Analisi critica dello ius superveniens costituzionale: nota minima alla sentenza n. 178 del 2015 sul cosiddetto sbocco degli stipendi pubblici.
del Ten. Col. Sebastiano La Piscopìa, cultore di giurisprudenza costituzionale.
C’era grande attesa per l’esito del giudizio di (in)costituzionalità sulle norme che hanno “sospeso” dal 2010, ex abrupto, sia la concertazione ministeriale per il rinnovo dei contratti dei pubblici dipendenti, sia la progressione economica automatica del personale di vari comparti, ivi incluso quello in regime di diritto pubblico ex art. 3 del D.lgs. 165/2001[1].
La lettura delle motivazioni della sentenza n. 178/2015 ha suscitato grande interesse, però, non solo tra i beneficiari delle norme censurate dal giudice delle leggi, bensì anche tra gli studiosi dell’evoluzione diacronica delle tecniche argomentative utilizzate dalla somma giurisprudenza costituzionale[2].
La presente nota minima sfiorerà, senza pretese di esaustività sistematica, alcuni passaggi ritenuti significativi al fine di commentare, con il massimo rispetto dovuto per il giudice delle leggi, alcuni salienti profili processuali e sostanziali della sentenza in rassegna.
Per inquadrare normativamente il casus, rammentiamo che il Tribunale ordinario di Roma in funzione di giudice del lavoro, ha sollevato nel 2013 la questione di legittimità costituzionale dell’art. 9, commi 1 e 17, primo periodo, del decreto-legge 31 maggio 2010, n. 78[3] e dell’art. 16, comma 1, del decreto-legge 6 luglio 2011, n. 98[4], prospettando la violazione degli artt. 2, 3, primo comma, 35, primo comma[5], 36, primo comma[6], 39, primo comma[7], e 53 della Costituzione[8] e che il Tribunale ordinario di Ravenna, anch’esso in funzione di giudice del lavoro, ha analogamente sollevato, un anno più tardi, la questione di legittimità costituzionale dell’art. 9, commi 1, 2-bis, 17, primo periodo, e 21, ultimo periodo, del d.l. n. 78 del 2010 e dell’art. 16, comma 1, lettere b) e c), del d.l. n. 98 del 2011, in riferimento agli artt. 2, 3, primo comma, 35, primo comma, 36, primo comma, 39, primo comma, e 53 della Costituzione.
La normativa impugnata, nei termini esposti dai giudici rimettenti concerne quindi, normativamente, le previsioni del d.l. n. 78 del 2010 e del d.l. n. 98 del 2011, nella parte in cui sacrificano la libertà di accedere alla contrattazione collettiva e circondano di limiti rigorosi l’incremento delle retribuzioni nel lavoro pubblico.
In buona sostanza le parti intervenute nel giudizio, tra cui si annoverano importanti sindacati dei lavoratori, rivendicano con il favor dei giudici rimettenti, che la sospensione della contrattazione collettiva determina una interruzione delle procedure negoziali che si propongono di garantire la proporzionalità tra il lavoro prestato e la retribuzione dovuta.
In via preliminare il giudice del lavoro del Tribunale di Roma ha disatteso le eccezioni pregiudiziali mosse dal Presidente del Consiglio dei ministri, ritenendo soddisfatto il requisito dell’incidentalità in quanto l’esame della questione di legittimità costituzionale rappresenterebbe l’antecedente ineludibile per giungere all’accertamento del diritto (art. 39, primo comma, Cost.), invocato dalla parte ricorrente.
Tali considerazioni confermerebbero la rilevanza della questione, poiché il diritto della parte ricorrente ad avviare la contrattazione discenderebbe, appunto, dal vaglio di costituzionalità della norma in esame.
Il prefato giudice rimettente evidenzia, quindi, che la sospensione della contrattazione sui trattamenti retributivi fino al 31 dicembre 2014[9] si accompagna all’impossibilità di qualsivoglia recupero, in quanto si riscontra un prolungamento dei limiti posti all’autonomia collettiva. Peraltro, tali limiti confliggerebbero con il dettato degli artt. 35, primo comma, 36, primo comma, e 39, primo comma della Costituzione.
