Articolo sull’utilizzazione di comunicazioni elettroniche o telefoniche in violazione delle norme CEDU.
di Antonio Vetro, Presidente On. della Corte dei conti.
Problematica sull’utilizzazione in sede processuale di conversazioni telefoniche o elettroniche, in violazione dei principi della CEDU e della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea: art. 4 bis del decreto antiterrorismo n.7/2015, convertito in legge n. 43/2015.
- Premessa: la questione sorta in sede di giudizio contabile.
Il presente articolo prende spunto dalla recente sentenza n. 216/2015 della Sezione per la Sardegna della Corte dei conti, pubblicata il 15 settembre 2015, nella quale è stata esaminata l’eccezione difensiva relativa all’utilizzazione, in sede di giudizio contabile, di prove assunte in sede penale sulla base di conversazioni telefoniche, acquisite in violazione dei principi fondamentali del rispetto della vita privata e della protezione dei dati personali.
La difesa sul punto ha richiamato la decisione 8 aprile 2014, C-293/12 e C-594/12 dalla Corte di giustizia europea, in tema di data retention, che ha annullato la direttiva europea n. 2006/24/CE sulla conservazione dei dati acquisiti nell’ambito dei servizi di telefonia, per violazione del criterio di proporzionalità intercorrente tra il tempo di conservazione dei dati personali e la gravità delle diverse categorie di reati per i quali si rendeva necessaria l’acquisizione di tali dati.
La Sezione ha rilevato che la sentenza della Corte di giustizia ha annullato la direttiva europea, ma non le conformi singole normative nazionali. La disciplina nazionale in materia, anteriore alla direttiva, è contenuta nel d.lgs. n. 196/2003 – c.d. codice della privacy – e, in particolare, nell’art. 132 il quale al comma 1 stabilisce che “i dati relativi al traffico telefonico sono conservati dal fornitore per ventiquattro mesi dalla data della comunicazione, per finalità di accertamento e repressione di reati…”, senza distinguere tra le varie ipotesi di reato, come successivamente prescritto dalla Corte di giustizia europea nella citata decisione dell’8 aprile 2014.
La Sezione ha ricordato che, secondo la giurisprudenza costituzionale, il giudice non può disapplicare la norma interna per contrasto con una norma della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU) o con la Carta UE di Nizza del 7 dicembre 2000, che ha ampliato i diritti fondamentali ivi previsti dal 1950; il giudice dovrebbe, invece, sollevare questione di costituzionalità per contrasto della norma interna con l’art. 117, comma 1^, della Costituzione, “nella parte in cui impone la conformità della legislazione interna ai vincoli derivanti dagli obblighi comunitari (per contrasto con la CEDU: Corte Costituzionale, sentenze n. 348 e 349 del 2009 – recte, del 2007 – ; n. 93 del 2010 e n. 80 del 2011; per quanto riguarda la “Carta di Nizza”, sentenza n. 210/2013)”.
Secondo la Sezione, tuttavia, non potrebbe proporsi la questione di costituzionalità – in ragione dell’espunzione di una direttiva alla quale era conforme la normativa interna (art. 132 cit.), per violazione dell’art. 117, comma 1 della Costituzione, derivante dal diretto contrasto con i principi della Carta dei diritti dell’UE – per i seguenti motivi: a) rispetto del principio della continuità delle funzioni statali (nella specie, attinenti all’assunzione delle prove necessarie per l’investigazione) che impone di attendere una nuova direttiva conforme alla Carta europea, producendosi altrimenti un inammissibile vuoto normativo; b) assenza di una regolamentazione europea che segni i parametri della funzione legislativa statale, così come prefigurato dall’art. 117, comma 1, della Costituzione (sentenza Corte di giustizia del 15 gennaio 2014, C-176/12).
La Sezione ha inoltre rammentato che il vigente sistema di attuazione delle direttive, previsto dal capo VI della legge n. 234/2012, prevede un articolato meccanismo (delega legislativa al Governo, delegificazione, attuazione delle direttive in via amministrativa) il quale implica che il recepimento dei principi della Carta Europea e della CEDU non possa avvenire senza l’interposizione di una nuova normativa europea (rispettosa dei parametri fissati dalla Corte di Giustizia in materia di conservazione dei dati personali per finalità investigative).
