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La nuova attività della P.A. tra autorità e consenso.

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La nuova attività della P.A. tra autorità e consenso.
I principi regolatori dell’attività amministrativa.
La discrezionalità amministrativa e tecnica.
La sindacabilità della discrezionalità.

 

di Maria Corasaniti, Commissario di polizia penitenziaria

 

 

 I)L’agire della P.A. tra il principio di autorità e quello del consenso, alla luce della legge 241/1990.

1) – L’attività amministrativa è quella mediante la quale l’amministrazione provvede alla cura concreta degli interessi pubblici predeterminati dalla legge ed affidati ad apparati della stessa P.A., i quali sono tenuti ad agire nel rispetto dei contenuti e dei confini stabiliti dalla legge stessa e dai principi dell’ordinamento (c.d. principio di legalità) nonché dei criteri di adeguatezza, convenienza ed opportunità (c.d. merito amministrativo)[1].

In passato, nel momento in cui si doveva porre in essere una procedura finalizzata alla tutela e al soddisfacimento dell’interesse pubblico, si ricorreva prevalentemente al “provvedimento” sull’implicito presupposto che la P.A., in quanto rappresentativa della collettività, non potesse rapportarsi con il singolo individuo in maniera sostanzialmente paritaria, ma dovesse necessariamente porsi in posizione di supremazia, a fronte di uno stato di soggezione del privato: in tale contesto culturale la scena era, quindi, caratterizzata sempre dalla forza del potere e dall’interesse pubblico.

Da tale arcaico dogma scaturiva tutta una serie di corollari, come la irrisarcibilità degli interessi legittimi o la non assoggettabilità della P.A. all’Istituto della responsabilità precontrattuale ex art. 1337 c.c., per molto tempo capisaldi del panorama giuridico ma, progressivamente superati, come vedremo, dall’inarrestabile avanzamento della “cultura del consenso”, peculiare del diritto civile ma ormai rilevante anche in ambito amministrativo.

Una forte ripercussione sull’azione della P.A. ha avuto la legge 241/1990, che, nel dettare la disciplina generale del procedimento amministrativo e dell’attività amministrativa, ha introdotto un profondo mutamento sostanziale del modo di intendere i rapporti tra l’Amministrazione ed i privati e di concepire lo stesso potere pubblico: essa ha costituito, infatti, il punto di arrivo del processo evolutivo della discrezionalità e dell’attività stessa[2].

Prima di tale rivoluzionaria normativa quest’ultime erano, come detto. sostanzialmente rette dal potere autoritativo, consistente nella possibilità per l’A. di incidere unilateralmente, tramite provvedimenti, sulle posizioni giuridiche dei destinatari, senza la necessità di un loro consenso; provvedimenti il cui fondamento era da ricercarsi nella sola volontà decisoria dell’ Ammirazione stessa.

La regola nei rapporti amministrazione – amministrati era il segreto e il silenzio basati sul presupposto di una illimitata discrezionalità, considerata come essenziale al normale svolgimento dell’amministrazione.

In tale situazione vi erano, quindi, pochi spazi per il ricorso agli strumenti contrattuali: era, infatti, difficile accettare l’idea che il soggetto-Stato si ponesse sullo stesso piano formale di un soggetto privato o che si trovasse vincolato ad un regolamento di interessi non modificabile unilateralmente.

La disciplina legislativa surriferita – con la sua carica di innovatività, con la fissazione di criteri e regole procedimentali, con la disposta tipizzazione dei doveri amministrativi di economicità ed efficacia (art.1) elevati a paradigma di valutazione dell’attività, col riconoscimento del diritto alla informazione amministrativa e del coinvolgimento degli amministrati nella determinazione del contenuto discrezionale del provvedimento – ha realizzato, in attuazione dei principi comunitari e costituzionali in materia, un modello di amministrazione fortemente innovativo in quanto fondato su una radicale riforma del modo di essere e di agire della stessa[3].

Con la legge 241 si è, infatti e finalmente, entrati, con un passaggio storico dirompente, nella modernità di uno Stato civile, fondato su un rapporto sempre più paritario e garantistico fra utenti e amministrazione.

Ciò ha fatto sì che l’amministrazione non possa, quindi, più essere sorretta dai tradizionali principi di supremazia, di separazione e segretezza ed i cittadini considerati meri destinatari della discrezionalità e della conseguente azione amministrativa: il nuovo modello di amministrazione è divenuto visibile, trasparente ed equiordinato.

Si è così attuato quel fondamentale processo di democraticizzazione per cui alla prassi della definizione unilaterale del pubblico interesse si sostituisce il sistema di democraticità delle decisioni amministrative in cui si valorizza il contraddittorio con i soggetti interessati[4].

Si è in definitiva passati da un’ amministrazione-potere ad un’ amministrazione-servizio nella quale i cittadini sono divenuti beneficiari di obblighi amministrativi con correlati riflessi sull’impostazione del problema della responsabilità dell’A., anche in relazione al fenomeno patologico dei ritardi o mancato esercizio delle sue funzioni; fatti finalmente sanzionati per effetto dell’art. 2 bis della stessa legge 241, introdotta dall’art. 7 della legge n. 69/2009 e considerati attentamente dal nuovo codice della giustizia amministrativa (art. 30,  co. 4 ed art.31).

A tale evoluzione ha contribuito anche il principio di contrattualità, peculiare del diritto civile ma ormai rilevante anche in ambito amministrativo essendo ormai acquisita la consapevolezza che anche attraverso l’attività contrattuale l’A. può realizzare un fine pubblico.

Ma nonostante ciò è doveroso rilevare che a distanza di 5 lustri dall’entrata in vigore della legge 241 tale rivoluzione dell’agire della P.A. non è stata completamente realizzata.

Il predetto principio ha trovato in origine  espressione nell’art. 11 della legge 241 che al comma 2 ha previsto espressamente la possibilità, per la P.A., di stipulare accordi con i privati aventi ad oggetto le modalità di esercizio discrezionale del potere amministrativo: la norma stessa prevede infatti che agli accordi integrativi e sostitutivi ”si applicano, ove non diversamente previsto, i principi del codice civile in materia di obbligazioni e contratti, in quanto compatibili”.

L’istituto degli accordi, previsto dalla predetta norma, ha suscitato un vasto interesse da parte della dottrina, soprattutto pubblicistica, la quale si è chiesta se gli accordi in discorso rientrino nella categoria del contratto prevista dagli artt. 1321 e ss. del codice civile o se siano qualcosa di diverso.

Secondo l’opinione prevalente gli accordi medesimi non si inquadrano nella categoria codicistica emergendo una certa distanza fra gli stessi e l’istituto del contratto di tradizione civilistica[5]. La prospettiva pubblicistica è stata condivisa anche dalla giurisprudenza della Suprema Corte di Cassazione per la quale gli accordi ex art. 11 L. 241/1990 non sono contratti in senso tecnico, né nel senso tradizionale assunto dal codice civile, né in quello fatto proprio dal codice dei contratti pubblici[6].

Per alcuni autori, invece, gli accordi in parola sarebbero veri e propri contratti ”di diritto civile”[7].

Senza entrare nel merito del predetto dibattito è importante rilevare come nel nuovo contesto normativo la P.A. per conseguire gli  interessi di portata generale dispone non solo di strumenti di diritto pubblico – cioè di provvedimenti tipici che, in quanto espressione di una posizione di supremazia, modificano di regola la sfera giuridica dei destinatari anche in assenza o contro la loro volontà (principio di autorità) – ma anche di moduli convenzionali e strumenti negoziali finalizzati ad accelerare lo svolgimento della sua azione e disciplinare con maggiore precisione i comportamenti propri e quelli dei privati oltre che i diritti e doveri reciproci (principio di contrattualità)[8].

Molti autori hanno proposto un’ interpretazione estensiva dell’art. 11 L. 241/1990 in tema di accordi sostitutivi di provvedimenti riconducendo al paradigma della stessa disposizione varie figure di accordi e contrattazioni[9].

Così facendo hanno espresso il trasparente favor per i modelli convenzionali e la sostituzione del provvedimento con gli accordi, con consequenziale erosione dei tradizionali principi di autorità e formalismo provvedimentale ad opera del principio del consenso.

Va, tuttavia, chiarito che l’intera attività dell’amministrazione, al di là della veste soggettiva dell’autore e della forma giuridica degli atti, è funzionalizzata, in quanto volta sempre al perseguimento dell’interesse pubblico, così ricadendo sotto il governo dell’art. 97 Cost. .

Il vincolo di scopo, che è immanente nell’attività amministrativa e che costituisce un profilo ontologico del potere pubblico, informa di sé la disciplina degli accordi, sia nel momento genetico (l’art. 11, col 1º comma qualifica l’accordo come mezzo di perseguimento dell’interesse pubblico) sia nel momento funzionale (lo stesso articolo al 4º comma prevede la risoluzione unilaterale del vincolo originatosi dal patto per sopravvenuti motivi di interesse pubblico)[10].

Nell’attuale nuova era dei rapporti tra Autorità e libertà, voluta prima dal diritto comunitario e poi dal legislatore italiano, l’impiego di tali ultimi strumenti convenzionali ha, pertanto, assunto – specie in alcuni settori economici ed imprenditoriali (ordinamento creditizio, gestione dei pubblici servizi, imprese pubbliche ed enti economici) – una portata e rilevanza tale da porsi in posizione spesso alternativa rispetto alla classica formula pubblicistica[11].

La legittimazione e capacità negoziale piena delle persone giuridiche pubbliche – cioè la negoziabilità del loro agire senza limitazioni se non quella del vincolo di scopo (raggiungimento dei fini pubblici) fissato dal citato articolo 11 – ha subito un’accelerazione ed una valorizzazione a seguito della legge n. 15 del 2005 che ha inserito il nuovo comma 1 bis all’art. 1 della legge 241/1990 per il quale ”la pubblica amministrazione, nell’adozione di atti di natura non autoritativa, agisce secondo le norme di diritto privato, salvo che la legge disponga diversamente”.[12]

Tale norma, che consente il ricorso a strumenti privatistici, rappresenta il formale riconoscimento generale e pieno dell’autonomia e capacità di diritto privato della P.A., con riferimento cioè sia ai contratti tipici che a quelli atipici e misti, ma sempre comunque in funzione di interessi meritevoli di tutela e salva, per determinati negozi, l’osservanza delle procedure di evidenza pubblica così come imposto dall’ordinamento comunitario[13].

La stessa disposizione ha in sostanza canonizzato il principio in esame per cui può dirsi che il potere di autonomia privata affianca in tal modo il potere amministrativo come strumento generale di azione amministrativa.

Il principio di contrattualità -nel sancire la definitiva affermazione della non unicità ed unilateralità dell’attività della P.A. quale modalità ordinaria di determinazione amministrativa – ha favorito, quindi, un rapporto sempre più paritario e garantistico fra cittadini e P.A., col radicale mutamento del sistema del diritto amministrativo fondato sul concetto di pubblica autorità[14].