Le disposizioni censurate, inoltre, si porrebbero in contrasto con l’art. 3, primo comma della Costituzione, anche in relazione all’art. 2 della carta. Le misure di risanamento sarebbero, infatti, destinate a ripercuotersi sulle retribuzioni dei soli pubblici dipendenti, così violando il principio di eguaglianza tra i cittadini e il dovere di solidarietà politica, sociale ed economica di cui agli artt. 3, primo comma, e 2 della Costituzione. Tale dovere di solidarietà, difatti, non potrebbe non gravare sull’intera comunità.
In particolare, il summenzionato giudice osserva che “la sospensione delle procedure contrattuali riguardanti gli incrementi retributivi, protraendosi fino al 31 dicembre 2014, con esclusione di ogni possibilità di recupero e di ogni adeguamento dell’indennità di vacanza contrattuale, interrompe la dinamica retributiva, senza presentare quei caratteri di eccezionalità e di temporaneità che la Corte costituzionale ha ritenuto imprescindibili nel vagliare analoghe misure di contenimento della spesa pubblica”.[10]
Alcune Organizzazioni sindacali si esercitano, in via preliminare, nel tentare di dimostrare delle sostanziali analogie tra il blocco della contrattazione collettiva ed il prelievo tributario, secondo cui la norma impugnata istituirebbe, in spregio all’art. 53 della Costituzione, una indebita captazione fiscale volta a pregiudicare il diritto dei lavoratori a percepire una retribuzione proporzionata alla quantità e alla qualità del lavoro svolto, in violazione dei princípi di affidamento, di buona fede e di eguaglianza sostanziale, ma l’alta Corte rammenta che “gli elementi indefettibili della prestazione tributaria, enucleati dalla costante giurisprudenza di questa Corte, si identificano, per un verso, nella presenza di una disciplina legale, finalizzata in via prevalente a provocare una decurtazione patrimoniale del soggetto passivo, svincolata da ogni modificazione del rapporto sinallagmatico. Per altro verso, a definire la natura tributaria concorre l’elemento teleologico.
In particolare, le risorse derivanti dal prelievo e connesse a un presupposto economicamente rilevante, idoneo a porsi come indice della capacità contributiva, devono essere destinate a «sovvenire le pubbliche spese» (sentenza n. 310 del 2013, punto 11. del Considerato in diritto).” [11] Va da sé che caduta la costruzione analogica della parte ricorrente circa la natura tributaria del “blocco”, anche le censure di violazione dell’art. 53 Cost. perdono consistenza.”.
I sindacati adombrano, poi, come pure il giudice rimettente del Tribunale di Ravenna, una sorta di disparità di trattamento tra i lavoratori privati ed i lavoratori pubblici, oltre che alcune diversità applicative delle norme in giudizio tra i lavoratori pubblici contrattualizzati ed i lavoratori in regime di diritto pubblico ex art. 3 del D.lgs. n. 165/2001.
Il punto 9.2 del considerato in diritto della sentenza in esame è lapidariamente chiaro in merito.
“La disciplina impugnata, che non lascia indenne il personale della carriera diplomatica (sentenza n. 304 del 2013) menzionato come termine di paragone dal giudice ravennate, persegue l’obiettivo di un risparmio di spesa, che «opera riguardo a tutto il comparto del pubblico impiego, in una dimensione solidaristica – sia pure con le differenziazioni rese necessarie dai diversi statuti professionali delle categorie che vi appartengono» (sentenza n. 310 del 2013, punto 13.5. del Considerato in diritto).
I giudici rimettenti non tengono conto della diversità degli statuti professionali delle categorie appartenenti al lavoro pubblico e comparano fattispecie dissimili, che non possono fungere da utile termine di raffronto.
Il lavoro pubblico e il lavoro privato non possono essere in tutto e per tutto assimilati (sentenze n. 120 del 2012 e n. 146 del 2008) e le differenze, pur attenuate, permangono anche in séguito all’estensione della contrattazione collettiva a una vasta area del lavoro prestato alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni.
La medesima eterogeneità dei termini posti a raffronto connota l’area del lavoro pubblico contrattualizzato e l’area del lavoro pubblico estraneo alla regolamentazione contrattuale. Tale eterogeneità preclude ogni plausibile valutazione comparativa sul versante dell’art. 3, primo comma, Cost. e risalta ancor più netta in ragione dell’irriducibile specificità di taluni settori (forze armate, personale della magistratura), non governati dalla logica del contratto[12] e indicati dal giudice ravennate come tertia comparationis. Si valorizza in tal modo una funzione solidaristica delle misure adottate, strettamente collegata all’eccezionalità della situazione economica generale, in piena armonia con il dettato dell’art. 2 Cost.”.