Comunque, per le prove assunte prima della pronuncia della Corte di giustizia europea dell’8 aprile 2014, vale il principio “tempus regit actum” ragione per la quale queste risultano certamente provviste di valore legale.
La Sezione ha concluso nel senso che, in ogni caso, tali prove potrebbero essere valorizzate nel giudizio in esame, tenuto conto che, “mentre in materia penale l’art. 191 c.p.p. sancisce l’inutilizzabilità delle prove acquisite in violazione dei divieti stabiliti dalla legge (con le uniche eccezioni di cui all’art. 189 c.p.p. per le prove c.d. atipiche ed all’art. 234 c.p.p. per le prove documentali), per contro, in materia processuale civile, tali prove sono comunque utilizzabili ed hanno piena efficacia, perché gli strumenti attraverso i quali sono assunte illegittimamente si collocano in un momento pre-processuale: sicché l’illegittimità non si ripercuote sugli atti contenenti le prove stesse. In altri termini, secondo la dottrina prevalente, l’assenza di un esplicito divieto in materia consente di utilizzare le prove in tal modo acquisite”.
2. La sentenza 8 aprile 2014, C-293/12 e C-594/12 dalla Corte di giustizia europea, in tema di data retention.
Di particolare rilievo sono le osservazioni contenute nei seguenti punti:
Nel punto 37 viene accertato che l’ingerenza che la direttiva 2006/24 comporta nei diritti fondamentali sanciti dagli articoli 7 e 8 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea risulta di vasta portata e particolarmente grave, potendo ingenerare nelle persone interessate la sensazione che la loro vita privata sia oggetto di costante sorveglianza.
Nel punto 51 si riconosce che l’efficacia nella lotta contro la criminalità grave, in particolare contro la criminalità organizzata e il terrorismo, può dipendere in larga misura dall’uso delle moderne tecniche di indagine, fermo restando che tale obiettivo di interesse generale non può di per sé far ritenere necessaria una misura di conservazione dei dati, come quella istituita dalla direttiva 2006/24.
Nel punto 54 si sottolinea che la normativa dell’Unione di cui trattasi deve prevedere regole chiare e precise che disciplinino la portata e l’applicazione della misura de qua e che permettano di proteggere efficacemente i dati personali contro il rischio di abusi.
Nei punti 56-57-58, quanto alla questione se l’ingerenza sia limitata allo stretto necessario, si rileva che la direttiva prevede la conservazione di tutti i dati di tutti gli abbonati ed utenti registrati, relativi al traffico riguardante la generalità dei mezzi di comunicazione elettronica: telefonia fissa, telefonia mobile, accesso e posta elettronica e telefonia via Internet e quindi implica un’ingerenza nei diritti fondamentali della quasi totalità della popolazione europea, senza alcuna limitazione a seconda dell’obiettivo di lotta contro i reati gravi, applicandosi anche a persone per le quali non esiste alcun indizio di reati gravi ed anche a persone le cui comunicazioni sono soggette al segreto professionale.
Nei punti 60-61 si osserva che la direttiva non prevede alcun criterio oggettivo che permetta di delimitare l’accesso delle autorità nazionali competenti ai dati ai fini di prevenzione, di accertamento o di indagini penali riguardanti reati che possano essere considerati sufficientemente gravi da giustificare siffatta ingerenza, limitandosi a rinviare, in maniera generale, ai reati gravi come definiti da ciascuno Stato membro ed a prevedere che ciascuno Stato membro definisca le procedure e le condizioni per l’accesso ai dati conservati, in conformità dei criteri di necessità e di proporzionalità.
Nel punto 62 si precisa che l’accesso ai dati conservati da parte delle autorità nazionali competenti non è subordinato ad un previo controllo effettuato da un giudice o da un’entità amministrativa indipendente la cui decisione sia diretta a limitare l’accesso ai dati e il loro uso a quanto strettamente necessario per raggiungere l’obiettivo perseguito.
Nei punti 63-67 si osserva che la durata di conservazione dei dati si colloca tra un minimo di sei mesi e un massimo di ventiquattro mesi, senza che venga effettuata alcuna distinzione tra le varie categorie ed in assenza di criteri obiettivi al fine di garantire che la durata sia limitata allo stretto necessario, nonché in difetto di garanzie sulla distruzione irreversibile dei dati al termine della durata di conservazione degli stessi.
