma concernente il “Riordino della procedura dei giudizi innanzi la Corte dei conti” di cui all’art. 20 della legge delega n. 124/2015, con particolare riguardo ai seguenti punti:

  1. I) In ordine ai principi e criteri direttivi che i decreti delegati dovranno osservare, nell’art. 20, lettera a), vi è quello di “adeguare le norme vigenti, anche tramite disposizioni innovative, alla giurisprudenza della Corte costituzionale e delle giurisdizioni superiori, coordinandole con le norme del codice di procedura civile espressione di principi generali e assicurando la concentrazione delle tutele spettanti alla cognizione della giurisdizione contabile”.

L’estrema vaghezza di tali prescrizioni non comporta alcun serio limite all’azione del delegato, che può statuire tutto ed il contrario di tutto, tanto più che nella stessa legge delega sussistono disposizioni (ad es. v. art. 20, punto O) che si pongono esse stesse in manifesto contrasto con la giurisprudenza costituzionale o delle giurisdizioni superiori.

  1. II) Nel punto b) della legge delega si prescrive di “disciplinare lo svolgimento dei giudizi tenendo conto della peculiarità degli interessi pubblici oggetto di tutela e dei diritti soggettivi coinvolti, in base ai principi della concentrazione e dell’effettività della tutela e nel rispetto del principio della ragionevole durata del processo anche mediante il ricorso a procedure informatiche e telematiche”.

Trattasi di prescrizioni in parte ovvie e banali, come quando si richiama la “peculiarità degli interessi pubblici oggetto di tutela e dei diritti soggettivi coinvolti”, in parte inutili in quanto meramente ripetitive di principi da tempo consolidati anche in norme costituzionali.

III) Riguardo al punto c), dove si parla di “disposizioni di semplificazione e razionalizzazione dei principi vigenti in materia di giurisdizione del giudice contabile e di riparto delle competenze rispetto alle altre giurisdizioni”, l’estrema indeterminatezza della prescrizione non pone, anche qui, alcun limite nella formulazione del decreto delegato.

  1. IV) Nel punto d) viene prevista “l’interruzione del termine quinquennale di prescrizione delle azioni esperibili dal pubblico ministero per una sola volta e per un periodo massimo di due anni tramite formale atto di costituzione in mora”.

Tale disposizione, in linea con le attuali tendenze, mira soltanto a depotenziare l’azione del P.M. contabile, volta a tutelare il pubblico erario.

  1. V) Il punto f) consente inammissibili regalie a favore degli amministratori e dipendenti pubblici incapaci che per colpa grave arrechino danni all’erario, prevedendo “la definizione del giudizio di primo grado per somma non superiore al 50 per cento del danno economico imputato” e, in appello, una condanna “per somma non inferiore al 70 per cento del quantum della pretesa risarcitoria azionata in citazione”.
  2. VI) Nel punto g) si intende “riordinare la fase dell’istruttoria e dell’emissione di eventuale invito a dedurre” enucleando principi, in parte completamente inutili in quanto già da tempo pacificamente riconosciuti e disciplinati, in parte estremamente preoccupanti, laddove prevedono la “specificazione delle modalità di esercizio dei poteri istruttori del pubblico ministero”, paventandosi il rischio di misure intese ad “imbavagliare” l’azione del P.M. contabile, date le già ricordate attuali tendenze, in parte gravemente carenti, laddove si limitano a prescrivere, senza ulteriori specificazioni, la “formalizzazione del provvedimento di archiviazione”, senza sanare una vistosa anomalia presente nell’attuale sistema, e cioè la mancanza di controllo del giudice sulle archiviazioni, così come previsto in sede penale. Solo con tale riforma, risulterebbe giustificata la prevista “preclusione in sede di giudizio di chiamata in causa su ordine del giudice e in assenza di nuovi elementi e motivate ragioni di soggetto già destinatario di formalizzata archiviazione” (punto g) n. 6).

VII) Nel punto l) è previsto che la disposizione processuale, sull’integrazione del contraddittorio, debba essere “riordinata”.