Rimanendo nelle argomentazioni della Corte, si evidenzia, con riferimento all’art. 9 del d.l. n. 78/2010 – cardine della compressione dei diritti del personale in regime di diritto pubblico dotato di assetto stipendiale dirigenziale – che il giudice delle leggi ha già avuto modo di affrontare l’assetto normativo della prefata disposizione, illustrandone portata, margini e profili di costituzionalità (pro-tempore) nel dispositivo di altre importanti sentenze quali la n. 219/2014[13] e la n. 310/2013[14].
Si è precisato, in tali occasioni che le prospettive necessariamente pluriennali del ciclo di bilancio non consentono analogie con situazioni risalenti in cui le manovre economiche si ponevano obiettivi temporalmente delimitati.
A tale riguardo, la Corte ha valorizzato «[l]a recente riforma dell’art. 81 Cost., a cui ha dato attuazione la legge 24 dicembre 2012, n. 243 (Disposizioni per l’attuazione del principio del pareggio di bilancio ai sensi dell’articolo 81, sesto comma, della Costituzione), con l’introduzione, tra l’altro, di regole sulla spesa, e dell’art. 97, primo comma, Cost., rispettivamente ad opera degli artt. 1 e 2 della legge costituzionale 20 aprile 2012, n. 1 (Introduzione del principio del pareggio di bilancio nella Carta costituzionale), ma ancor prima il nuovo primo comma dell’art. 119 Cost.» (sentenza n. 310 del 2013, punto 13.4. del Considerato in diritto).
Con specifico riguardo alla dell’art. 81 della Costituzione l’autore avrà modo – nella parte conclusiva di questa beve nota – di esporre alcune considerazioni che vanno al di là di una semplice analisi sostanziale della ratio decidendi della sentenza in argomento.
Pienamente condivisibile appare poi l’impianto giurisprudenziale che evidenzia la non protraibilità sine die dei periodi di sospensione delle procedure negoziali e contrattuali: ciò evidenzia l’irragionevolezza (da parte del legislatore) del bilanciamento tra principi costituzionali in assenza di un limite temporale definito e certo.
Con specifico riferimento ai limiti temporali di ragionevolezza del summenzionato bilanciamento, si evidenzia come al punto 12.1 del considerato in diritto, la sentenza n. 178/2015 abbia anche menzionato espressamente la direttiva 8 novembre 2011, n. 2011/85/UE (Direttiva del Consiglio relativa ai requisiti per i quadri di bilancio degli Stati membri) che corrobora la necessità di considerare le politiche di bilancio in una dimensione pluriennale, puntualizzando che «la maggior parte delle misure finanziarie hanno implicazioni sul bilancio che vanno oltre il ciclo di bilancio annuale».[15]
Alla stregua di tali rilievi, la Corte ha riconosciuto la ragionevolezza di un sistema di misure dotate di una proiezione strutturale, che esclude in radice ogni possibilità di recupero delle procedure negoziali per il periodo di riferimento (sentenza n. 189 del 2012, punto 4.1. del Considerato in diritto).
In buona sostanza, la natura pluriennale delle politiche di bilancio, evidenzia una spiccata dimensione programmatica della contrattazione collettiva che, in presenza di una congiuntura economica sfavorevole, giustifica, secondo il criterio definito dall’autore del tempus economicus regit legem, la legittimità delle misure ricordate, oltre che per la prospettiva programmatica ora esposta, per la ragionevolezza che ne ispira le linee direttrici.
Al punto 14.1 del considerato in diritto, la sentenza in esame ribadisce, tuttavia, con riferimento alla mutata situazione economica congiunturale, che “in linea di principio (…) l’emergenza economica, pur potendo giustificare la stasi della contrattazione collettiva, non può avvalorare un irragionevole protrarsi del “blocco” delle retribuzioni. Si finirebbe, in tal modo, per oscurare il criterio di proporzionalità della retribuzione, riferito alla quantità e alla qualità del lavoro svolto (sentenza n. 124 del 1991, punto 6. del Considerato in diritto). Tale criterio è strettamente correlato anche alla valorizzazione del merito, affidata alla contrattazione collettiva, ed è destinato a proiettarsi positivamente nell’orbita del buon andamento della pubblica amministrazione (art. 97 Cost.).”.