Nel punto 69 si conclude nel senso che “alla luce dell’insieme delle osservazioni che precedono, si deve considerare che, adottando la direttiva 2006/24, il legislatore dell’Unione ha ecceduto i limiti imposti dal rispetto del principio di proporzionalità alla luce degli articoli 7, 8 e 52, paragrafo 1, della Carta”.
3. La sentenza 6 ottobre 2015 n. C-362/14 dalla Corte di giustizia europea.
Con tale sentenza, la Corte ha dichiarato l’invalidità della decisione della Commissione attestante che gli Stati Uniti garantiscono un adeguato livello di protezione dei dati personali trasferiti, precisando che solo la Corte è competente a dichiarare invalido un atto dell’Unione, ma le autorità nazionali di controllo, investite di una domanda, possono, anche se esiste una decisione della Commissione che dichiara che un paese terzo offre un adeguato livello di protezione dei dati personali, esaminare se il trasferimento dei dati di una persona verso quel paese rispetta i requisiti della normativa dell’Unione sulla protezione di tali dati, nonché adire i giudici nazionali, allo stesso titolo della persona interessata, affinché procedano ad un rinvio pregiudiziale per l’esame della validità della decisione.
La fattispecie ha riguardato un cittadino austriaco, utilizzante Facebook, i cui dati, come per gli altri iscritti, erano trasferiti su server situati nel territorio degli Stati Uniti, dove sono oggetto di trattamento. La Corte ha rilevato che le esigenze afferenti alla sicurezza nazionale, al pubblico interesse e all’osservanza delle leggi statunitensi prevalgono sul regime dell’approdo sicuro, cosicché le imprese americane sono tenute a disapplicare, senza limiti, le norme di tutela previste, laddove queste ultime entrino in conflitto con tali esigenze. Il regime americano dell’approdo sicuro rende così possibili ingerenze da parte delle autorità pubbliche americane nei diritti fondamentali delle persone, e la decisione della Commissione non menziona l’esistenza, negli Stati Uniti, di norme intese a limitare queste eventuali ingerenze, né l’esistenza di una tutela giuridica efficace contro le stesse.
Per quanto attiene al livello di tutela sostanzialmente equivalente alle libertà e ai diritti fondamentali garantiti all’interno dell’Unione, la Corte ha dichiarato che, nel diritto dell’Unione, una normativa non è limitata allo stretto necessario se autorizza in maniera generalizzata la conservazione di tutti i dati personali di tutte le persone i cui dati sono trasferiti dall’Unione verso gli Stati Uniti senza che sia operata alcuna differenziazione, limitazione o eccezione in funzione dell’obiettivo perseguito e senza che siano fissati criteri oggettivi intesi a circoscrivere l’accesso delle autorità pubbliche ai dati e la loro successiva utilizzazione. La Corte ha soggiunto che una normativa che consenta alle autorità pubbliche di accedere in maniera generalizzata al contenuto di comunicazioni elettroniche deve essere considerata lesiva del contenuto essenziale del diritto fondamentale al rispetto della vita privata. Parimenti, la Corte ha osservato che una normativa che non preveda alcuna facoltà per il singolo di esperire rimedi giuridici diretti ad accedere ai dati personali che lo riguardano o ad ottenerne la rettifica o la cancellazione viola il contenuto essenziale del diritto fondamentale ad una tutela giurisdizionale effettiva, facoltà, questa, che è connaturata all’esistenza di uno Stato di diritto.
4. La giurisprudenza della Corte di cassazione.
Con sentenza n. 28507/2005 la Cassazione s.u. civili ha dichiarato la natura immediatamente precettiva delle norme convenzionali, a seguito di ratifica dello strumento di diritto internazionale, già affermata con sentenza n. 7662/1991 ed ha espressamente riconosciuto la natura sovraordinata alle norme della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), sancendo l’obbligo per il giudice di disapplicare la norma interna in contrasto con la norma pattizia dotata di immediata precettività nel caso concreto (Cass. 19 luglio 2002, n. 10542).
Con sentenze n. 13287/2006, 15748/2006, 25526/2006 e 4842/2007, la stessa Cass. s.u. civ., dopo aver richiamato la predetta sentenza, ha affermato che, in tema di equa riparazione per la irragionevole durata del processo ai sensi dell’art. 2 della legge n. 89 del 2001, la fonte del riconoscimento del relativo diritto non deve essere ravvisata nella sola legge nazionale, coincidendo il fatto costitutivo del diritto attribuito da detta legge con la violazione della norma contenuta nell’art. 6 della Convenzione europea, di immediata rilevanza nell’ordinamento interno siccome ratificata e resa esecutiva in Italia con la legge n. 848/1955, onde il diritto all’equa riparazione del pregiudizio derivato dall’irragionevole durata del processo, verificatosi prima dell’entrata in vigore della citata L. n. 89 del 2001, va comunque riconosciuto dal giudice nazionale.