Secondo lo scrivente, l’art. 47 del regolamento per la procedura nei giudizi innanzi alla Corte dei conti, approvato con r.d. n. 1038/1933, il quale prevedeva che l’intervento in causa può essere anche ordinato dalla Sezione, d’ufficio, o su richiesta di una delle parti, era perfettamente in linea con i principi del giusto processo. Si è quindi ritenuto che la riforma avrebbe dovuto prevedere l’obbligo, e non la mera facoltà, per il giudice contabile, di ordinare a cura del P.M. l’integrazione del contraddittorio dei soggetti ritenuti presunti responsabili o corresponsabili del danno erariale, non chiamati in giudizio dalla Procura regionale.

VIII) Nel punto p) si richiama il “rispetto del principio secondo cui i pareri resi dalla Corte dei conti in via consultiva, in sede di controllo e in favore degli enti locali nel rispetto dei presupposti generali per il rilascio dei medesimi, siano idoneamente considerati, nell’ambito di un eventuale procedimento per responsabilità amministrativa, anche in sede istruttoria, ai fini della valutazione dell’effettiva sussistenza dell’elemento soggettivo della responsabilità e del nesso di causalità”.

In realtà, non si è tenuto conto del fatto che, in sede consultiva, i pareri sono resi su questioni di massima e che le concrete determinazioni sul singolo provvedimento rimangono di esclusiva competenza e connesse responsabilità dei rappresentanti dell’ente locale.

***

Esaurita tale premessa, riguardante i punti salienti della riforma contenuta nella legge di delega, costituiranno oggetto di valutazione, per esigenze di brevità, soltanto le disposizioni, contenute nel decreto delegato, ritenute particolarmente significative.

1) Nell’art. 5 è previsto che “Ogni provvedimento decisorio del giudice e ogni provvedimento del pubblico ministero sono motivati”.

Per quanto riguarda le decisioni, è sufficiente ricordare che l’art. 111 Cost. già stabilisce che “tutti i provvedimenti giurisdizionali devono essere motivati”. Invece, per quanto riguarda i provvedimenti del P.M., la previsione di un obbligo di motivazione indiscriminato, anche per atti che non incidano minimamente sul diritto di difesa, costituisce un inutile e dannoso appesantimento procedurale.

In particolare, l’art. 56 (Deleghe istruttorie) stabilisce che “Il pubblico ministero può, motivatamente, svolgere attività istruttoria direttamente, ovvero può delegare gli adempimenti istruttori alla Guardia di Finanza o ad altre Forze di polizia, anche locale, agli uffici territoriali del Governo e, in casi eccezionali e motivati, … ai dirigenti o funzionari di qualsiasi pubblica amministrazione individuati in base a criteri di professionalità e territorialità; può, altresì, avvalersi di consulenti tecnici”.

L’art. 56 statuendo, in linea con il citato art. 5, che il P.M. debba svolgere attività istruttoria “motivatamente”, senza fare alcuna distinzione sulla tipologia degli atti, pone una serie di problematiche, preoccupanti sotto un duplice ordine di motivi.

In primo luogo, se qualsiasi iniziativa istruttoria, anche priva di rilevanza esterna, con particolare riguardo alle esigenze difensive, debba essere assistita da specifica motivazione, si conseguirebbe, come già detto, l’effetto di un notevole appesantimento del lavoro di Procura, tanto più deleterio nella situazione attuale di gravissima carenza di personale di magistratura, pari a circa un terzo dell’organico.

Inoltre tale statuizione potrebbe aprire la strada ad indiscriminate e pretestuose eccezioni volte ad invalidare le citazioni in giudizio da parte dei convenuti, per presunta carenza di motivazione di un qualche atto istruttorio, anche insignificante, con grave intralcio pure per l’attività decisoria, per un diluvio di ordinanze che si renderà necessario emettere per definire il prevedibile, grande numero di eccezioni, che verranno formulate.