In tale contesto vengono distinti tre tipi di contratto che intercettano il diritto amministrativo:

  1. a) i contratti di diritto comune nei quali non emerge alcun profilo di autoritatività essendo i contraenti su un piano di assoluta parità;
  2. b) i contratti c.d. speciali che sono retti da norme del codice civile (mantenendo la struttura privatistica) ma accanto ad esse operano norme pubblicistiche attributive di poteri speciali alla P.A. (si pensi agli appalti di opere pubbliche o di servizi)[15].
  3. c) contratti ad oggetto o di diritto pubblico la cui fondamentale caratteristica è quella di essere collegati a provvedimenti amministrativi, dei quali costituiscono un complemento necessario: il provvedimento può integrare il contratto o sostituirlo. Si assiste, in sostanza, ad una osmosi tra provvedimento e contratto, nella quale la P.A. non smarrisce il suo connotato autoritativo: in questi contratti emerge ancora di più la tematica della coesistenza dell’autorità e del consenso.

A loro volta i contratti di diritto pubblico vengono ripartiti in tre categorie: contratti accessibili a provvedimento; contratti ausiliari di provvedimenti; contratti sostitutivi di provvedimenti.

1) I contratti accessivi a provvedimento sono moduli convenzionali che accedono appunto a provvedimento: quest’ultimo è già fonte di obbligazione per il privato ed il contratto contiene la disciplina di specie delle obbligazioni (esempio classico di tali contratti sono le concessioni – contratto[16] ).

2) I contratti ausiliari di provvedimenti e quelli sostitutivi di provvedimenti rientrano nell’art. 11 della legge 241: si inseriscono all’interno di procedimenti amministrativi.

Caratteristica fondamentale dei primi è costituita dal fatto che se il privato non adempie, l’amministrazione può agire o in via contrattuale dinanzi al giudice ordinario oppure in sede procedimentale, proseguendo oltre nel procedimento fino all’emanazione del provvedimento finale: appartengono alla categoria degli accordi ausiliari di provvedimenti gli accordi integrativi di cui al citato articolo 11.

3) Per quanto concerne i contratti sostitutivi di provvedimenti la legge n. 15/2005 ha soppresso l’originaria previsione (art. 11) della possibilità di stipularli solo nelle ipotesi previste (tipicità) ma ha previsto che gli accordi medesimi debbano essere sempre preceduti da una ”determinazione dell’organo che sarebbe competente per l’adozione del provvedimento”: esempio tipico di contratto sostitutivo di provvedimento è la cessione volontaria del bene nel procedimento espropriativo riconducibile, quindi sotto il più ampio ombrello del citato articolo 11.

In definitiva dopo l’entrata in vigore della legge 241/1990 non esistono più ostacoli a ritenere che l’A. possa utilizzare strumenti negoziali per disciplinare le modalità di esercizio delle proprie prerogative pubblicistiche: è ormai acquisita la consapevolezza che, anche attraverso l’attività contrattuale, la P.A. può realizzare il fine pubblico.

Si può anzi e sicuramente affermare che oggi il diritto amministrativo è ormai partecipe dei valori del diritto privato, la cui centralità ed egemonia sistematica vengono ormai riconosciute da molti autori[17]

2) – Ma  l’attività amministrativa attiva che qui interessa è quella caratterizzata dal potere autoritativo, consistente nella possibilità per l’A. di incidere unilateralmente sulle posizioni giuridiche dei destinatari, senza che sia necessario il loro consenso.

Se ciò è vero va tuttavia rilevato che l’A. stessa non possa attribuirsi da sé poteri di tal genere ma debba essere la legge ad attribuirli ed a disciplinarne l’esercizio. Tuttavia, la legge può regolamentare l’esercizio dell’azione amministrativa tanto in modo dettagliato e puntuale, sì da non lasciare spazio alcuno alla P.A. per l’adozione di scelte proprie, quanto in modo più elastico e generico, sì da lasciare all’amministrazione tale spazio.

Nel primo caso il potere si dice vincolato perché al verificarsi di determinati fatti o in presenza di certi requisiti e presupposti la P.A. è obbligata ad adottare un determinato atto indicato dalla legge senza che sia possibile una scelta, più o meno ampia, tra le misure da adottare; all’organo competente a porre in essere l’attività medesima: nulla è, quindi, lasciato alla sua valutazione.

La stessa autorità è tenuta solo a verificare che sussistano tutti gli elementi e i presupposti cui la legge subordina l’azione amministrativa e la conseguente adozione del provvedimento in quanto essi sono già stati delimitati con regole rigide e inderogabili disponendo l’an, il quid, il quomodo ed il quando della decisione da assumere.

Lo svolgimento della predetta attività vincolata costituisce cioè un preciso obbligo giuridico per la P.A. e, di conseguenza, è destinata a svolgersi esclusivamente nei limiti, nei casi, nelle forme e alle condizioni stabilite.

In altri termini può dirsi che l’attività dell’amministrazione è vincolata quando essa deve prendere una decisione che è l’unica possibile in base alle norme giuridiche.

Nella stessa attività, la ponderazione degli interessi e la scelta dell’interesse da attuare è già stata effettuata preventivamente dal legislatore per cui l’azione amministrativa si riduce alla pura e semplice esecuzione delle predette norme giuridiche: tra gli esempi di atti vincolati si possono citare l’ordinanza di demolizione di un immobile abusivo ed il provvedimento di recupero di somme corrisposte in eccedenza da una P.A ad un proprio dipendente.

Non sempre, però, la legge può disciplinare l’azione amministrativa in modo così dettagliato, non potendo prevedere tutti i casi concreti e le loro possibili sfumature e conseguenze[18].

In alcuni casi, quindi, la normativa è necessariamente più elastica, non disciplina il potere in modo preciso e puntuale, non determina dettagliatamente in qual modo l’A. debba orientarsi e regolarsi[19].

In tali casi l’A. ha, quindi, uno spazio, più o meno ampio, per adottare le sue scelte ed il suo potere amministrativo si definisce discrezionale.

L’attività è, quindi, discrezionale quando l’amministrazione ha la facoltà di scegliere tra più decisioni tutte legittime anche se la stessa è obbligata a scegliere la soluzione più opportuna e più conveniente, quella cioè più adatta alla situazione.

La scelta discrezionale lasciata dalle norme alla P.A. si articola nel seguente modo: se emanare un certo provvedimento (discrezionalità nell’an), quando emanarlo (discrezionalità nel quando), con quale contenuto (discrezionalità nel quid), come esternarlo e quali elementi accidentali inserirvi (discrezionalità nel quomodo).

Da quanto sopra riferito si evince che la distinzione tra attività discrezionale e attività vincolata riguarda il rapporto che intercorre tra la norma giuridica che disciplina una determinata attività amministrativa e la libertà di azione di scelta lasciata alla pubblica amministrazione che deve svolgere tale attività.

Va infine rimarcato che la c.d. discrezionalità in senso proprio ricorre solo nel campo pubblicistico e mai nei rapporti strettamente privatistici nei quali opera la normale autonomia contrattuale[20].

L’attività medesima, considerata nella sua essenza, si correla, quindi, direttamente  con la funzione amministrativa intesa come funzione destinata ad esprimersi in atti essenzialmente imperativi[21] e cioè in provvedimenti tipici costituenti la manifestazione più significativa del potere amministrativo per essere in grado d’incidere, come detto, autoritativamente nella sfera giuridica dei soggetti destinatari.

Tale attività non è mai libera in quanto non solo i fini di interesse generale cui essa mira ed ai quali è vincolata (principio di funzionalità) sono sempre predeterminati dalla legge ma anche perché essa deve rispettare e, anzi in positivo, attuare e concretare i principi istituzionali del nostro ordinamento: il comportamento dell’amministrazione è, infatti, regolato da principi costituzionali e comunitari nonché dalle leggi ordinarie e solo ulteriormente e secondariamente da atti che l’amministrazione può adottare esplicando la sua capacità di autodeterminazione e cioè la sua autonomia.

  

  1. II) – I principi costituzionali e comunitari regolatori dell’attività e della discrezionalità amministrativa.

 

1) – L’attività e la discrezionalità, che si correlano sul piano pubblicistico col potere amministrativo di cui sono espressione, devono rispettare oltre che la legge anche i principi costituzionali e quelli del diritto comunitario[22].

Questi ultimi, costituenti una species del più ampio genus dei principi generali del diritto o dell’ordinamento, rivestono un ruolo di primo piano assolvendo alle funzioni di: a) mezzi di auto-integrazione dell’ordinamento; b) parametri di legittimità delle disposizioni normative e amministrative; c) strumenti per l’interpretazione di regole criptiche ed oscure.

I principi costituzionali e comunitari si presentano come prescrizioni immediatamente precettive[23] che valorizzano i diritti e le libertà del cittadino quali valori fondanti l’ordinamento nel suo complesso[24].

Essi consentono al giudice notevoli salti in avanti rispetto al legislatore soprattutto nell’assicurare tutela alle situazioni giuridiche soggettive individuali.

L’interesse al rispetto delle regole di svolgimento della discrezionalità e dell’attività amministrativa ha assunto sempre più, a seguito della procedimentalizazione ex lege 241/1990, un autonomo rilievo, per cui l’inadempimento e la violazione delle norme e dei principi stessi integrano pur sempre una qualche responsabilità, soprattutto nell’attuale momento storico connotato dalla nascita di nuovi diritti e dallo sviluppo di tecniche risarcitorie delle più varie posizioni personali.

I principi anzidetti rappresentano una “tavola di valori“ costituente il “patrimonio genetico“ dai quali la legge generale sull’azione amministrativa, novellata nell’anno 2005, ha tratto ispirazione col compito di presidiare e di garantire i diritti medesimi[25].

Essi costituiscono, quindi, i valori ed i canoni essenziali di riferimento di ogni comportamento della P.A. ed in quanto regolanti e condizionanti tutta  l’azione amministrativa rivestono un consistente interesse e meritano grande attenzione.

I principi comunitari, in particolare, hanno prodotto un terremoto senza precedenti nel sistema delle fonti italiane[26].

Essi sono stati inseriti nell’ordinamento italiano tramite gli artt. 11 e 117 Cost. e sono stati richiamati in blocco dalla legge n. 241/1990 di disciplina generale del procedimento amministrativo e dell’attività amministrativa.

L’art. 1, co. 1 della stessa, come modificato dalla L. n. 15 del 2005, dispone, infatti, che “L’attività amministrativa… è retta dai principi dell’ordinamento comunitario”.

I principi costituzionali e quelli comunitari hanno avuto, e tuttora hanno, una carica “propellente” (Bobbio N.) sia come limite all’azione dei pubblici poteri sia, per converso, come ampliamento degli spazi di libertà per il cittadino e per la tutela delle sue situazioni soggettive; accrescimento che ha scardinato il tradizionale assetto dei rapporti amministrativi fondato sull’impari dialettica tra autorità e libertà, assicurando all’individuo una maggiore protezione a fronte dell’esercizio del potere.

I principi medesimi – nel determinare una dequotazione dell’agere pubblicum  e dell’ormai tramontato mito della presunzione di legittimità dell’atto amministrativo, retaggi storici di un autoritarismo ormai consumato dalla storia – hanno spostato il baricentro dell’azione amministrativa dall’autorità alla libertà, dall’unilateralità alla consensualità, dalla gerarchia alla paritarietà[27].