Tale importante statuizione di principio sembra quindi preludere ad una importante menzione nel dispositivo della sentenza, ad una declaratoria di incostituzionalità dell’art. 36 della Costituzione, ma, come vedremo, così non è.
Il giudice delle leggi si sofferma ampiamente, invece, sull’articolo 39 primo comma statuendo che “Il carattere ormai sistematico di tale sospensione sconfina, dunque, in un bilanciamento irragionevole tra libertà sindacale (art. 39, primo comma, Cost.), indissolubilmente connessa con altri valori di rilievo costituzionale e già vincolata da limiti normativi e da controlli contabili penetranti (artt. 47 e 48 del d.lgs. n. 165 del 2001), ed esigenze di razionale distribuzione delle risorse e controllo della spesa, all’interno di una coerente programmazione finanziaria (art. 81, primo comma,Cost.).”[16]
Sarebbe stato bello se la Corte Costituzionale avesse anche citato, al riguardo, l’art. 8 del Regolamento (UE) n. 472/2013 del Parlamento europeo e del Consiglio del 21 maggio 2013 intitolato “Coinvolgimento delle parti sociali e della società civile”.
L’importanza della norma richiamata non sfugge agli analisti più attenti.
Tale Regolamento sul rafforzamento della sorveglianza economica e di bilancio degli Stati membri che si trovano o rischiano di trovarsi in gravi difficoltà per quanto riguarda la loro stabilità finanziaria nella zona euro, che nell’ambito della riforma generale della governance economica dell’Unione si colloca nel cosiddetto “two pack”[17], evidenzia l’importante necessità di “sentire” le parti sociali al fine di creare il massimo consenso possibile.
Più in dettaglio, il summenzionato art. 8 del Regolamento n. 472/2013 così recita : “Nella preparazione dei suoi progetti dei programmi di aggiustamento macroeconomico, uno Stato membro consulta le parti sociali e le organizzazioni della società civile interessate al fine di contribuire alla creazione di un consenso in merito ai relativi contenuti.”
Va osservato, al riguardo, che gli interventi legislativi d’urgenza utilizzati in fattispecie hanno, invece, per utilizzare la stessa terminologia della Corte[18], “annichilito la libertà sindacale” di cui all’art. 39, primo comma della Costituzione sul quale è “caduta l’impalcatura difensiva” dell’Avvocatura dello Stato.
L’autore tenterà ora di comprendere le ragioni dello schema decisorio della Corte raffrontando, anche in via analogica, la sentenza in rassegna sia all’importante sentenza n. 70/2015 che ha censurato il blocco della rivalutazione dei provvedimenti pensionistici disposto nel 2011 dal Governo Monti, sia alla sentenza n. 10 del 2015 sulla cosiddetta Robin Tax[19].
Autorevole dottrina[20], sulle motivazioni che hanno “originato il diritto agli arretrati” per i pensionati ha avuto modo di precisare che “proprio il riferimento alla non definitività della riduzione dell’adeguamento del trattamento pensionistico, ha impedito alla Corte di applicare al caso in questione quel principio elaborato recentemente dalla stessa Corte nella sentenza n. 10 del 2015 in ordine alla delimitazione degli effetti temporali dell’annullamento a partire dal momento della pubblicazione della sentenza stessa. Infatti, è chiaro che tale delimitazione avrebbe determinato in concreto proprio ciò che nel caso di specie viene sanzionato dalla Corte, cioè la definitiva soppressione dell’adeguamento per il periodo di tempo già disciplinato dalla legge. In altre parole, se la Corte avesse circoscritto il suo intervento, rendendo l’annullamento efficace soltanto ex nunc, sarebbe incorsa nello stesso vizio di costituzionalità sulla cui base ha pronunciato la sentenza in esame.”.
La particolarità notata dall’autore è che nella sentenza n. 70/2015 c’è un inevitabile riferimento esplicito all’art. 38 della Costituzione che di fatto struttura la tecnica argomentativa della Corte, mentre nella sentenza n. 178/2015 il riferimento alle censure dell’art. 36, primo comma è opinabilmente e marginalmente relegato ad una “assenza di dimostrazione del contrario”[21].