Altro punto che suscita notevoli perplessità riguarda la previsione, limitata a casi eccezionali e sempre previa motivazione, di adempimenti istruttori delegati a dirigenti o funzionari di qualsiasi pubblica amministrazione individuati in base a criteri di professionalità e territorialità.

Per prima cosa, appare arduo stabilire in che cosa consista il limite relativo alla eccezionalità dei casi, in mancanza di qualsiasi concreta indicazione, con l’effetto anche qui che l’eventuale delega potrà essere oggetto di facile contestazione da parte del soggetto, successivamente citato in giudizio, che potrà sempre sostenere la carenza del requisito dell’eccezionalità e quindi l’invalidità dell’istruttoria.

Parimenti, analoga eccezione potrà essere avanzata sulla base di un presunta difetto di professionalità del dirigente o funzionario prescelto, oltre tutto in presenza di una totale indeterminatezza di criteri. In particolare si porrà il problema se il requisito della professionalità debba sussistere in astratto, ad esempio in base ai titoli di studio o all’esperienza maturata, o in concreto, in base alle effettive capacità operative dimostrate nella fattispecie considerata.

Il problema relativo alla individuazione dei “casi eccezionali” si porrà soprattutto per le inchieste riguardanti gli enti locali. Spesso, per quanto riguarda i comuni, sono stati richiesti dai P.M. ai segretari comunali elementi essenziali ai fini istruttori, come quelli concernenti la documentazione e lo sviluppo della vicenda in esame, la quantificazione del danno, le generalità ed il domicilio dei presunti responsabili ecc.

Qualora tali iniziative fossero fatte rientrare nelle previsioni dell’art. 56, in carenza del requisito della “eccezionalità”, l’attività di Procura, priva della collaborazione dei funzionari di vertice degli enti locali, verrebbe ad essere gravemente penalizzata, considerata anche la notevole carenza di organico della Guardia di finanza e degli altri organi di Polizia che spesso non consentono l’espletamento di un’idonea attività collaborativa con la Procura contabile in tempi ragionevoli.

Va sottolineata, infine, la inusuale gravità della sanzione prevista in ogni caso, anche di trascurabile rilievo, conseguente al difetto di motivazione. Infatti, l’art. 65 del decreto delegato stabilisce che “La omessa o apparente motivazione dei provvedimenti istruttori del pubblico ministero … costituiscono causa di nullità dell’atto istruttorio e delle operazioni conseguenti”.

In conclusione possono ritenersi pienamente avverate le previsioni estremamente pessimistiche già ricordate e formulate in sede di esame della legge delega riguardo al punto g) dell’art. 20 dove si disponeva di “riordinare la fase dell’istruttoria e dell’emissione di eventuale invito a dedurre”, essendosi puntualmente verificato il paventato rischio di una ulteriore azione del legislatore delegato finalizzata esclusivamente ad ostacolare l’attività giudiziaria.

2) Stessa osservazione, riguardo al manifesto effetto limitativo dell’azione del P.M. conseguente alla normativa in esame, può farsi in relazione alla disciplina dell’archiviazione.

Secondo la normativa previgente, come sottolineato dalla Corte costituzionale (sentenza n. 415 del 1995, ordinanza n. 261 del 2006), “questo atto, rimesso alla determinazione propria della parte pubblica che ritenga di non dover promuovere l’azione, non ha natura di pronuncia giurisdizionale, ma chiude un’attività istruttoria diretta a verificare se sussistano le condizioni per iniziare utilmente un giudizio di responsabilità, senza che con l’archiviazione si formi giudicato o che ne derivi un vincolo per lo stesso ufficio del pubblico ministero”.

Al contrario, ai sensi dell’art. 70, “I fascicoli istruttori archiviati possono essere riaperti, con decreto motivato del procuratore regionale, se sopravvengano fatti nuovi e diversi successivi al provvedimento di archiviazione”.