 

1a) – Tra i principi che regolano l’attività e la discrezionalità amministrativa il principio di legalità è quello che riveste una centralità ed un ruolo primario in ordine ai rapporti tra la legge e l’azione amministrativa medesima, nel senso che esso postula la sottoposizione di quest’ultima alla legge (intesa in senso ampio) ed alle fonti normative superiori alla legge stessa: nel civile, a differenza che nel diritto amministrativo ed in quello penale, il principio di legalità risulta sfumato, nel senso che in esso l’autonomia negoziale riconosce alle parti ampio spazio al punto da consentirle di predisporre contratti anche nelle ipotesi non previste espressamente dalla legge.

Il principio di legalità nel diritto amministrativo, al fine di circoscrivere la discrezionalità della P.A., impone, in altri termini, che l’attività amministrativa debba avere non solo un fondamento normativo (legalità formale) ma debba rispettare nel suo esercizio la prevista disciplina legislativa ed i principi costituzionali e comunitari interagenti con la stessa (legalità sostanziale).

Tale principio – che trova il suo fondamento nell’articolo 97, comma 1 della Costituzione e la sua estensione all’azione amministrativa si desume anche dagli artt. 24, 113, 23 e 42 Cost. – viene enunciato al livello di normazione primaria dall’art. 1, comma 1 della legge n. 241 del 1990 a tenore del quale ”l’attività amministrativa persegue i fini determinati dalla legge[28].

 Si è sostenuto che tale ultima disposizione abbia convertito il principio in esame da principio inespresso in principio espresso[29].

Dal principio di legalità derivano gli importanti corollari della tipicità dei provvedimenti amministrativi (con la sola eccezione rappresentata dalle previste ordinanze extra ordinem che sono libere nei contenuti) e della loro esecutorietà: l’articolo 21 ter L. 241 precisa che il provvedimento amministrativo ha carattere di esecutorietà solo nei casi previsti dalla legge[30].

Senza voler ripercorrere il dibattito dottrinario del rapporto tra legge e discrezionalità/attività amministrativa e della contrapposizione fra la c.d. teoria della conformità formale (che si accontenta solo del presidio legislativo senza indagare l’intima corrispondenza del provvedimento alla legge) ed il c.d. principio di conformità sostanziale (in forza del quale ogni provvedimento amministrativo non deve essere semplicemente autorizzato dalla legge ma deve essere conforme all’intima ratio ispiratrice della norma) è d’obbligo rilevare come la connotazione sostanzialistica abbia trovato presso la Corte Costituzionale espresso riconoscimento (per tutte sentenza 7 aprile 2011, n. 115).

La ricostruzione della legalità in senso sostanziale implica, in altri termini: che l’agire amministrativo debba rapportarsi alla legge sulla base di una relazione di conformità materiale o contenutistica; che la legge stessa debba offrire non solo un parametro di riferimento formale ma, appunto, sostanziale; che non è quindi consentita ”l’assoluta indeterminatezza”del potere conferito dalla legge ad una autorità amministrativa, essendo indispensabile che l’esercizio del potere medesimo sia determinato nel contenuto e nelle modalità.

Necessita, in definitiva, non solo di una base legale purchessia legittimante l’esercizio della funzione amministrativa, ma di un assetto normativo di riferimento di tipo contenutistico che stia alla base dell’azione amministrativa in sede di attuazione.

 

1b) – Al principio di legalità si affiancano una serie di principi che cercano di meglio calibrare l’azione amministrativa: i principi comunitari di proporzionalità e di ragionevolezza.

Tali principi afferiscono a tutti gli ambiti caratterizzati dall’esercizio di un pubblico potere assurgendo a parametro di misurazione dei rapporti tra l’autorità e i cives [31].

Il principio di proporzionalità, quale misura dell’esercizio del potere discrezionale, è divenuto in questi ultimi anni un leit motiv che ad esso si richiamano i giudici con sempre maggiore frequenza nell’attività di sindacato dell’azione pubblica.

Esso limita nella misura più ridotta possibile gli effetti che possono prodursi sulla sfera giuridica dei destinatari di un provvedimento amministrativo; implica, quale strumento di salvaguardia dei diritti e delle libertà degli amministrati, continui bilanciamenti tra l’interesse pubblico e gli interessi privati; si pone, in definitiva , come argine all’esercizio arbitrario dei pubblici poteri, imponendo il rispetto dell’equilibrio tra gli obiettivi perseguiti ed i mezzi utilizzati.

La legge 241/1990 ha dato concretezza all’affermazione dottrinaria secondo cui nell’attribuzione legislativa di un potere discrezionale è “sempre sottinteso il presupposto che l’esercizio del potere si effettui nella misura media che è propria della considerazione giuridica in modo razionale” [32].

In sostanza ove vi sia una possibilità di scelta l’A. deve optare per la soluzione, egualmente satisfattiva dell’interesse pubblico, ma meno afflittiva per il privato: divieto, quindi, di comprimere la sfera medesima in misura diversa ed ultronea rispetto a quanto necessario per il raggiungimento dello scopo cui il provvedimento stesso è preordinato; l’obiettivo dell’amministrazione deve essere quello di addivenire ad una composizione degli interessi in gioco che, attraverso un sacrificio bilanciato degli interessi diversi dall’interesse pubblico primario, si riveli, appunto, come proporzionata.

Il principio di proporzionalità delle decisioni amministrative richiede in estrema sintesi: l’idoneità della misura allo scopo da raggiungere; la necessarietà della misura; la preferenza alla misura più mite.

 

Il principio di ragionevolezza costituisce, anche alla luce della L. 241/90, un criterio in cui confluiscono i principi di eguaglianza, di imparzialità e di buon andamento.

Esso attiene alla qualità della scelta di esercitare il potere e guarda al tipo di mezzo scelto.

In forza di tale principio l’azione amministrativa deve adeguarsi ad un canone di razionalità operativa, tale da evitare decisione arbitrarie ed irrazionali (Morbidelli).

L’obbligo di ragionevolezza si traduce, quindi, nel dovere per la P.A. di porre in essere un’attività procedimentale e provvedimentale immune da censure sotto il profilo logico. La violazione del principio stesso può ripercuotersi, pertanto, anche sulla validità del provvedimento amministrativo, in quanto indice sintomatico di eccesso di potere[33].

 

1c) – La stessa attività e discrezionalità amministrativa devono, poi e necessariamente, conformarsi al principio di buon andamento e di imparzialità.

Tali  principi, anche se aventi una precipua connotazione e valenza giuridica ed un campo di operatività ampio, sono stati, dalla dottrina e dalla giurisprudenza, per lo più riferiti direttamente all’attività amministrativa per il loro grado di incidere sugli aspetti funzionali del relativo potere amministrativo.

Essi da principi ”trascuratissimi”[34] hanno ripreso vigore ed attualità per effetto della legge 241 e per il tramite della giuridicizzazione dei criteri di efficacia ed economicità dell’azione amministrativa[35]: i principi stessi impongono una valutazione dell’attività alla luce proprio dei risultati che i dirigenti della P.A. sono chiamata perseguire[36].

Il principio di buon andamento costituisce un presidio immanente a tutela della garanzia dello stesso principio di legalità sostanziale e dell’imparzialità ed è stato anch’esso enunciato dall’articolo 97 Cost. ed ulteriormente specificato dalla legge  n. 241 /1990[37] .

L’art. 1 di quest’ultima, nel disporre che ”l’attività amministrativa… è retta da criteri di economicità, di efficienza..”, impone in sostanza l’obbligo della P.A. di svolgere la propria attività secondo le modalità più idonee ed opportune al fine della economicità, dell’efficacia e dell’efficienza.

Parametri questi che, positivizzati, stanno facendo assumere alla funzione amministrativa la connotazione di una funzione o “azione per risultati”: canoni che riflettono la volontà di improntare l’azione amministrativa ai principi efficientistici e manageriali a cui sono ispirati le imprese private.

Siffatto nuovo modo di agire amministrativo comporterebbe, si sostiene, la ridefinizione e messa in crisi della tradizionale centralità e primazia del principio di legalità: la “preferenza” ed il ruolo della legge, finalizzati per esigenze garantistiche a circoscrivere la discrezionalità amministrativa, verrebbero in sostanza sovvertiti e confinati alla mera previsione di scopo (raggiungimento degli obiettivi di prefissati in sede legislativa) con conseguente loro svalutazione rispetto al nuovo modello della c.d. Amministrazione di risultato, alla ridefinizione della discrezionalità ed attività amministrativa.

Il primo citato criterio dell’economicità, – ribadito dall’art. 4, 1º comma del d.lgs. 3 febbraio 1993, n. 29 che finalizza l’organizzazione degli uffici amministrativi agli obiettivi della “economicità, speditezza e rispondenza al pubblico interesse dell’azione amministrativa” – concerne l’obbligo di ottenere un determinato risultato impiegando le risorse a disposizione in modo massimo: ottimizzazione dei risultati.

Del principio di economicità costituisce espressione la liberalizzazione introdotta dall’art. 19, L. n. 241/1990, dal momento che il principio stesso postula che la cura dell’interesse pubblico venga attuata con il minor impiego di mezzi procedurali e con la soppressione di adempimenti che inutilmente appesantiscono il procedimento.

Il criterio dell’efficacia, quale proiezione positiva, anch’esso, del principio costituzionale di buon andamento, impone all’A. di conseguire un determinato risultato tramite un’azione idonea.

Lo stesso viene inteso come adeguatezza dell’azione amministrativa, che “deve essere funzionale e cioè deve trovare la sua giusta misura rispetto al fine”[38].

Ne deriva che l’attività amministrativa “rinviene ormai i parametri giuridici di valutazione della propria validità anche… nel principio di efficacia e in quello ad esso più strettamente collegato, il principio di economicità[39].

Da ciò l’attuale tendenza evolutiva del sistema verso un principio di legalità sostanziale e la connessa evoluzione della responsabilità dirigenziale come responsabilità manageriale e responsabilità di risultato, in quanto ”ciò che ha rilievo non è tanto il fatto che il dirigente sia stato più o meno osservante dei propri doveri, quanto il fatto che i risultati complessivi dell’azione dell’ufficio siano più o meno corrispondenti, quantitativamente e qualitativamente, alle ragionevoli attese” dovendo essere valutata l’azione della P.A. ”in termini di efficacia (rapporto tra i fini perseguiti ed i risultati ottenuti)”, nonché in termini di ”bontà sostanziale dei risultati”[40].

Il criterio dell’efficienza, non enunciato nell’articolo 97 Cost. ma presente in molte disposizioni normative, impone l’obbligo di rapportare i costi con i vantaggi derivanti dal raggiungimento dello scopo con saldo positivo a favore dei vantaggi.

Il criterio dell’efficienza, infine, viene inteso quale attribuzione alla P.A. di mezzi giuridici elastici per consentire il migliore proporzionamento dell’attività erogata al fine prestabilito: tale criterio, pertanto, si risolverebbe in un principio di elasticità e puntualità dell’azione amministrativa[41].

Dal sintetico quadro delineato scaturisce che oggi i principi di buon andamento ed imparzialità costituiscono due aspetti del tutto complementari di un’unica realtà, quella della ”buona amministrazione” e della “sana” (o buona) gestione finanziaria prevista dagli articoli 248 e 274 del trattato Ce.