Infatti il punto 14.1 del considerato in diritto della sentenza n. 178/2015 recita: “A questo riguardo, l’ordinanza di rimessione del Tribunale ordinario di Ravenna non offre una dimostrazione puntuale del «macroscopico ed irragionevole scostamento», che, secondo la giurisprudenza di questa Corte (sentenza n. 126 del 2000, punto 5. del Considerato in diritto), in difetto di un principio cogente di costante allineamento delle retribuzioni, denota il contrasto della legge con il precetto dell’art. 36, primo comma, Cost.”.
Orbene, pur tralasciando le colorite aggettivazioni che la Corte[22] riserva[23] all’indimostrata tesi per cui un una fortissima carenza organica causata dal blocco del turn over genera un inevitabile aumento del carico di lavoro, ad avviso dell’autore[24], va notato che il “glissare”[25] sull’art. 36 della Carta adombra il dubbio che la tecnica argomentativa della Corte costituzionale “schivi” il principio della proporzionalità della retribuzione alla qualità e quantità del lavoro svolto, per evitare – con una sentenza di “incostituzionalità sopravvenuta”[26] – l’inevitabile corollario dell’infondatezza di eventuali pretese risarcitorie o indennitarie o, in parole semplici, “il pagamento degli arretrati”[27].
Così, come per la menzionata sentenza n. 10/2010 (che ha evitato ai ricorrenti la restituzione dei tributi versati), autorevole dottrina[28] ha intravisto un caso di “ipergiurisdizionalismo” della Corte, non sembra inopinabile che anche nella sentenza n. 178/2015 possa rinvenirsi una sorta ius superveniens in carenza di motivazione specifica sulla irretroattività della sentenza.
Se infatti la sentenza n. 10/2015 sottolinea, per lo meno, che il legislatore non ha provveduto a corredare le disposizioni censurate di “strumenti atti a verificare il perdurare della congiuntura posta a giustificazione della più severa imposizione” – evidenziando così un conflitto logico interno alla legge – non si comprende perché nella sentenza n. 178/2010 la Corte non corredi il proprio schema argomentativo di motivazioni che illustrino l’avvenuta fine della congiuntura economica negativa proprio alla data di pubblicazione della sentenza !
Con riferimento alla decorrenza dell’effetto ablativo, il sospetto di una “sentenza manipolativa”[29] sembra in linea con le osservazioni di affermata dottrina[30]: “La “sopravvenienza” in parola rimanda, infatti, ad un mutamento del parametro intervenuto in un tempo posteriore alla produzione dell’atto oggetto del giudizio. Il mutamento può, poi, essere essenzialmente di due tipi: normativo e fattuale; può, cioè, interessare direttamente o esclusivamente la norma-parametro oppure riguardare elementi del mondo reale (del “fatto”, appunto) idonei ad essere sussunti entro il parametro stesso e, perciò, a farsi, per la loro parte, parametro.”.
Va osservato che la più volte menzionata sentenza n. 178/2015[31], di cui si riporta in nota il dispositivo accoglitivo, benché solo pindaricamente rassegnata per ragioni di sinteticità espositiva, non reca alcun passaggio dimostrativo che suffraghi il sindacato di ragionevolezza con un giudizio di congruità che fotografi, alla data della pubblicazione della sentenza, fatti e norme “secondo valore”.
Una tale carenza di motivazione corre il rischio di impedire, in fattispecie al lavoratore pubblico, la comprensione di quale possa essere la “misura del limite” oltre cui le conseguenze finanziarie di una sentenza retroattiva – ossia in linea con l’art. 136 della Costituzione oltre che con il disposto dell’art. 30 della legge n. 87/1953[32] – possano determinare una così significativa compressione dei diritti.
Se quindi la prassi giurisprudenziale supera la norma in una sorta di gerarchia delle fonti sui generis, non sembra allora irrispettoso parlare di ius superveniens del giudice delle leggi.
Questo senso di incertezza dell’affidamento incalzato dall’altalenante giurisprudenza costituzionale brevemente tratteggiata nel presente scritto, non aiuta né l’interprete né il conditor iuris nel fornire un univoco orientamento di giustizia.
Ad avviso dell’autore, il rischio latente di questa sommessa ma apparentemente inesorabile “deriva giurisprudenziale” è che la prassi legislativa emergente potrebbe conseguentemente, e pericolosamente, subire un “ripetitivo effetto mantice” sulla compressione di diritti costituzionalmente garantiti quando essi siano anche, sfortunatamente, solidalmente onerosi per la collettività.