Sulla base di tale disposizione – a parte osservazioni di logica elementare per cui se un fatto è nuovo e diverso evidentemente non riguarda quello oggetto di archiviazione – i fascicoli archiviati non possono essere riaperti, inventandosi così una sorta di intangibilità analoga a quella del giudicato, senza che possa minimamente farsi un raffronto fra l’attività istruttoria del P.M. e quella decisoria del giudicante, come anche ricordato dalla Consulta nelle indicate statuizioni.

3) Come già detto, l’art. 20 lett. g) della legge delega prevedeva la “formalizzazione del provvedimento di archiviazione”, senza sanare una vistosa anomalia presente nel sistema vigente, e cioè la mancanza di controllo del giudice sulle archiviazioni, così come previsto in sede penale.

Eppure la Cassazione a Sezioni unite, con sentenza n. 19700/2010, ha esplicitamente riconosciuto, in linea di principio, l’esistenza di un potere di controllo del giudice contabile sull’attività istruttoria del P.M.

Nel decreto delegato la c.d. “formalizzazione” è del tutto insignificante, limitandosi l’art. 69 a confermare quanto è sempre avvenuto in Procura e cioè che il decreto di archiviazione, emesso qualora difettino i requisiti per l’azione, è sottoposto al visto del procuratore regionale ed è comunicato al destinatario dell’invito a dedurre.

Quello che colpisce, in modo estremamente negativo, è che sia una parte, sia pure pubblica, a decidere, senza alcun controllo giurisdizionale.

E’ opportuno in proposito richiamare l’ordinanza della Corte costituzionale n. 261/2006 riguardante la questione di legittimità costituzionale dell’art. 5, comma 1, della legge 14 gennaio 1994, n. 19, avente ad oggetto la configurazione dell’archiviazione nonché la forma di tale atto, sollevata dalla Corte dei conti, Sezione giurisdizionale per la Regione Abruzzo e definita con declaratoria di inammissibilità per irrilevanza. Sono di rilievo le considerazioni del giudice remittente che aveva sollevato tale questione di legittimità costituzionale, per violazione degli artt. 24 e 111 della Costituzione, concludendo nel senso che fosse “necessario un controllo giudiziale sull’esercizio dell’azione di responsabilità e del connesso potere di archiviazione”.

4) La gravità dell’anomalia dell’omissione è ulteriormente esaltata dalla assurda limitazione nelle funzioni del giudice contabile prevista dall’art. 83 del decreto delegato, secondo cui “È vietata la chiamata in giudizio su ordine del giudice”.

Per inciso è opportuno ricordare la sentenza della Consulta 27 luglio 1995 n. 415, dove viene riportato l’intervento dell’Avvocatura dello Stato che ha sottolineato come “i poteri di integrazione di singoli atti processuali ad opera del giudice sono previsti dall’ordinamento processuale anche in altri riti (civile: artt. 164, secondo comma, e 182 cod. proc. civ.; penale: art. 507 cod. proc. pen.), senza che ciò costituisca pregiudizio per la terzietà dello stesso giudice”.

In particolare, l’art. 47 del previgente regolamento per la procedura nei giudizi innanzi alla Corte dei conti, (r.d. n. 1038/1933), il quale prevedeva che “L’intervento (in causa) può essere ordinato dalla Sezione, d’ufficio, o anche su richiesta del procuratore generale o di una delle parti”, trovava puntuale riscontro nell’analoga norma contenuta nell’art. 107 c.p.c.

Gli effetti dell’abrogazione del citato art. 47, con l’inspiegabile e deleteria diminuzione dei poteri del giudice contabile, pacificamente ammessi per altri giudici, sono a dir poco dirompenti: quando il giudice contabile ravvisi ulteriori corresponsabilità che dovrebbero essere perseguite, non potrà più chiamare in giudizio i presunti responsabili, con la conseguenza paradossale – contraria ad elementari criteri costituzionali di ragionevolezza – che sarà il contribuente e non il corresponsabile del danno erariale ad essere gravato dell’onere relativo alla quota imputabile a quest’ultimo.