Il principio dell’imparzialità, che trova anch’esso fondamento in disposizioni costituzionali (artt. 97, 51 e 98), richiede un’ adeguata ed approfondita valutazione delle situazioni concrete visto che impone ad ogni amministrazione, nell’esercizio della sua delicata funzione discrezionale, un’ equidistanza rispetto a tutti i soggetti che con essa vengono a contatto al fine di evitare la remissione di interessi tutelati[42].

L’indipendenza e la neutralità della P.A. è indispensabile, quindi, per eliminare favoritismi e disparità di trattamento; situazioni e criticità quest’ultime che ancora si annidano purtroppo anche in organismi rilevanti che, proprio perché dotati di ampi poteri discrezionali e costituzionale autonomia, dovrebbero rappresentare il punto di riferimento più alto dell’imparzialità e, quindi, la controspinta alla spinta disgregatrice della loro dignità istituzionale e la garanzia della loro stessa funzione: in un sistema  democratico il vero prestigio non è più correlato all’esercizio di una funzione ma al modo col quale essa si esercita.

 

1c) – Costituisce poi un valore essenziale di riferimento di ogni comportamento dell’amministrazione anche il principio, di derivazione comunitaria, della ragionevolezza, che rappresenta un criterio in cui confluiscono i principi di eguaglianza, di imparzialità e di buon andamento.

In forza di tale principio l’azione amministrativa, al di là del rispetto delle prescrizioni normative, deve adeguarsi ad un canone di razionalità operativa, sì da evitare decisioni arbitrarie ed irrazionali (Morbidelli).

La violazione di detto principio comporta un vizio di eccesso di potere, in particolare in relazione alle figure sintomatiche del difetto di motivazione (es. si disattende immotivatamente il tenore di un parere precedentemente acquisito), o di ingiustificata disparità di trattamento (ove ci si comporti in maniera diversa dinanzi a situazioni analoghe) o di contraddittorietà della motivazione stessa.

 

1d) – Strettamente connessi e riconducibili ai su riferiti principi del buon andamento e dell’imparzialità sono anche i principi della pubblicità e della trasparenza dell’azione amministrativa da intendersi come immediata e facile conoscibilità, comprensibilità e controllabilità di tutti i momenti e di tutti i passaggi in cui si esplica l’operato della P.A. onde garantirne e favorirne lo svolgimento imparziale.

Tali principi  sono stati positivizzati  dalla legge n. 15 del 2005, di modifica della L.241/990, il cui art.1 ha previsto che  “l’attività amministrativa persegue i fini determinati dalla legge ed è retta da criteri di pubblicità e di trasparenza”.

Si tratta di principi che impongono alla P.A. di rendere visibile, comprensibile e controllabile all’esterno il proprio operato: obbligo in sostanza della motivazione dei provvedimenti amministrativi (art.3) e quindi della piena conoscibilità e controllabilità della discrezionalità e conseguente azione amministrativa; obbligo desumibile dall’art.27, co. 5 della L.241/1990 e dalle norme di quest’ultima che disciplinano gli istituti della pubblicazione degli atti (art. 26)[43] dell’accesso ai documenti, della comunicazione di avvio del procedimento (art. 7 1º comma ), dell’indicazione preventiva dell’ufficio e  della persona regista e responsabile del procedimento [44].

I principi medesimi, inerenti entrambi al rapporto dialogante tra P.A. ed amministrati, attribuiscono in sostanza a questi ultimi nel nuovo assetto normativo la possibilità di una più efficace valutazione della discrezionalità e verifica della legittimità dell’azione della stessa P.A., con ovvio sovvertimento dell’antica discrezionalità e quindi della stessa attività amministrativa:  oggi controllabili in tutti i momenti ed i passaggi in cui esse si esplicano.

In altri termini può dirsi che i principi in esame, unitamente  a quelli di imparzialità e di legalità sostanziale, hanno la precipua finalità: di realizzare il cambiamento radicale di mentalità nella burocrazia italiana; di stimolare la sua azione in non pochi casi inadeguata e soprattutto lenta; di evitare, nello stesso interesse pubblico, indebite deviazioni nell’estrinsecazione della discrezionalità; di preservare, quindi, dalle storture del sistema e dall’arbitrario esercizio dei poteri; di moralizzare l’agire della P.A..

Finalità soprattutto quest’ultima oggi irrinunciabile considerato il ben conosciuto fenomeno della malaffare e della corruzione esistente in alcuni apparati della P. A., eventi spesso favoriti proprio dallo schermo della discrezionalità.

Al fine di poter più efficacemente controllare e combattere tale fenomeno ed a favorire il buon andamento della stessa P.A. il legislatore è recentemente intervenuto per dare una più ampia visione della trasparenza e dell’accesso: l’art. 1 del d.lgs. 14 marzo 2013 n. 33 ( c.d. Decreto trasparenza) ha statuito che “la trasparenza è intesa come accessibilità totale delle informazioni concernenti l’organizzazione dell’attività delle pubbliche amministrazioni, allo scopo di favorire forme diffuse di controllo sul perseguimento delle funzioni istituzionali e sull’utilizzo delle risorse” e che essa… “integra il diritto ad una buona amministrazione e concorre alla realizzazione di una amministrazione aperta, al servizio del cittadino[45].

Tale cambio di prospettiva dovrebbe invogliare l’amministrazione a perseguire più efficacemente i propri obiettivi e ad adottare decisioni il più possibile lontane da sospetti di favoritismo: non a caso il Decreto – trasparenza è stato adottato dietro delega contenuta nella c.d. Legge anticorruzione 6 novembre 2012, n. 190).

 

1e) – Un contributo notevole per il conseguimento della correttezza e terzietà delle valutazioni, delle scelte ed attività discrezionali della P.A. ha dato, anche, il principio di auto limite.

Il principio stesso è desumibile dall’obbligo dell’A. di predeterminare e rendere pubblici i criteri disciplinatori della discrezionalità erogativa di vantaggi economici (art. 12 L. 241): si tratta di criteri spesso idonei a ridurre, se non eliminare, i margini di discrezionalità della pubblica amministrazione nell’adozione delle sue successive determinazioni.

Il principio di auto-limite è stato ricollegato dalla giurisprudenza al precetto dell’art. 97 Cost. per la sua riconducibilità ai principi più generali di trasparenza e di imparzialità.

Altro importante settore nel quale il principio in parola trova la sua più forte applicazione è quello relativo ai concorsi pubblici. Il problema attiene, soprattutto, alla predeterminazione dei criteri di massima di valutazione dei candidati e cioè a quei parametri ai quali le commissioni esaminatrici si impegnano a conformare la propria attività ed i giudizi che sono chiamati ad esprimere. La necessaria elaborazione preventiva dei criteri di valutazione costituisce, anche soprattutto in questo campo, un auto-limite della discrezionalità e una importante garanzia per i concorrenti perché, nel loro interesse, rende meglio comprensibili i risultati concorsuali.

Tale auto limite ed il sindacato, anche sostanziale, sulla discrezionalità tecnica hanno manifestato tutta la loro importanza pratica in relazione proprio a quei settori ed ordinamenti avvezzi a trincerarsi dietro tale nozione per mascherare forme di cooptazione del personale.

 

1f) – Un più incisivo controllo degli amministrati sui comportamenti discrezionali dei soggetti che agiscono per l’A. è fornito dal principio della partecipazione al procedimento; principio che, diffusamente applicato dalla giurisprudenza comunitaria, ha ricevuto in Italia una disciplina generale sconosciuta prima dell’entrata in vigore della L. 241/1990.[46]

Dopo quest’ultima normativa l’attività amministrativa è, di regola, una attività tipicamente procedimentalizzata e di contemperamento di tutti gli interessi in essa coinvolti.

Il ricorso al modello procedimentale sottrae all’A. lo spazio tradizionale di cui godeva, soprattutto in fase di formazione della decisione [47].

Il principio partecipativo, oltre a rappresentare  uno strumento collaborativo e di accrescimento delle capacità conoscitive della stessa amministrazione procedente, favorisce anche e soprattutto il controllo degli amministrati sui comportamenti discrezionali dei soggetti che agiscono per l’amministrazione, stimolandoli a recepire le proprie ragioni ove valide[48] e quindi a comportarsi responsabilmente con correttezza e sulla base di parametri di legalità: da ciò la c.d. multifunzionalità dell’intervento del privato nel procedimento.

Il riconosciuto diritto del cittadino alla informazione amministrativa, la sua possibilità di partecipare al procedimento ed il correlativo obbligo della P.A. di ascoltare e valutare le sue ragioni (in altre parole l’inserimento dello stesso nel processo valutativo e decisionale) con la consequenziale attenuazione e riduzione della sfera discrezionale e dell’unilateralità del potere pubblico determinano, in sostanza, una certa cogestione della discrezionalità, sottraendola alla preesistente situazione di estraneazione e di soggezione alle valutazioni tecniche e scelte ampiamente discrezionali del potere stesso.

Nella nuova ottica legislativa l’intervento del privato, col contributo di idee e l’emersione del suo interesse nel procedimento, svolge, invero, un penetrante ruolo. Ciò in quanto la sua partecipazione determina un collegamento, un momento dialettico tra il privato stesso ed il soggetto pubblico, entrambi cooperanti alla gestione della discrezionalità e dell’attività amministrativa per una migliore soddisfazione dell’interesse pubblico attraverso una gestione più razionale, ponderata e più democratica del potere (principio di coamministrazione).

La portata generale, la centralità e la multifunzionalità dell’intervento del privato nel procedimento – desumibile anche dal principio di consensualità (art. 11 L.241) – è stato, in presenza del nuovo tessuto normativo di cui alla legge 241/1990, rimarcato più volte oltre che dalla dottrina[49] anche dall’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato e dalle Sezioni Unite della Cassazione civile in relazione al tradizionale alto tasso di discrezionalità ed alla libertà dell’A.

L’esposto quadro generale sui cardini che oggi reggono l’ordinamento amministrativo e pongono limiti alla discrezionalità ed attività della P.A. impone di fare un conclusivo accenno a quello che, a mio avviso, costituisce o dovrebbe costituire il baricentro, il principio informatore dell’agire amministrativo, principio in concreto spesso disatteso nel nostro paese.

 

1g) – Intendo riferirmi alla principio di responsabilità della P.A. (di derivazione comunitaria) che si interseca con gli altri principi esaminati, con la sindacabilità della discrezionalità tecnica è, quindi, con la problematica risarcitoria: è proprio con riferimento a tale responsabilità che si pone il problema di ammissibilità del sindacato in ordine all’attività discrezionale.

Non è questa la sede per affrontare in profondità la materia in generale della responsabilità della P.A. e più in particolare della sua natura extracontrattuale o contrattuale che costituisce uno dei problemi dottrinari più dibattuti del diritto amministrativo e che, con tutte le connesse questioni, non ha ancora trovato una sistemazione definitiva, anche se la tesi che inquadra la responsabilità stessa nel paradigma acquiliano è prevalente in giurisprudenza.

Si vuole qui solo ricordare che la trasformazione in senso aziendalistico dell’apparato burocratico non può non avere riflessi sull’impostazione del problema della responsabilità della P.A. e che, a differenza di quanto avveniva in passato, il cittadino del terzo millennio, interessato ad un procedimento, non è più il destinatario passivo della discrezionalità e dell’azione amministrativa ma è divenuto beneficiario di doveri amministrativi che la giurisprudenza, a partire dalla nota sentenza della Cassazione n. 500/1999 (che ha abbattuto il dogma della irrisarcibilità dei danni da lesione degli interessi legittimi), identifica negli esaminati principi di imparzialità, di correttezza e buona amministrazione ai quali, come detto, l’esercizio della funzione pubblica deve ispirarsi e che il giudice può valutare in quanto si pongono come limiti alla discrezionalità ( Cass.sentenza n. 157 del 10 gennaio 2003).