Solo successivamente l’alta Corte potrebbe ristabilire, individuandone il dies a quo, la garanzia della prima delle leggi.
In particolare, nella sentenza n. 178/2015, l’accentuata modulazione dell’enfasi relativa al menzionato articolo 81 della Costituzione pare avvicinare la separazione dei poteri sempre più in un’ottica politica[33], nel senso greco del termine.
E ciò sembra calibrare in senso creativo i valori costituzionali da bilanciare nel tempo, senza che a ciò corrisponda un approfondimento ragionieristico dell’analisi d’impatto finanziaria della norma oggetto di censura.
Va rilevato, tuttavia, che la valutazione dei cosiddetti “oneri riflessi” pare più una competenza del Ministero dell’Economia e Finanze[34] o comunque dei redattori di relazioni tecniche[35] da sottoporre al suddetto Dicastero, più che una inevitabile mansione della Corte Costituzionale.
Se così non fosse non ci sarebbe stata la soppressione, nel 2000, dell’Ufficio per la documentazione e quantificazione finanziaria, istituito presso la Corte nel 1995 sotto la presidenza Baldassarre.
Secondo acuti studiosi[36], “Se la costituzione di tale ufficio testimonia, infatti, l’attenzione che da sempre la Corte ha sempre tributato agli effetti concreti sugli equilibri di bilancio delle proprie pronunce, la sua soppressione pare sottendere la scelta di un metodo informale di istruttoria processuale in relazione a tali questioni.”.[37]
Currenti calamo, se però tale metodo informale contribuisce a snellire troppo, per non dire a snaturare, la motivazione posta a base delle decisioni del giudice delle leggi, il rischio non implausibile è quello di assistere, sempre più, a “sentenze manipolative di tipo diacronico”[38].
Nonostante ciò, fortunatamente, una legge pur rispettosa dell’articolo 81 che punti a generare un risparmio di spesa – sì da penalizzare alcune categorie di cittadini costretti a sacrificare fondamentali diritti costituzionalmente garantiti – non potrebbe comunque sfuggire ad libitum alla sua intrinseca incostituzionalità.
[1] Di seguito, il testo dell’art. 3 del D.Lgs. 165/2001: “1. (…) In deroga all’articolo 2, commi 2 e 3, rimangono disciplinati dai rispettivi ordinamenti: i magistrati ordinari, amministrativi e contabili, gli avvocati e procuratori dello Stato, il personale militare e delle Forze di polizia di Stato, il personale della carriera diplomatica e della carriera prefettizia nonche’ i dipendenti degli enti (…).
1-bis. (…) del Corpo nazionale dei vigili del fuoco, esclusi il personale volontario (…)
1-ter. (…) il personale della carriera dirigenziale penitenziaria (…).
- Il rapporto di impiego dei professori e dei, ricercatori universitari resta disciplinato dalle disposizioni rispettivamente vigenti (…)
[2] Tra i quali, sia concesso, l’autore si riconosce. Al riguardo si sottolinea che le argomentazioni dottrinarie dello scrivente sono assolutamente personali, ragion per cui si solleva l’Amministrazione di appartenenza da ogni eventuale forma di responsabilità.
[3] Misure urgenti in materia di stabilizzazione finanziaria e di competitività economica, convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 30 luglio 2010, n. 122.
[4] Disposizioni urgenti per la stabilizzazione finanziaria, convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 15 luglio 2011, n. 111.
[5] Sulla tutela del lavoro in tutte le sue forme e applicazioni.
[6] Sul diritto al giusto salario.
[7] Sulla libertà sindacale.
[8] Sul principio di gradualità dei sacrifici imposti.
[9] In realtà, dopo la remissione del giudizio di incostituzionalità, per effetto dell’art. 1, comma 254, della legge 23 dicembre 2014, n. 190 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – legge di stabilità 2015), la sospensione delle procedure negoziali è (era) destinata a protrarsi, per la parte economica, fino al 31 dicembre 2015.
[10] Cfr. punto 1.1. del ritenuto in fatto.
[11] Cfr. punto 9.1 del considerato in diritto.