Con ordinanza n. 34472/2012 la Cassazione s.u. penali ha affrontato la questione di diritto relativa alla possibilità, “in attuazione dei principi dettati dalla Corte EDU con la sentenza 17.9.2009, Scoppola c/ Italia, di sostituire, nei confronti del ricorrente, la pena dell’ergastolo con la pena di anni trenta di reclusione, in tal modo modificando il giudicato con l’applicazione, nella successione di leggi intervenute in materia, di quella più favorevole”.
La Corte, premesso che tale quaestio iuris impone, innanzi tutto, di stabilire la rilevanza che nell’ordinamento interno possano assumere, in deroga anche al giudicato, le violazioni, accertate dalla Corte di Strasburgo (Corte EDU), della Convenzione europea dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), ha affermato la necessità che gli ordinamenti interni assicurino, anche a prescindere da un intervento del giudice europeo sul caso concreto, il rispetto degli obblighi convenzionali, così come già individuati dalla Corte EDU, pongano fine a persistenti violazioni degli stessi e prevengano nuove violazioni. In tale situazione, la preclusione, effetto proprio del giudicato, non può operare allorquando risulti pretermesso, con effetti negativi perduranti, un diritto fondamentale della persona, quale quello relativo alla propria libertà. Ciò premesso, la Corte ha precisato che “il giudice ordinario non può risolvere il contrasto tra legge interna e norma convenzionale evidenziato dalla Corte di Strasburgo, provvedendo egli stesso a disapplicare la prima, presupponendo ciò il riconoscimento di un primato delle norme contenute nella Convenzione e/o delle sentenze della Corte EDU, analogo a quello conferito al diritto dell’Unione europea e alle sentenze della Corte di Giustizia, che incidono direttamente nell’ordinamento nazionale e possono determinare addirittura la disapplicazione delle norme interne eventualmente contrastanti. L’esito negativo della verifica circa la praticabilità di una interpretazione della normativa interna conforme all’art. 7 CEDU, quale quella datane dalla Corte di Strasburgo, e l’insanabile contrasto tra dette norme a confronto impongono di sottoporre al giudice delle leggi, non apparendo manifestamente infondata, la questione di legittimità costituzionale, in riferimento agli artt. 3 e 117, comma primo, Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 7 CEDU, degli artt. 7 e 8 d.l. n. 341 del 2000, convertito dalla legge n. 4 del 2001”.
Con sentenza n. 29452/2013 la Cassazione penale – esaminato il ricorso nel quale si sosteneva che, in violazione della giurisprudenza della Corte Europea dei diritti dell’uomo, la sentenza d’appello aveva affermato la penale responsabilità del ricorrente, riformando l’assoluzione emessa dal Tribunale, senza rinnovare le prove dichiarative acquisite in primo grado – ha statuito che l’art. 6 CEDU non condiziona indefettibilmente il potere del giudice d’appello di ribaltare una precedente pronuncia assolutoria alla rinnovazione delle prove dichiarative assunte in primo grado, dovendosi tener conto delle caratteristiche specifiche del caso concreto. Nella fattispecie, la rinnovazione delle prove dichiarative assunte in primo grado sarebbe stata ininfluente, considerato che la condanna si è basata su un diverso apprezzamento non di prove dichiarative, ma di prove documentali, tali essendo le conversazioni telefoniche oggetto di intercettazione.
5. La giurisprudenza della Corte costituzionale.
Numerose sono le sentenze della Consulta in materia: per brevità ne saranno citate solo alcune di particolare rilievo.