 

III) – La discrezionalità amministrativa e tecnica: definizioni e contenuto.

 La discrezionalità della P.A. ha da sempre affascinato schiere di giuristi oltre che in ordine alla enucleazione della sua definizione, delle sue connotazioni e del suo contenuto, anche e soprattutto sulle problematiche del controllo giurisdizionale della stessa ed in particolare della discrezionalità tecnica.

Ma particolarmente oggi – nel momento cioè in cui si vede il nostro Paese alle prese con lentezze e ritardi patologici nell’esercizio delle funzioni amministrative – il problema delle scelte oculate e rapide da parte dell’ apparato burocratico e quindi della discrezionalità amministrativa è tornato di grande attualità per cui esso merita un indispensabile approfondimento.

Va anzitutto rilevato che la discrezionalità concerne sia le scelte di frutto di discrezionalità amministrativa sia quelle espressive di discrezionalità tecnica.

Della discrezionalità la dottrina dà definizioni più o meno tautologiche.[50]

Il Mortati, dopo aver sostenuto che la discrezionalità si dice amministrativa perché riguarda un potere conferito all’amministrazione, definisce in generale ed in termini sostanziali la discrezionalità stessa come la qualità di un potere autoritativo disciplinato dalla legge mediante rinvio alle massime di esperienza di un dato settore di attività, in modo da essere esercitato secondo il criterio di normale razionalità che da esse si ricava in rapporto ad un predeterminato fine da perseguire[51].

Il Virga la definisce come ”facoltà di scelta… per il soddisfacimento dell’interesse pubblico e per il perseguimento di un fine rispondente alla causa del potere esercitato”.[52]

Il Casetta specifica che la discrezionalità amministrativa è lo spazio di scelta che residua allorché la normativa di azione non predetermini in modo completo tutti i comportamenti dell’amministrazione.[53]

Ma anche se l’essenza della discrezionalità amministrativa viene tuttora molto dibattuta in dottrina, l’opinione dominante definisce la discrezionalità come un potere di valutazione comparativa di interessi in ordine ad un interesse primario indicato da una norma di legge; essa consiste, in altri termini, nella ”ponderazione comparativa di più interessi secondari in ordine ad un interesse primario”[54] e presuppone il riconoscimento alla P.A. di uno spazio valutativo e decisionale, potendo la stessa individuare il modo migliore per perseguire l’interesse in sede normativa predeterminato[55].

In definitiva può dirsi che la discrezionalità (condizionata dal giudizio di convenienza amministrativa) comporti sempre una scelta fra più soluzioni possibili e cioè la scelta della soluzione più opportuna per il caso concreto; dunque va individuato un interesse primario, ma questo va attuato prendendo in considerazione anche gli altri interessi compresenti, siano essi pubblici, collettivi o privati.

In estrema sintesi i momenti essenziali che connotano l’esercizio della discrezionalità sono: il giudizio essendo l’amministrazione tenuta ad individuare e valutare tutti i fatti degli interessi rilevanti; la scelta con la quale l’amministrazione individua la soluzione più idonea a realizzare l’interesse pubblico primario col minor sacrificio possibile agli altri interessi.[56]

La discrezionalità consta quindi di due fasi: la prima è quella ricognitiva degli interessi coinvolti e la seconda quella che, previa ponderazione di questi ultimi, procede alla scelta provvedimentale.

In ordine a quest’ultimo aspetto si ritiene che l’A. possa avere un potere di scelta: a) circa l’adozione del provvedimento (discrezionalità nell’an), non nel senso che essa sia libera di esercitare o meno il potere, essendo questo funzionalizzato e da esercitarsi, bensì nel senso che il provvedimento possa essere negativo; b) in ordine all’individuazione del momento più adeguato per l’assunzione della determinazione amministrativa (discrezionalità nel quando); c) con riguardo al contenuto della decisione amministrativa ( il quid): si pensi, in ordine a quest’ultimo aspetto, ai casi in cui la sanzione può avere natura pecuniaria o natura diversa (come la chiusura dell’esercizio, la riduzione in pristino,ecc…).

In ogni caso va precisato che anche quando alla P.A. sia attribuito il più ampio potere discrezionale, come nel caso degli atti di alta amministrazione, limite fondamentale dell’attività amministrativa è quello determinato dalla necessità di perseguire la cura dell’interesse pubblico generico, nonché quella particolare finalità di interesse pubblico (c.d. interesse pubblico specifico) che la legge pone come ragione giustificatrice (cioè causa) del potere attribuito alla P.A.; diversamente la discrezionalità potrebbe trasmodare nell’arbitro.

Dissimile dalla discrezionalità amministrativa è la “discrezionalità tecnica” che consiste nella valutazione di fatti complessi per mezzo di discipline tecniche e specialistiche.

Diversamente da quanto accade allorché, esercitando discrezionalità amministrativa, compie valutazione di opportunità scegliendo la misura amministrativa più idonea a soddisfare l’interesse pubblico primario, l’amministrazione, nel fare uso di discrezionalità tecnica si limita a verificare la sussistenza di fatti applicando regole dal risultato opinabile.

Nell’esercizio della discrezionalità tecnica l’amministrazione non opera una comparazione degli interessi in gioco (come avviene invece con la discrezionalità amministrativa) ma verifica solo situazioni reali e compie un giudizio alla stregua di canoni scientifici e tecnici, senza scegliere la soluzione amministrativamente più opportuna[57].

Più precisamente il Giannini rileva che la peculiarità che connota la discrezionalità tecnica rispetto a quella amministrativa è data dalla presenza di una fase di giudizio (e quindi di una istruttoria) alla quale tuttavia non si affianca il momento c.d. della volontà, cioè della scelta della soluzione più opportuna attraverso una valutazione degli interessi prioritari, momento tipico, viceversa, della discrezionalità amministrativa propriamente detta.

Lo stesso autore, nell’identificare la discrezionalità amministrativa nel momento volitivo e di scelta finale, all’esito della ponderazione degli interessi secondari in relazione all’interesse pubblico primario, disconosce la autonomia concettuale della discrezionalità tecnica e pertanto nega che quest’ultima sia una vera e propria discrezionalità. Sostiene che nella discrezionalità tecnica il giudizio è governato da criteri tecnico-scientifici e che il giudice è guidato dai criteri medesimi che l’amministrazione utilizza facendo riferimento alle predette discipline più o meno opinabili e per loro natura non esatte.

Secondo altri autori (Sandulli, Caringella) la discrezionalità amministrativa ricorrerebbe allorquando il giudizio dell’amministrazione debba essere compiuto secondo opportunità, mentre la discrezionalità tecnica sarebbe il ”tipo di valutazione che viene posta in essere dall’amministrazione allorquando l’esame dei fatti e situazioni rilevanti per l’azione amministrativa necessiti del ricorso a cognizione tecniche e scientifiche di carattere specialistico”.

Quando la discrezionalità è tecnica l’amministrazione deve, in sostanza, valutare il ” fatto “, deve verificare se sussistono i presupposti ed i requisiti richiesti per l’applicazione della norma, effettuando tale giudizio alla stregua delle ricordate regole tecniche e scientifiche: è espressione di discrezionalità tecnica ad esempio il giudizio sulla pericolosità epidemica di una malattia, sui pregi artistici di un dipinto, sulla preparazione di un candidato ad un pubblico concorso ecc…

Della discrezionalità tecnica va distinto l’accertamento tecnico, che si ha quando la verifica demandata all’amministrazione è da condurre applicando non già regole dal risultato opinabile, bensì regole che, tratte da scienze esatte, consentano di approdare ad  risultato certo e verificabile (ad es. verifica della gradazione alcolica di una bevanda liquorosa): laddove, quindi, l’applicazione delle scienze esatte consenta di approdare ad un risultato certo e verificabile si versa in ipotesi di accertamento tecnico; laddove l’applicazione di scienze sociali e non esatte comporti un risultato caratterizzato da opinabilità si è in presenza in un’ ipotesi di discrezionalità tecnica[58].

Ciò chiarito occorre dedicare un cenno anche alla c.d. discrezionalità mista che si ha quando all’amministrazione sono riconosciute entrambe le predette tipologie di discrezionalità.

Si ritiene che tale discrezionalità non è affatto una sorta di tertium genus della discrezionalità amministrativa e discrezionalità tecnica.

L’espressione ”mista” indica solo i casi in cui l’amministrazione è chiamata ad effettuare sia una valutazione tecnica sia una valutazione di interessi, fermo restando che le due discrezionalità restano ben distinte.

Nelle tipologie di discrezionalità mista (tra cui quella relativa al giudizio delle commissioni esaminatrici di un concorso pubblico) costituenti una tipica valutazione tecnico-discrezionale sono presenti in modo frammisto: 1) valutazioni di puro merito amministrativo, caratterizzate da una elevata soggettività, cioè da una valutazione di opportunità e/o merito, insindacabile da parte del giudice amministrativo; 2) valutazioni di discrezionalità tecnica, caratterizzate da un apprezzamento sulla base di conoscenze tecnico- scientifiche di non univoca valutazione e/o misurazione, sindacabili da parte del giudice amministrativo soltanto ove sussistano errori di fatto, aspetti di irrazionalità, contraddizioni illlogiche, inadeguata istruttoria e motivazione incongrua[59].

Ma per tornare alla distinzione fondamentale tra discrezionalità amministrativa e discrezionalità tecnica si può ulteriormente rilevare come tale differenziazione torna in concreto particolarmente utile nell’esaminare il centrale tema della sindacabilità giurisdizionale degli atti adottati dall’amministrazione facendo esercizio dell’una o dell’altra discrezionalità: la distinzione stessa è stata utilizzata per giustificare una diversa intensità dei poteri di sindacato del giudice amministrativo.

 

  1. IV) La sindacabilità giurisdizionale della discrezionalità amministrativa e tecnica.

 La questione da affrontare per ultimo con un certo approfondimento concerne proprio l’ambito di verificabilità dell’azione della P.A. da parte del giudice e lo spazio entro cui si può o meno sovrapporre il giudizio dello stesso alle valutazioni amministrative e tecniche dell’ A. stessa.

Tale problema verrà affrontato distintamente con riferimento all’attività discrezionale amministrativa ed a quella di carattere tecnico anche e soprattutto in relazione alla sua evoluzione dottrinaria e giurisprudenziale.

È stato il Cammeo, tra gli autori del primo novecento, ad analizzare le azioni poste in essere dall’A. distinguendo l’attività vincolata, regolata da norme giuridiche precise e quindi sempre soggetta al sindacato di legittimità, da quella discrezionale per la quale attività l’A. stessa, nel rispetto dell’interesse pubblico, era giuridicamente libera di determinarsi e quindi soggetta di regola al controllo giurisdizionale di legittimità.