[12] Pur nel rispetto della generale previsione ex art. 23 del D.lgs. n. 150/2009 che recita:
“ 1. Le amministrazioni pubbliche riconoscono selettivamente le progressioni economiche di cui all’articolo 52, comma 1-bis, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n.165, come introdotto dall’articolo 62 del presente decreto, sulla base di quanto previsto dai contratti collettivi nazionali e integrativi di lavoro e nei limiti delle risorse disponibili.
- Le progressioni economiche sono attribuite in modo selettivo, ad una quota limitata di dipendenti, in relazione allo sviluppo delle competenze professionali ed ai risultati individuali e collettivi rilevati dal sistema di valutazione.
- La collocazione nella fascia di merito alta ai sensi dell’articolo 19, comma 2, lettera a), per tre anni consecutivi, ovvero per cinque annualita’ anche non consecutive, costituisce titolo prioritario ai fini dell’attribuzione delle progressioni economiche.”.
[13] Ove il giudice rimettente espone di essere stato adìto da docenti e insegnanti in servizio presso istituti scolastici ricompresi nell’ambito della propria competenza territoriale, i quali chiedevano, da un lato, dichiararsi l’illegittimità della sospensione delle posizioni stipendiali e dei relativi incrementi economici disposta dal comma 23 dell’art. 9 del d.l. n. 78 del 2010, con il conseguente riconoscimento del diritto al trattamento giuridico e retributivo spettante in virtù delle previsioni contrattuali vigenti, senza tener conto delle contestate riduzioni, a tal fine prospettando violazione di legge e sollevando dubbi di legittimità costituzionale della suddetta disposizione, in riferimento agli artt. 2, 3, 35, 36, 39, 41, 42, 53, 97 e 98 Cost.; dall’altro, accertare l’avvenuta abrogazione della disciplina sull’indennità di buonuscita a decorrere dal 1° gennaio 2011, per effetto del comma 10 dell’art. 12 del d.l. n. 78 del 2010, con conseguente declaratoria di illegittimità del perdurante prelievo del 2,50 per cento sull’80 per cento della retribuzione – operato a titolo di rivalsa sull’accantonamento per l’indennità di buonuscita – e domanda di restituzione degli accantonamenti eseguiti, prospettando, in via subordinata, questione di legittimità costituzionale per la disparità di trattamento a carico dei lavoratori dipendenti del settore pubblico rispetto ai lavoratori privati, non assoggettati ad alcun prelievo in relazione all’accantonamento del trattamento di fine rapporto da parte del datore di lavoro.
[14] Le questioni sono state sollevate nel corso di giudizi promossi da docenti universitari di ruolo, ordinari, straordinari, associati, ricercatori, nei confronti, nel complesso, delle rispettive università degli studi, del Ministero dell’istruzione dell’università e della ricerca, del Ministero dell’economia e delle finanze e del Presidente del Consiglio dei ministri, per ottenere l’accertamento del diritto alla corresponsione del proprio trattamento economico senza l’applicazione delle misure di blocco previste dall’art. 9, comma 21, primo, secondo e terzo periodo, del d.l. n. 78 del 2010.
[15] Ciò appare in armonia con gli articoli 3, 119-144, 136, 219 e 282-284 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea (TFUE), con il Protocollo n. 12 sulla procedura per i disavanzi eccessivi e con il protocollo n. 13 sui criteri di convergenza allegato al TFUE.
[16] Punto 17 del considerato in diritto.
[17] Cfr. Jost ANGERER,“Un nuovo quadro per le politiche di bilancio”, 2014, su http://www.europarl.europa.eu/aboutparliament/it/displayFtu.html?ftuId=FTU_4.2.1.html
[18] Vedasi punto 1.5 del ritenuto in fatto della sentenza n. 178/2015.
[19] La Commissione tributaria provinciale di Reggio Emilia, con ordinanza emessa il 26 marzo 2011 e depositata in pari data, ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 81, commi 16, 17 e 18, del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112, convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 6 agosto 2008, n. 133, in riferimento agli artt. 3, 23, 41, 53, 77 e 117 della Costituzione.
Con le disposizioni impugnate è stato previsto – a decorrere dal periodo d’imposta successivo a quello in corso al 31 dicembre 2007 – un prelievo aggiuntivo, qualificato «addizionale» all’imposta sul reddito delle società di cui all’art. 75 del decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917 e successive modificazioni, pari al 5,5 per cento, da applicarsi alle imprese operanti in determinati settori, tra cui la commercializzazione di benzine, petroli, gas e oli lubrificanti, che abbiano conseguito ricavi superiori a 25 milioni di euro nel periodo di imposta precedente, ponendo a carico dei soggetti passivi il divieto di traslazione sui prezzi al consumo (…).