Con sentenze n. 348/2007 e n. 349/2007, la Corte ha chiarito come le norme comunitarie debbano avere diretta applicazione in tutti gli Stati membri, ma che tale principio non riguardi le norme CEDU, pur rivestendo grande rilevanza, nella tutela dei diritti e delle libertà fondamentali delle persone. La peculiare rilevanza degli obblighi internazionali assunti con l’adesione alla Convenzione in esame risulta anche dal Preambolo al Protocollo n. 11, ratificato e reso esecutivo con legge n. 296/1997, di recepimento della nuova disciplina della Corte europea dei diritti dell’uomo, diretta a rafforzare l’efficacia della protezione dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali prevista dalla CEDU. Queste, peraltro, sono norme internazionali pattizie, che vincolano lo Stato, ma non producono effetti diretti nell’ordinamento interno. L’art. 117, primo comma, Cost. (“La potestà legislativa è esercitata dallo Stato e dalle Regioni nel rispetto della Costituzione, nonché dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali”) distingue, in modo significativo, i vincoli derivanti dallo «ordinamento comunitario» da quelli riconducibili agli «obblighi internazionali». Con l’adesione ai Trattati comunitari, l’Italia è entrata a far parte di un “ordinamento” di natura sopranazionale, cedendo parte della sua sovranità. La CEDU, invece, non crea un ordinamento giuridico sopranazionale e non produce norme direttamente applicabili negli Stati contraenti. Il giudice comune non ha, dunque, il potere di disapplicare la norma legislativa ordinaria ritenuta in contrasto con una norma CEDU, poiché l’asserita incompatibilità tra le due si presenta come una questione di legittimità costituzionale, per eventuale violazione dell’art. 117, primo comma, Cost., di esclusiva competenza del giudice delle leggi. Il parametro costituzionale in esame comporta l’obbligo del legislatore ordinario di rispettare le norme contenute in accordi internazionali, con la conseguenza che la norma nazionale incompatibile con la norma della CEDU e dunque con gli “obblighi internazionali” di cui all’art. 117, primo comma, viola per ciò stesso tale parametro costituzionale.
Con sentenza n. 93/2010 la Corte ha confermato che, nel caso in cui si profili un eventuale contrasto tra una norma interna e una norma della CEDU, il giudice nazionale comune deve preventivamente verificare la praticabilità di una interpretazione conforme alla norma convenzionale, (sentenza n. 239/2009), e, ove tale soluzione risulti impercorribile, non potendo disapplicare la norma interna contrastante, deve proporre questione di legittimità costituzionale in riferimento al parametro costituzionale espresso dall’art. 117, primo comma, Cost., nella parte in cui impone la conformazione della legislazione interna ai vincoli derivanti dagli «obblighi internazionali».
Con sentenza n. 80/2011 la Consulta ha ulteriormente confermato la tesi espressa nelle sentenze sopra citate, pur tenendo conto che l’art. 6 del Trattato sull’Unione europea è stato incisivamente modificato dal Trattato di Lisbona, con il rafforzamento dei meccanismi di protezione dei diritti fondamentali, prevedendo il nuovo art. 6, al paragrafo 1, che l’Unione riconosce i diritti, le libertà e i principi sanciti nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, al paragrafo 2, che l’Unione aderisce alla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e al paragrafo 3, che i diritti fondamentali, garantiti dalla Convenzione e risultanti dalle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri, fanno parte del diritto dell’Unione in quanto principi generali. In particolare la Corte ha rilevato che l’adesione dell’Unione europea alla CEDU al momento non era ancora avvenuta, rendendo allo stato improduttiva di effetti la statuizione del paragrafo 2 del nuovo art. 6 del Trattato sull’Unione europea, come modificato dal Trattato di Lisbona.
Con sentenza n. 210/2013 la Consulta, nell’esaminare la questione di legittimità costituzionale sollevata dalla Cassazione, s.u. penali, con la citata ordinanza n. n. 34472/2012 , ha osservato che “la Corte di giustizia dell’Unione europea ha ritenuto che il rinvio operato dall’art. 6, paragrafo 3, del Trattato sull’Unione europea alla CEDU non regola i rapporti tra ordinamenti nazionali e CEDU né, tantomeno, impone al giudice nazionale, in caso di conflitto tra una norma di diritto nazionale e la Convenzione europea, di applicare direttamente le disposizioni di quest’ultima, disapplicando la norma di diritto nazionale in contrasto con essa (sentenza del 24 aprile 2012, in causa C-571/10, Kamberaj)”.
La Corte ha poi rilevato che fondatamente la Cassazione ha ritenuto che la sentenza 17.9.2009, Scoppola c/ Italia della Corte EDU, obblighi l’Italia a porre riparo alla violazione riscontrata a livello normativo e a rimuoverne gli effetti nei confronti di tutti i condannati che si trovino nelle medesime condizioni di Scoppola.