Successivamente diede un notevole contributo allo studio della discrezionalità, tra gli altri, il Ranelletti, il quale, nel negare con la sua “teoria assimilativa” la dicotomia tra discrezionalità amministrativa e discrezionalità tecnica (“La discrezionalità è sempre amministrativa”), ha sostenuto, in una concezione dell’ordinamento amministrativo ”marcatamente autoritaria” che la discrezionalità, in tutte le sue forme, è sottratta al sindacato giurisdizionale.

Tale tesi è rappresentativa del tradizionale principio secondo il quale al giudice è precluso ogni apprezzamento che investa le valutazioni di convenienza ed opportunità compiute dall’autorità deliberante, essendo vietata ogni ingerenza nell’attività di ponderazione comparata degli interessi.

Parallelamente allo sviluppo di tali ed altri analisi dottrinali si è assistito ad un’evoluzione della giurisprudenza amministrativa soprattutto sulle problematiche del controllo giurisdizionale sulla discrezionalità tecnica.

In sintesi può dirsi che nella prima giurisprudenza della 4ª sezione del Consiglio di Stato, a cavallo tra il diciannovesimo ed il ventesimo secolo, si sono formati due indirizzi contrapposti: una favorevole a1 controllo della discrezionalità tecnico – amministrativa; l’altro propenso a non ammettere il sindacato delle valutazioni discrezionali dell’A.

Questa oscillante tendenza proseguirà per alcuni lustri successivi al secondo dopoguerra, periodo nel quale la giurisprudenza del Consiglio di Stato negherà in alcune decisioni la sindacabilità del giudizio dell’A., sul rilievo che esso rientrasse nell’apprezzamento tecnico-discrezionale di quest’ultima, mentre in altre l’ammetterà sotto il profilo della logicità e razionalità rilevabili dalla comune esperienza amministrativa.

Col primo indirizzo, di sostanziale sottrazione al controllo giurisdizionale, si finiva per consentire alle amministrazioni pubbliche un’illimitata discrezionalità ed una libertà di determinazione in un regime di franchigia o di privilegio quasi assoluto.

Negli anni 60 e 70 si andrà sempre più accentuando quella giurisprudenza tendente ad ammettere, in vari settori cruciali, il sindacato estrinseco sulle valutazioni tecnico discrezionale dell’ A. in presenza di quello che è il classico vizio della discrezionalità e cioè dell’eccesso di potere che si ritiene sussistere quando ricorrano le relative figure sintomatiche di scorretto esercizio del potere, quali il difetto di motivazione, l’illogicità manifesta e l’errore di fatto.

Alla base di questa linea vi è stata la spinta evolutiva che innesta le sue radici, soprattutto, nel diritto comune europeo, enucleabile nella Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali e nella giurisprudenza della Corte di Strasburgo e della Corte di giustizia che nel corso degli anni ha definito uno standard minimo di tutela nei confronti della discrezionalità a garanzia dei diritti.

Questa nuova prospettiva di tutela ha avuto la precipua finalità di correggere le deviazioni più macroscopiche della discrezionalità, che finivano per stringere in una tenaglia anche i diritti fondamentali contro il comune sentire della cultura giuridica europea, tesa a privilegiare l’ottica ”del servizio” rispetto a quella ”del potere”.

Successivamente si è andato sempre più consolidando l’orientamento giurisprudenziale secondo cui l’insindacabilità delle scelte amministrative non esclude la verifica giudiziale sul corretto esercizio del potere discrezionale stesso; verifica che si avvale di parametri esterni, quali ad esempio la competenza nella materia, ed interni come la congruità e la proporzionalità delle scelte, la rispondenza delle stesse a principi di razionalità, trasparenza ed economicità dell’azione amministrativa allo scopo di assicurare il buon andamento, principi fissati per dettato costituzionale come  criteri cui l’azione amministrativa deve conformarsi.

Sotto questo profilo va rilevato che anche l’attività discrezionale amministrativa della P.A. è sempre soggetta al rigoroso rispetto di due distinti limiti: uno interno all’azione amministrativa e concernente l’interesse pubblico, la causa del potere invocato e i precetti di logica ed imparzialità; l’altro esterno correlato al rispetto del canone di buon andamento fissato dall’articolo 97 della Costituzione, il quale costituisce un presidio immanente a tutela e garanzia del principio della legalità sostanziale, principio che, come detto, risulta ulteriormente specificato, dopo l’entrata in vigore della legge 241, dai criteri di efficacia ed economicità dell’azione amministrativa.

A fronte di tutto ciò il giudice ha la possibilità di verificare la conformità dell’azione ai canoni generali citati; non si tratta di sindacare il merito di una scelta compiuta, bensì di fare chiarezza sulla sussistenza o meno delle condizioni cui è subordinato l’esercizio legittimo del potere di scelta in quella materia; occorre cioè accertare se i soggetti agenti abbiano tenuto conto, o meno, delle prescrizioni di legge e se siano stati rispettati il principio di ragionevolezza e quelli della economicità e del buon andamento dell’azione amministrativa costituzionalmente garantiti (artt. 95, 97 Cost.), non ponendosi un problema di insindacabilità delle scelte discrezionali quando si sia agito in contrasto con prescrizioni dell’ordinamento e l’opzione scelta disattenda in modo palese canoni di razionalità e di adeguatezza funzionale[60].

Le scelte discrezionali risultano subordinate quindi non soltanto alla necessaria verifica del collegamento teologico con le finalità istituzionali dell’ente pubblico, ma anche al riscontro circa la ragionevolezza dei mezzi impiegati rispetto agli obiettivi perseguiti[61].

Si è in definitiva sempre più andato affermando il principio giurisprudenziale secondo cui il giudice amministrativo ha la possibilità di sindacare le scelte discrezionali ove queste presentino palesi errori di fatto, aspetti di manifesta irrazionalità ovvero evidenti contraddizioni logiche, oltre che nell’ipotesi del contrasto con le norme di legge[62].

Alla stregua di ciò il limite della insindacabilità non sussiste e dunque non può essere invocato dal presunto responsabile del danno allorché le scelte discrezionali, da cui sia derivato il nocumento patrimoniale, siano contrarie alla legge o si rivelino gravemente illogiche, arbitrarie irrazionali o contraddittorie.

Un decisivo colpo d’ala, e cioè una vera e propria svolta ad un più penetrante rafforzato controllo della discrezionalità tecnica si è avuta a seguito del d.lgs. n. 80 del 1998 (art. 35, commi 1 e 3), della legge n. 205 del 2000 (art. 7, co. 3,lett. c, art. 16), e più di recente, del codice della giustizia amministrativa (d.lgs. n. 104 del 2010: art. 30 co. 2; art. 34 co. 1 lett. c; artt. 63 e 64), che ha spostato il baricentro del giudizio dall’atto amministrativo al rapporto sottostante ed al bene della vita inciso.

Ora è ben vero che tale ultima normativa non disconosce il generale divieto di invadere gli spazi riservati al potere amministrativo e quindi l’interdizione ad una azione giudiziale sostitutiva dell’amministrazione.

Ma la nuova concezione del giudizio quale strumento di protezione delle posizioni soggettive sostanziali – in applicazione del principio di effettività della tutela che trova oggi copertura costituzionale nel principio del giusto processo di cui all’art.111 Cost. – e l’attribuzione al giudice amministrativo del potere di disporre l’assunzione dei mezzi di prova, la consulenza tecnica d’ufficio, la verificazione (artt.63, 66 e 67 cod. proc. amm.) e di pronunciare sentenze di condanna anche in forma specifica (art. 30 stesso codice), ha finito, secondo l’orientamento oggi dominante, per erodere la sfera di insindacabile discrezionalità tecnica dell’amministrazione, con consequenziali e sempre più frequenti incursioni del giudice nelle valutazioni tecniche della P.A. non sempre scevre da opacità.

Se ne deduce che il sindacato giurisdizionale sui giudizi ed apprezzamenti tecnici non può essere ristretto al tradizionale mero controllo estrinseco dell’iter logico seguito per l’adozione del provvedimento e cioè al riscontro di quei sintomi di illegittimità, appunto, estrinseci allo stesso, come la disparità immotivata di trattamento fra casi identici o l’immotivato di scostarsi dalla precedente prassi o dal precedente operato dell’amministrazione.

Il sindacato medesimo può, infatti, esternarsi in un controllo intrinseco sulla discrezionalità tecnica.

Questo, attraverso la cognizione diretta ed esatta valutazione del fatto oggetto del giudizio valutativo, è diretto a verificare in concreto l’eventuale ricorrenza di elementi di illegittimità intrinseci al provvedimento, come la motivazione insufficiente, incongrua, contraddittoria o dubbiosa, il falso presupposto di fatto o la illogicità di un criterio, anch’essi elementi sintomatici di uno scorretto esercizio del potere.

Il Consiglio di Stato con l’importante sentenza della 4ª sezione, n. 601 del 1999 ha ritenuto, per la prima volta, la discrezionalità tecnica sindacabile in sede giurisdizionale in base non al mero controllo formale ed estrinseco dell’iter logico seguito dall’autorità amministrativa, ma con la verifica diretta dell’attendibilità delle operazioni specialistiche sotto il profilo della loro correttezza quanto a criterio tecnico ed a procedimento applicativo.

Tale indirizzo è stato poi ribadito sul rilievo che il giudice può utilizzare per il controllo delle operazioni tecniche sia il tradizionale strumento della verificazione che la consulenza tecnica d’ufficio[63][64].

Successivamente si è con più precisione statuito che “ l’esercizio della discrezionalità tecnica da parte della Pubblica amministrazione è sindacabile in sede giurisdizionale in quanto, pur incontrando i limiti oggettivi dell’opinabilità e relatività di ogni valutazione scientifica, nonché dell’impossibilità di sostituirsi all’Amministrazione, il giudice amministrativo non è per questo tenuto a limitare il proprio apprezzamento a un esame estrinseco della valutazione discrezionale, secondo i parametri di logicità, congruità e completezza dell’istruttoria, dovendo invece l’oggetto del giudizio estendersi all’esatta valutazione del fatto, secondo i canoni della disciplina nella fattispecie applicabile; in tale ottica, e in attuazione del principio di effettività della tutela delle situazioni soggettive protette, rilevante anche a livello comunitario e quale principio imposto anche dall’art. 6 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, se è vero che il giudice non può sostituire all’apprezzamento opinabile dell’Amministrazione il proprio e altrettanto opinabile apprezzamento, è anche vero che non può esimersi dal valutare, anche avvalendosi se del caso di idonea consulenza tecnica, l’eventuale erroneità del giudizio della P.A., ove tale erroneità sia in concreto valutabile (per tutte Cons. St., sez. IV, 23 aprile 2013  n. 2253).

Ritenuta, da parte della dominante giurisprudenza, la c.d. sindacabilità ab intrinseco, si è posto il problema della sua ”intensità” e la dottrina ha oscillato tra la tesi del controllo debole e quella del sindacato forte[65].

Anche di tale tema si è ampiamente occupata la giurisprudenza, la quale, nel condividere e fare propria la predetta distinzione dottrinaria, ha elaborato la seguente prospettazione.

Il sindacato forte si traduce in un potere sostitutivo che consente al giudice di sovrapporre il proprio giudizio a quello dell’amministrazione sul solo presupposto della opinabilità della valutazione tecnica della stessa.