5) L’art. 66 del decreto delegato, in linea con il punto d) dell’art. 20 della legge delega, prevede che “il termine quinquennale di prescrizione può essere interrotto per una sola volta” e che “a seguito dell’interruzione di cui al comma 1, al tempo residuo per raggiungere l’ordinario termine di prescrizione quinquennale si aggiunge un periodo massimo di due anni; il termine complessivo di prescrizione non può comunque eccedere i sette anni dall’esordio dello stesso”.

Tale disposizione, come altre del decreto, mira anch’essa a depotenziare l’azione del P.M. ed a considerare l’azione del Procuratore regionale di rango inferiore rispetto a quella di qualsiasi cittadino che agisca in sede civile per la salvaguardia dei propri diritti e per i quali tale limitazione non sussiste.

6) Come ultimo punto, di particolare rilievo, va segnalata la statuizione, che non si ha difficoltà a definire scandalosa, contenuta nell’art. 130 del decreto delegato, in linea con l’art. 20 punto f) della legge delega, che dietro la “foglia di fico” della “funzione deflattiva della giurisdizione di responsabilità” e dello “scopo di garantire l’incameramento certo e immediato di somme risarcitorie all’erario”, impone implicitamente ulteriori balzelli ai danni della collettività, per favorire amministratori e funzionari pubblici infedeli.

Grazie a questa norma è sufficiente, per concludere la causa in primo grado, “il pagamento di una somma non superiore al 50 per cento della pretesa risarcitoria azionata in citazione”, con l’indicazione, si badi bene, solo del limite massimo e non di quello minimo per cui, secondo la statuizione legislativa, per assurdo anche l’1 % sarebbe sufficiente per risarcire il danno. Inoltre, come se non bastasse, in appello è prevista la possibilità che “il procedimento venga definito mediante il pagamento di una somma non inferiore al 70 per cento del danno contestato in citazione”.

Infine, per completare l’opera, è anche disposto che, con le modalità indicate, “la sentenza pronunciata in primo grado non è impugnabile”.

Appare superfluo fare ulteriori commenti.

 

***

 

L’unico dato positivo che è possibile reperire in questa pessima riforma consiste in una omissione e cioè nella mancata attuazione della delega prevista dall’art. 20 lett. o) dove era previsto che si debbano “ridefinire e riordinare le disposizioni concernenti l’esecuzione delle decisioni definitive di condanna al risarcimento del danno, attribuendo al pubblico ministero contabile la titolarità di agire e di resistere innanzi al giudice civile dell’esecuzione mobiliare o immobiliare”.

Sul punto lo scrivente aveva osservato che tale disposizione contrasta con la giurisprudenza della Cassazione secondo cui, nei giudizi dinanzi alle SS.UU. per questioni di giurisdizione, “all’udienza il P.G. (presso la Corte dei conti), quale organo del P.M., è rappresentato dal Procuratore generale presso la Corte di cassazione” (sent. n. 1282/82; n. 6178/83; n. 6437/85, n. 404/91). Ancora, “il Procuratore generale della Corte dei conti è presente nella fase dibattimentale davanti a queste Sezioni Unite – stante la c.d. unitarietà della figura del Pubblico Ministero – attraverso l’organo requirente che partecipa all’udienza” (sent. n. 12866/92).

In altri termini, prevedere, sotto la lett. o), la presenza del P.M. contabile nelle udienze dinanzi al giudice civile rappresentava uno “strappo” al sistema e la violazione di quei principi generali che la legge delega prescrive di osservare sotto la lett. a), che in campo processuale non consentono la contemporanea presenza di magistrati ordinari e speciali nella fase dibattimentale dei giudizi.

Sul piano pratico tale riforma avrebbe portato a risultati assolutamente controproducenti, obbligando il P.M. contabile, la cui sede istituzionale è presente nei soli capoluoghi di regione, a spostarsi continuamente presso la varie province, sedi dei giudici civili dell’esecuzione, aggravando così in modo esponenziale l’esistente, enorme, carico di lavoro che, oltre tutto, attualmente questi non è in grado di svolgere compiutamente, per la riprovevole carenza di uomini e mezzi, già denunziata, alla quale non si vuole porre rimedio.

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