Spetta quindi anzitutto al legislatore rilevare il conflitto verificatosi tra l’ordinamento nazionale e il sistema della Convenzione e rimuovere le disposizioni che lo hanno generato, privandole di effetti; se però il legislatore non interviene, sorge il problema relativo alla eliminazione degli effetti già definitivamente prodotti in fattispecie uguali a quella in cui è stata riscontrata l’illegittimità convenzionale ma che non sono state denunciate innanzi alla Corte EDU, diventando così inoppugnabili. L’ordinamento nazionale conosce ipotesi di flessione dell’intangibilità del giudicato, che la legge prevede nei casi in cui sul valore costituzionale ad esso intrinseco si debbano ritenere prevalenti opposti valori, ugualmente di dignità costituzionale, ai quali il legislatore intende assicurare un primato, fra i quali la tutela della libertà personale, laddove essa venga ristretta sulla base di una norma incriminatrice successivamente abrogata oppure modificata in favore del reo.
Bisogna ora chiedersi quale sia il procedimento da seguire per conformarsi alla sentenza della Corte EDU: in particolare, se, come nel caso in esame, rispetto al ricorrente manchi una pronuncia specifica della Corte EDU, è da ritenere che occorra sollevare una questione di legittimità costituzionale della norma convenzionalmente illegittima, sollevata dalle sezioni unite della Cassazione rispetto all’art. 7, comma 1, del decreto-legge n. 341 del 2000, che impedisce di definire la vicenda processuale in osservanza dell’obbligo costituzionale di adeguamento alla sentenza della Corte EDU, che di quella norma ha rilevato il contrasto con l’art. 7, paragrafo 1, della CEDU.
In conclusione, “costituendo l’art. 7 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, rispetto all’art. 117, primo comma, Cost., una norma interposta, la sua violazione, riscontrata dalla Corte europea dei diritti dell’uomo con la sentenza della Grande Camera del 17 settembre 2009, Scoppola contro Italia, comporta l’illegittimità costituzionale della norma impugnata”.
6. La giurisprudenza del giudice amministrativo.
Per brevità, verrà citata una sola, recente ordinanza, la n. 7/2015 del Consiglio di Stato in sede di adunanza plenaria con la quale è stata sollevata questione di legittimità costituzionale dell’art. 50 comma 4, ultimi due periodi, della legge n. 388/2000, per contrasto con gli articoli 6 e 13 della CEDU e, quindi, con l’articolo 117, comma 1, della Costituzione. La Corte ha escluso che il contrasto tra legislazione nazionale e normativa CEDU possa essere risolto con la disapplicazione della prima, sulla base della consolidata giurisprudenza costituzionale relativa alla non assimilabilità delle norme della Convenzione EDU alle nome comunitarie self executing ai fini dell’applicazione immediata nell’ordinamento interno. Di conseguenza, il giudice del caso concreto, allorché si trovi a decidere di un contrasto tra la CEDU e una norma di legge interna, sarà tenuto a sollevare un’apposita questione di legittimità costituzionale. La CEDU presenta, rispetto agli altri trattati internazionali, la caratteristica peculiare di aver previsto la competenza di un organo giurisdizionale, la Corte europea per i diritti dell’uomo, cui è affidata la funzione di interpretare le norme della Convenzione stessa, ai sensi dell’art. 32, paragrafo 1, con la conseguenza che, tra gli obblighi internazionali assunti dall’Italia con la sottoscrizione e la ratifica della CEDU vi è quello di adeguare la propria legislazione alle norme di tale trattato, nel significato attribuito dalla Corte specificamente istituita per dare ad esse interpretazione ed applicazione.
7. La normativa più recente in materia: art. 4 bis del decreto antiterrorismo n.7/2015, introdotto con la legge di conversione n. 43/2015.
Art. 4 bis: Disposizioni in materia di conservazione dei dati di traffico telefonico e telematico.