In altri termini il sindacato forte consentirebbe al giudice di ripetere, eventualmente con l’ausilio di un consulente, la valutazione tecnica operata dall’amministrazione, pronunciando una sentenza avente carattere sostitutivo del provvedimento impugnato[66].

Il sindacato debole invece non consente al giudice di surrogarsi ad un potere già esercitato fino ad esprimere proprie autonome scelte ma solo di censurare valutazioni che appaiono inattendibili sul piano della ragionevolezza della scelta, della completezza dell’istruttoria e della congruenza della motivazione: è escluso, quindi, che il giudice possa sovrapporre la sua idea tecnica al giudizio non contaminato da profili di erroneità e di illogicità formulato dall’organo amministrativo.

Va, tuttavia precisato che la giurisprudenza più recente – anche e soprattutto sulla base della recente legislazione e dei profondi cambiamenti nell’assetto dei rapporti e relazione tra cittadini e potere pubblico – ha avuto modo di ritenere ormai tramontata l’equazione “discrezionalità tecnica-merito”.

Si afferma, infatti, da circa tre lustri: che il sindacato giurisdizionale sugli apprezzamenti della pubblica amministrazione può svolgersi, come detto, in base ad una verifica diretta dell’attendibilità delle operazioni tecniche; che la qualificazione degli atti in termini di esercizio di discrezionalità tecnica o di valutazione tecnica non può costituire un ostacolo alla tutela giurisdizionale[67]; che, in definitiva, il giudice, anche con l’ausilio della consulenza tecnica, può e deve valutare se il giudizio tecnico dell’organo amministrativo sia erroneo e, in particolare, se esso sia attendibile e corretto.

A nessuno sfugge la delicatezza delle su riferite questioni che hanno dato luogo ad accesi dibattiti dottrinari e contrasti giurisprudenziali.

La materia con riferimento alla quale maggiormente sono venuti a porsi problemi relativi alla possibilità di un sindacato della discrezionalità tecnica è quella degli esami e concorsi pubblici.

Si è sostenuto, soprattutto in passato, l’insindacabilità dei giudizi espressi dalle commissioni giudicatrici sulle prove di un concorso pubblico.

A tale impostazione tradizionale la giurisprudenza successiva, prendendo le mosse dai profili differenziali che la discrezionalità tecnica presenta da quella amministrativa e recependo sollecitazioni dottrinali, ha affermato che la valutazione relativa ad una prova concorsuale non si concreta in un sindacato di merito ma in un mero accertamento di fatto comprensivo anche delle valutazioni di natura tecnica.

In definitiva questa linea giurisprudenziale ha aperto la strada ad un sostanziale sindacato sulla discrezionalità tecnica della P.A.: si è, infatti, ritenuto anche di recente, che il giudice amministrativo possa considerare viziata da eccesso di potere la valutazione che si ponga al di fuori dell’ambito di attendibilità, quando non appaiono rispettati i parametri tecnico – scientifici di univoca lettura (Cons. St. sezione IV, 30 giugno 2011 n. 3896).

Un accenno, infine, alla problematica della sindacabilità giurisdizionale della discrezionalità tecnica dell’ A. che si interseca col giudizio prognostico del giudice amministrativo chiamato a definire una domanda risarcitoria proposta contro la P.A..

Ci si è chiesti se il giudice amministrativo, nel valutare la fondatezza della pretesa risarcitoria e nel formulare il giudizio prognostico sulla spettanza del bene, possa non solo sindacare la legittimità dell’esercizio della discrezionalità tecnica espletato dall’amministrazione nel caso di specie , ma anche verificare se il corretto uso della stessa avrebbe dovuto condurre  all’attribuzione del bene della vita .

Tale delicata tematica ha visto, anche nel recente passato, la contrapposizione tra due tesi: a) quella secondo cui la discrezionalità tecnica può essere oggetto di un sindacato solo estrinseco con la preclusione della formulabilità del giudizio prognostico sulla spettanza del bene qualora lo stesso impatti sull’esercizio della discrezionalità tecnica dell’A., reputata afferente il merito amministrativo, come tale non penetrabile.; b) quella che, rimarcando la diversità rispetto alla discrezionalità amministrativa, sostiene l’ammissibilità di un sindacato pieno, di tipo intrinseco “forte”, consistente, come detto, nella verifica diretta della correttezza del criterio tecnico utilizzato e del procedimento applicativo seguito.

Quest’ultima impostazione più evolutiva ed alla quale aderisce ormai la recente giurisprudenza, implica la possibilità per il giudice del risarcimento di valutare la fondatezza della pretesa del danneggiato anche qualora vengano in rilievo valutazioni tecniche della P.A.[68].

 

Roma, dicembre 2015

 

 

 

[1] Casetta, voce Attività amministrativa in Digesto IV ed. disc. pubbl., II, Torino, 1987, 522; Mattarella,  “Diritto Amministrativo Generale, in Trattato di dir. ammin.”, a cura di Cassese, tomo II ed. Milano,2003, 734 ss. .

[2] Tra gli altri Franco, nello scritto “Il procedimento amministrativo”, Bologna, 1995, prefazione, ha definito tale legge “nobile” e “illuministica” in quanto, attuando il ruolo costituzionale della pubblica amministrazione come struttura di servizio, presiederà concretamente all’ordinamento amministrativo assumendo valore portata effettivi di fattore costitutivo del sistema; Cassese, “Le basi del diritto amministrativo”, Torino, 1995, p.326, per il quale la L. 241 ha costituito e costituisce ”un’ autentica rivoluzione amministrativa”.

[3] Cassese, “Passato, presente e futuro della legge sul procedimento”, Nuova Rassegna di legisl., dottr. e giur., 1994, n. 20, p. 2397; V. Cerulli Irelli, “Corso di diritto amministrativo”, Torino, 1991 parte III, pag. 39; Franco, “Il nuovo procedimento amministrativo”, Bologna 1995, p.183.

[4] Maurizio Santise, in “Coordinate ermeneutiche di dritto amministrativo”,Giappichelli Editore, Torino 2014.

[5] V. Cerulli-Irelli, “Note critiche in tema di attività amministrativa secondo moduli negoziali”, in Dir. amm., 2003,217-276 ivi, 223-224; G. Greco, “Accordi amministrativi tra provvedimento e contratto in Sistema del diritto amministrativo italiano”, dir. da Scoca-Roversi, Monaco-Morbidelli, Torino 2003, 80; F.G Scoca, “Autorità e consenso in diritto amministrativo”,cit., ivi, 1049 e ss.; G. Lo Surdo, “Gli accordi ex art. 11 della legge 7 agosto 1990, n. 241 nella prospettiva civilistica”, in Riv. Not., 1994, 1249-1285, ivi 1261.

[6] Cass., Sez. Un.., 7 dicembre 2004, n. 22.888; 13 novembre 2000,.1174 .

[7] Tra gli altri, A. Federico, “Autonomia negoziale e discrezionalità amministrativa – Gli accordi tra privati e pubbliche amministrazioni”, ad avviso del quale gli accordi in questione sono strumenti attraverso i quali la pubblica amministrazione esercita i suoi poteri discrezionali attraverso lo strumento contrattuale. A favore della costruzione codicistica anche F. Ledda, “Note sugli accordi”di diritto pubblico”e su alcuni temi contigui”.,il quale definisce l’attività amministrativa di diritto privato come attività diretta all’esecuzione – mediante il paradigma negoziale – del risultato dell’esercizio del potere discrezionale, già effettuato nell’ambito di un precedente procedimento amministrativo.

[8] Prima della L. n. 241/ 90 l’ordinamento amministrativo ignorava, almeno come categoria generale, gli accordi; il principio contrattualistico non aveva mai varcato nel nostro ordinamento”la soglia della episodicità”, così Caputi Jambrenghi, “La funzione giustiziale nell’ordinamento amministrativo”, Milano, 1991, p. 242; F.G.  Scoca, “Autorità e consenso”, in Dir. Amm., 2002, 431- 459, ivi, 434 .

[9]Corso-Teresi in “Procedimento amministrativo fra riforma legislativa e trasformazioni dell’amministrazione“ a cura di Trimarchi, Milano, 1990 p. 72; Merusi per il quale “l’accordo sostitutivo trova spazio in tutti i casi nei quali singole leggi prevedono l’ammissibilità di qualche forma di contrattazione con i destinatari dell’atto”, tra cui le ipotesi di concessione contratto. Secondo CC.SS.UU. civ., 17 novembre 1994, n. 9474, in Giust. Civ., 1995 n. 1275, sono accorti sostitutivi le convenzioni sanitarie stipulate tra UU.SS.LL. e le case di cura.

Per altre ipotesi di accordi riconducibili agli schemi di cui al citato articolo 11 v. la rassegna curata da Mengoli, “Gli accordi amministrativi fra privati e pubbliche amministrazioni”, Milano 2003, p. 267ss.;Zanetti, “L’applicazione giurisprudenziale dell’articolo 11 della legge sul procedimento”,Riv.Trim. Appalti, 2000, p. 527.

[10] Sulla presenza necessaria dell’interesse pubblico nell’accordo, D’Amico, “Considerazioni in ordine all’art. 1 l.7 agosto 1990, n. 241”, in Foro amm., 1992, p. 2467; Corte Cost., sent. 15 ottobre 1990, n. 453 secondo cui l’azione dell’amministrazione è vincolata al fine del perseguimento delle finalità obiettivate dall’ordinamento, ingiuri. Cost., 1990, p. 2710; Giacchetti, “Processo amministrativo interesse generale”, in Cons. Stato, 2002, II, 1625 ss. .

[11] Bruno Cavallo, “Provvedimenti atti amministrativi in trattato di diritto amministrativo”,  vol. III, p.9 e 10.

[12] D. De Pretis, “L’attività contrattuale della Pubblica Amministrazione e l’articolo 1 bis della legge n. 241 del 1990”; l’attività non autoritativa secondo le regole del diritto privato e il principio di specialità, in F. Mastragostino (a cura di), tipicità e atipicità nei contratti pubblici, Bologna 2007, 29 – 46: l’autrice osserva che la formulazione del “nuovo” art. 1 risponda all’intenzione del legislatore di dare evidenza all’uso del diritto privato da parte della pubblica amministrazione, differenziandone il trattamento giuridico rispetto all’uso che dello stesso diritto fanno i soggetti privati.

[13] Sul concetto di capacità negoziale, P. Stanzione, “Voce Capacità I) diritto privato”, in Enc. Giur. Teccani, V, Roma 1990, 1-24, ivi, 11, che ne sottolinea la coincidenza con la nozione di capacità di agire.

[14] Per la rimozione della strutturale disparità del rapporto tra cittadini e P.A. v. Giacchetti, “Gli accordi dell’art. 11 della L. n. 11 della l. n. 241 del 1990 tra realtà virtuale realtà reale”, in Dir.proc. amm., 1997, n. 3, p. 513 ss. Per la svolta dal primato dell’autorità al primato del consenso v.: Bassi, “Autorità e consenso”, in Riv. tim. dir. pubbl., 1992, p. 749; Caianello, “La parità tra le parti nel procedimento amministrativo”, in Foro amm., 1996, p. 2786.

[15] G.P. Cirillo ,“I contratti e gli accordi delle amministrazioni pubbliche”, in www.giustizia amministrativa.it.

[16] M.S. Giannini, “ Diritto amministrativo”,vol. II, Giuffrè, Milano, 1993, p. 431.