I Al fine di poter agevolare le indagini esclusivamente per i reati di cui agli artt. 51, comma 3-quater, e 407, comma 2, lettera a), del codice di procedura penale, in deroga a quanto stabilito dall’art. 132, comma 1, del codice di cui al decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196, e successive modificazioni e fermo restando quanto stabilito dall’art. 123, comma 2, (trattamento dei dati a fini di fatturazione) del medesimo codice, i dati relativi al traffico telefonico effettuato a decorrere dalla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto sono conservati dal fornitore fino al 31 dicembre 2016 per finalità di accertamento e repressione dei reati. Per le medesime finalità i dati relativi al traffico telematico effettuato a decorrere dalla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto, esclusi comunque i contenuti della comunicazione, sono conservati dal fornitore fino al 31 dicembre 2016.
II I dati relativi alle chiamate senza risposta, effettuate a decorrere dalla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto, trattati temporaneamente da parte dei fornitori di servizi di comunicazione elettronica accessibile al pubblico oppure di una rete pubblica di comunicazione, sono conservati fino al 31 dicembre 2016.
III Le disposizioni di cui ai commi 1 e 2 cessano di applicarsi a decorrere dal 1° gennaio 2017.
8. Osservazioni sui principi da rispettare in materia e sulla loro effettiva applicazione.
A)La prima osservazione può prendere le mosse dalla recentissima sentenza della Corte di giustizia in data 6 ottobre 2015: “una normativa che consenta alle autorità pubbliche di accedere in maniera generalizzata al contenuto di comunicazioni elettroniche deve essere considerata lesiva del contenuto essenziale del diritto fondamentale al rispetto della vita privata”.
Orbene, la normativa nazionale calpesta, senza ombra di dubbio, il “diritto fondamentale al rispetto della vita privata”.
Non solo, malgrado il tempo trascorso, non è stata modificata, per adeguarla alle statuizioni sancite dalla Corte di giustizia europea nella citata decisione dell’8 aprile 2014, la disciplina manifestamente illegittima contenuta nel d.lgs. n. 196/2003 – c.d. codice della privacy – e, in particolare, nell’art. 132 il quale al comma 1 stabilisce genericamente che i dati relativi al traffico telefonico sono conservati dal fornitore per ventiquattro mesi dalla data della comunicazione, per finalità di accertamento e repressione di reati…”, ma addirittura si è operato in senso diametralmente opposto, incrementandosi l’illegittimità attraverso un’incredibile proroga dei termini nella conservazione dei dati, attuata con l’art. 4 bis del decreto antiterrorismo n.7/2015, introdotta con la legge di conversione n. 43/2015.
Viene spontaneo richiamare le stesse parole della Corte di giustizia nella sentenza in data 6 ottobre 2015, che ha ancorato il rispetto di principi fondamentali alla “esistenza di uno Stato di diritto”.
Tale modus operandi risulta ancor più sconcertante, se si raffronta con quello di tanti paesi europei che si sono prontamente adeguati alle ineccepibili statuizioni della Corte di giustizia. Per citare solo alcuni casi, Austria, Germania, Regno Unito, Bulgaria, Romania, Cipro, Slovenia, Repubblica Ceca hanno prontamente dichiarato incostituzionali le rispettive leggi di recepimento della Direttiva 2006/24/CE; al contrario l’Italia, nell’anno in corso, ha pensato bene di aggravare ulteriormente le violazioni dei più elementari diritti alla riservatezza, in contrasto con i principi affermati dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea e dalla Costituzione.
B)Come risulta evidente dalla esposizione, sia pure per sommi capi, della citata giurisprudenza dei diversi organi giudiziari, non sussiste uniformità di vedute in relazione all’applicazione delle norme CEDU, con particolare riguardo alla utilizzazione in sede processuale di elementi probatori desunti da conversazioni telefoniche o da altri mezzi di comunicazione, in violazione dei principi affermati dalla Convenzione. Si tenterà, quindi, di analizzare le soluzioni prospettate e di indicare quelle maggiormente convincenti.
Secondo una prima tesi, va riconosciuta natura sovraordinata alle norme della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), sancendo l’obbligo per il giudice di disapplicare la norma interna in contrasto con la norma pattizia, dotata di immediata precettività nel caso concreto.
Una seconda tesi afferma, invece, che la CEDU non crea un ordinamento giuridico sopranazionale e non produce norme direttamente applicabili negli Stati contraenti, per cui il giudice comune non ha il potere di disapplicare la norma legislativa ordinaria ritenuta in contrasto con una norma CEDU, poiché l’asserita incompatibilità tra le due si presenta come una questione di legittimità costituzionale, per eventuale violazione dell’art. 117, primo comma, Cost., di esclusiva competenza del giudice delle leggi.