 

[17] L. Mannori e B. Sordi, “Storia del diritto amministrativo”, Roma-Bari 2001; condivide il rilievo sull’egemonia sistematica del diritto privato G. Napolitano, “Pubblico e privato nel diritto amministrativo”, Milano 2003, 36; sull’esaltazione della tecnica del consenso, che, da mezzo, diventa fine stesso dell’agire amministrativo, A. Saturno, “Il diritto privato della Pubblica Amministrazione”, Padova 2006, 679-700.

 

[18] In tal senso Maurizio Santise, op.cit.

[19] A.M. Sandulli, “Manuale di diritto amministrativo”, Jovene, Napoli, 1989, p. 591 ss..

[20] Sul punto v. Mortati, Nss. Di. It., 1099; Giannini puntualizza che la discrezionalità caratterizzerebbe l’attività amministrativa autoritativa e non quella di diritto civile.

[21] V. Mazzarelli, “Le convenzioni urbanistiche”, Bologna 1979,33.

[22] Per la ricognizione ed analisi dei più rilevanti di tali principi, v. Saverio Corasaniti, “Discrezionalità amministrativa tra controllo giurisdizionale, partecipazione, trasparenza, imparzialità e responsabilità”, in Riv. Trim. di diritto pubblico dell’ambiente; Atti del convegno di Trieste del 2-3 dicembre 2011.

[23] sul ruolo precettivo dei principi concorda anche la giurisprudenza amministrativa: Ad. Pl. Cons. St. n. 3 del 1961, in Cons. St. 1961, secondo la quale ”non vi è settore alcuno di pubblica amministrazione che sia sottratta all’impero del diritto” perché il diritto amministrativo risulta. Non soltanto da norme giuridiche ma anche da principi che dottrina e giurisprudenza hanno elaborato e ridotto a unità e dignità di sistema”.

[24] G. Zagrebelsky, ”Il diritto mite. Legge, diritti, giustizia”, Einaudi, Torino, 1992. In argomento anche Romano A. Tassone, “Sulla formula amministrazione per risultati”, in Scritti in onore di Elio Casetta, Napoli, 2001.

[25] Magri, “La legalità costituzionale dell’amministrazione”, Milano 2002, p. 382.

[26]Per una analisi dell’incidenza dell’ordinamento comunitario sul sistema italiano delle fonti P. Perlingieri, “Diritto comunitario e legalità costituzionale: Per un sistema italo-comunitario delle fonti”, Edizioni scientifiche, Napoli, 1992. F. Modugno, “Appunti dalle lezioni sulle fonti del diritto”, Torino, 2005.

 

[27]Gabriele Pepe, “I principi generali dell’ordinamento comunitario e attività amministrativa”, Eurilink, 2012, p. 332-333.

[28] Sulla pluralità di accezioni del principio di legalità v. Casetta, “Manuale di diritto amministrativo”, Milano, 2007,42.

[29] Sulla condizione di “principio inespresso” del principio di legalità vedasi Guastini,  “I principi generali”,   p. 77; Crisci, “Il principio di legalità nella pubblica amministrazione e la legge n. 241 del 1990 sul procedimento amministrativo”, in Aa.Vv, Scritti in onore di Bozzi, Padova, 1992, p. 143 che ne sottolinea la onnipervasività riguardo all’assetto della pubblica amministrazione, a partire dalle sue strutture organizzative.

[30] A.M. Sandulli, “Manuale di diritto amministrativo”, Jovene, Napoli, 1989, p. 584.

[31] Gabriele Pepe, op. cit., pag. 172, e, quindi, consentendo una tutela del cittadino più rafforzata anche in ragione di un maggior controllo, sotto tale aspetto, sulla funzione pubblica (per un inquadramento dello scrutinio di proporzionalità), D.U. Galletta, “Principio di proporzionalità e sindacato giurisdizionale nel diritto amministrativo”, Milano, 1998.

[32] In tal senso Mortati, “Voce discrezionalità”, in Noviss. Dig. It., V, 1960, p. 1099.

[33] Roberto Garofoli – Giulia Ferrari, “Manuale di diritto amministrativo”, nel diritto editore, Roma, 2008, p. 388.

[34] Così Allegretti, “Imparzialità e buon andamento della pubblica amministrazione” in Dig. Disc. Pubbl.,VIII, Torino 1993, p. 131.

[35] Per l’affermazione che essi”non possono mai soccombere nei confronti di altri” Cassese, “Imparzialità amministrativa e sindacato giurisdizionale”, in Riv.trim. sc.giur. 1968, p. 75.

[36] In tal senso v. Corte Cost. 6 marzo 2007, nn. 103 e 104.

[37] Per un panorama giurisprudenziale risalente sul principio di buon andamento v. De Seta, “Principi giurisprudenziali in tema di buon andamento”,  in Amm.cont.,1985,27 ss.; Saitta, “Il principio di buon andamento nella giurisprudenza costituzionale”,  in Dir. soc., 1988, 53 ss.

[38] Immordino, “Revoca degli atti amministrativi e tutela dell’affidamento”, Torino 1999, p. 132.

[39] Immondino, p. cit., p. 127 ss. .

[40] Barusso, “Dirigenti e responsabili di servizio”, Milano, 1999, p. 369 ss. .

[41] In tal senso Nigro, Studi, cit., secondo il quale il principio di elasticità può trovare applicazione in 2 direzioni: con riferimento al contenuto, dando vita alla discrezionalità, e con riferimento al suo modo di farsi, dando vita al potere di auto organizzazione.

[42] Pubusa, “Considerazioni sull’imparzialità amministrativa nella legge 7 agosto 1990, n. 241”, Scritti in onore di Virga, Milano 1994 II, p. 1461 ss.; Cassese, “Imparzialità amministrativa e sindacato giurisdizionale”, op .cit. .

 

[43]Alberti, Commento all’art. 26, in Aa.Vv., “Procedimento amministrativo e diritto di accesso ai documenti….” .

[44] Corso, “Il responsabile del procedimento amministrativo”, in Aa.Vv., “Il procedimento amministrativo fra riforma legislativa e trasformazioni dell’Amministrazione” a cura di Trimarchi, Milano, 1990,p. 72.

[45] F. Patroni Griffi,” La trasparenza della pubblica amministrazione tra accessibilità totale e riservatezza”, in www.federalismi.it. 2013, p. 3.

[46] In verità l’art.3, prima parte,allegato E della legge 20 marzo 1865, già conteneva una disciplina della procedura amministrativa, ma la norma non ha mai avuto un’effettiva applicazione.

[47] Il ruolo decisivo del procedimento a fronte della pluralità degli interessi è rimarcato da Cassese, “Le basi del diritto amministrativo”, Torino, 1989,p. 328.

[48]Zucchetti, “Procedimento amministrativo e diritto di accesso ai documenti”, Milano, 1991, p.162 ss., il quale sottolinea come mediante la partecipazione l’accesso ai documenti tutti gli interessati si trovano nella possibilità di verificare la consistenza dei propri interessi e di far valere le proprie ragioni.

 

[49][49]Cassese, “Passato, presente e futuro della legge sul procedimento amministrativo”, in Nuova Rass. di legisl. dottr. giur., 1994, n. 20. p. 2401, osserva che la legge sul procedimento non è altro che una parte della Costituzione; Barone, “L’intervento del privato nel procedimento amministrativo”.

[50]Per una disamina delle varie tesi proposte , vedi G. Passarelli, “Lezioni di diritto amministrativo”, Altalex 2013, cap. 2,§ 7,29. 1 e ss.

[51] Mortati, Nss. Di. It., 110

[52]Virga, “Il provvedimento amministrativo”, Milano, 1979.

[53] Casetta, “Manuale di diritto amministrativo”, Milano, 2007.

[54] M.S. Giannini, “Diritto amministrativo”, I e II, 1988,p. 492 s.s. ; A.M. Sandulli, “Manuale di diritto amministrativo”, Jovene, Napoli, 1989, p. 584.

[55] Piras, “Discrezionalità amministrativa”, in Enciclopedia giuridica XIII, 1964.

[56]Roberto Garofoli – Giulia Ferrari in “Manuale di diritto amministrativo”, op. cit.

[57] Roberto Farofoli – Giulia Ferrari, op. cit.

[58]Roberto Farofoli – Giulia Ferrari, op. cit.

[59] T.A.R. Basilicata,sez. I, 29 aprile 2013, n. 195.

[60] Corte dei Conti sez. III, Centr. N. 2/A del 7.1. 2013.

[61] Cass. 29 settembre 2003, n. 14.488.

[62] Ex multis Consiglio di Stato, Sezione IV, 30 luglio 2003 n. 4409; Sezione V 26 gennaio 2000 n. 345.

[63] Cons. St., sez. VI. 9 novembre 2006 n. 6607.

[64] Tali due strumenti si differenziano tra loro in quanto la verificazione mira all’effettuazione di un mero accertamento tecnico di natura non valutativa, mentre la c.t.u. è finalizzata all’acquisizione di un giudizio tecnico (tra le tante Cons. St., sez. IV, 18 gennaio 2010, n. 13); in altri termini, la verificazione è un mero accertamento disposto al fine di completare la conoscenza dei fatti che non siano desumibili dalle risultanze documentali, mentre la c.t.u. si estrinseca in una valutazione tecnica di determinate situazioni da utilizzare ai fini della decisione, con una valenza non meramente ricognitiva e circoscritta ad un fatto specifico ( Cons. St., sez.IV, 8 marzo 2012, n.1343). Sono, in definitiva, strumenti di cui il giudice dispone per accertare la validità, veridicità e attendibilità delle prove fornite dall’interessato e non svolgono quindi un ruolo sostitutivo di quest’ultime, ma presuppongono che le prove stesse siano già state fornite da chi è tenuto a tale adempimento: ex art.64,comma 1 c.p.a.”Spetta alle parti l’onere di fornire gli elementi di prova che siano nella loro disponibilità riguardanti i fatti posti a fondamento delle domande e delle eccezioni”.

[65]Cintioli, “Consulenza tecnica d’ufficio e sindacato giurisdizionale della discrezionalità tecnica”, in Caringella ,- Proto, “Il nuovo processo amministrativo”, Milano, 2001,924)

[66]In tal senso, Cons. St., sez. IV, 27 marzo 2001, n. 5287; sez. VI, 3 maggio 2002, n. 6004.

[67]Fra le altre Cons..St., sez.V, 5 marzo 2001; sez. VI, 3 maggio 2002, n. 2334.

[68] L’articolo 30 del c.p.a, detta e disciplina l’azione risarcitoria esperibile contro la P.A. per i danni da illegittimo esercizio dell’azione amministrativa e, nei casi di giurisdizione esclusiva, anche per i danni da lesione di diritti soggettivi; come affermato dalle SS.UU. della Corte di cassazione con la sentenza n. 6594 del 23 marzo 2011 “la giurisdizione amministrativa e dunque ordinata da prestare tutela -cautelare, cognitoria ed esecutiva -contro l’agire della P:A., manifestazione di poteri pubblici, quale si è concretato nei confronti della parte, che in conseguenza del modo in cui il potere è stato esercitato ha visto illegittimamente impedita la realizzazione del proprio interesse sostanziale o la sua fruizione”.

 

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