Un’ultima tesi ritiene che, in casi del genere, non potrebbe comunque proporsi la questione di costituzionalità, in ragione dell’espunzione di una direttiva alla quale era conforme la normativa interna (art. 132 cit.), per violazione dell’art. 117, comma 1 della Costituzione, per un serie di motivi che verranno singolarmente analizzati.
Ciò premesso, dal punto di vista della giustizia “sostanziale”, la prima soluzione sarebbe senz’altro preferibile perché consentirebbe all’interessato l’immediata tutela del fondamentale diritto alla riservatezza, con la disapplicazione della norma lesiva di tale diritto.
Tuttavia, sotto il profilo strettamente giuridico, appare maggiormente convincente la seconda soluzione che, da una parte, valorizza l’aspetto dell’obbligo per gli Stati di adeguarsi immediatamente alle convenzioni internazionali (ord. n. 34472/2012 Cass, s.u. pen.: necessità che gli ordinamenti interni assicurino il rispetto degli obblighi convenzionali, così come individuati dalla Corte EDU e di porre fine a persistenti violazioni degli stessi e di prevenire nuove violazioni), dall’altra parte risolve il contrasto attraverso la prospettazione di una questione di legittimità costituzionale, per violazione dell’art. 117, primo comma, della Costituzione.
La terza tesi, infine, non appare convincente: i motivi esposti a sostegno di tale tesi suscitano notevoli perplessità.
Il primo motivo riguarda l’asserita necessità del rispetto del principio della continuità delle funzioni statali (nella specie, attinenti all’assunzione delle prove necessarie per l’investigazione) che impone di attendere una nuova direttiva conforme alla Carta europea, producendosi altrimenti un inammissibile vuoto normativo.
Al contrario, in punto di diritto, il giudice non sembra avere alcuna competenza a giudicare in ordine al presunto “vuoto normativo” che deriverebbe dalla sua statuizione, in punto di fatto tale rischio non è per nulla ravvisabile, tenuto conto del lasso di tempo, che intercorre tra l’ordinanza con la quale viene prospettata la questione di legittimità costituzionale e la relativa decisione, che consente agli organi competenti di attivarsi tempestivamente, eventualmente attraverso lo strumento del decreto-legge, per adeguare la normativa interna a quella convenzionale.
Il secondo motivo riguarda il convincimento che il recepimento dei principi della Carta europea e della CEDU non possa avvenire senza l’interposizione di una nuova normativa europea.
Tale affermazione non è condivisibile, come precisato dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 210/2013, secondo cui spetta anzitutto al legislatore rilevare il conflitto verificatosi tra l’ordinamento nazionale e il sistema della Convenzione e rimuovere le disposizioni che lo hanno generato, privandole di effetti.
Il terzo motivo concerne l’assunto secondo cui, per le prove acquisite sulla base di intercettazioni telefoniche, prima della pronuncia della Corte di giustizia europea dell’8 aprile 2014, vale il principio “tempus regit actum” per cui queste sono certamente provviste di valore legale.
Anche su tale punto deve esprimersi il più totale dissenso. Occorre, infatti, far riferimento al momento in cui il giudice esamina la causa per stabilire se la norma interna che si intenda applicare sia o meno conforme alle norme pattizie alle quali l’ordinamento deve conformarsi, in applicazione dell’art. 117, primo comma, della Costituzione.
L’ultimo motivo riguarda la circostanza della diversa normativa in campo processuale concernente l’utilizzabilità delle prove acquisite in violazione dei divieti stabiliti dalla legge.
Tale differenziazione sembra irrilevante, in quanto il giudice, quale che sia il settore giurisdizionale di competenza, è tenuto, in ugual misura, a controllare il rispetto delle norme convenzionali nelle singole fattispecie ed a sollevare questione di legittimità costituzionale in caso di violazione ad opera delle norme interne.
Addirittura, allorquando risulti compromesso, con effetti negativi perduranti, un diritto fondamentale della persona, neppure il giudicato può ritenersi operante.
Da ultimo, si esprime l’auspicio che l’attuale, gravissima, situazione di violazione di diritti fondamentali come quello alla riservatezza, abbia finalmente termine, con la totale adesione ai principi informati al rispetto della dignità personale.
Roma 7 ottobre 2015.
Antonio VETRO
(Presidente on. Corte dei conti)
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