[20] Cfr. Giulio M. SALERNO, “La sentenza n. 70 del 2015: una pronuncia non a sorpresa e da rispettare integralmente”, 2015, su http://www.federalismi.it/nv14/articolo-documento.cfm?Artid=29549
[21] Cosiddetta tecnica argomentativa “ad ignorantiam”: “una fallacia logica che si registra nei casi in cui si accetta una conclusione appellandosi illegittimamente all’ignoranza, ossia al fatto che una dimostrazione non si riesce a dimostrare come falsa; ma non per questo è da ritenersi vera”. Cfr. Domenico MASSARO, Questioni di verità, Napoli, 2005, pag. 194.
[22] Che parla di “argomento suggestivo”.
[23] Al predetto punto 14.1 del considerato in diritto.
[24] Che da funzionario pubblico vive la difficilissima realtà della crescente carenza di risorse umane disponibili.
[25] Verosimilmente ed auspicabilmente inavvertitamente.
[26] Per l’utilizzo di tale terminologia Cfr. Conferenza stampa del Presidente Francesco SAJA, “La giustizia costituzionale nel 1989”, su http://www.cortecostituzionale.it/documenti/download/pdf/Saja_confstampa160190.pdf
[27] “Melius est reprehendant nos grammatici quam non intelligant populi”, ossia “è meglio che i grammatici biasimino noi, piuttosto che la gente non comprenda”, Enarrationes in Psalmos (“Esposizioni sui salmi”) (138, 20) di Sant’Agostino.
[28] Cfr. Ilenia MASSA PINTO, “La sentenza della Corte Costituzionale n. 10 tra irragionevolezza come conflitto logico interno alla legge e irragionevolezza come eccessivo sacrificio di un principio costituzionale: ancora un caso di ipergiurisdizionalismo costituzionale” su http://www.costituzionalismo.it/download/Costituzionalismo_201501_502.pdf
[29] Finalizzata a limitare l’effetto retroattivo delle sentenze allo scopo di evitare che alcune pronunce, se operative su tutti i rapporti non ancora esauriti, producano danni così rilevanti da porre in secondo piano gli effetti di giustizia innovati dalla dichiarazione di incostituzionalità (cfr. sentenza n. 266/1988 e n. 50/1989). Cfr. http://www.cortecostituzionale.it/documenti/relazioni_internazionali/Parigi201304_Silvestri.pdf
[30] Così Antonio RUGGERI, “La Corte Costituzionale e la gestione sempre più “sregolata” dei suoi processi. Nota minima alla sentenza della Consulta n. 178 del 2015” su http://www.giurcost.org/decisioni/2015/0178s-15.html
[31] “Dichiara l’illegittimità costituzionale sopravvenuta, a decorrere dal giorno successivo alla pubblicazione di questa sentenza nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica e nei termini indicati in motivazione, del regime di sospensione della contrattazione collettiva, risultante da: art. 16, comma 1, lettera b), del decreto-legge 6 luglio 2011, n. 98 (Disposizioni urgenti per la stabilizzazione finanziaria), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 15 luglio 2011, n. 111, come specificato dall’art. 1, comma 1, lettera c), primo periodo, del d.P.R. 4 settembre 2013, n. 122 (Regolamento in materia di proroga del blocco della contrattazione e degli automatismi stipendiali per i pubblici dipendenti, a norma dell’articolo 16, commi 1, 2 e 3, del decreto-legge 6 luglio 2011, n. 98, convertito, con modificazioni, dalla legge 15 luglio 2011, n. 111); art. 1, comma 453, della legge 27 dicembre 2013, n. 147 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – Legge di stabilità 2014) e art. 1, comma 254, della legge 23 dicembre 2014, n. 190 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – Legge di stabilità 2015).”.
[32] Di cui, per memoria, si riporta il testo: “La sentenza che dichiara l’illegittimita’ costituzionale di una legge o di un atto avente forza di legge dello Stato o di una Regione, entro due giorni dal suo deposito in cancelleria, e’ trasmessa, di ufficio, al Ministro di grazia e giustizia ed al Presidente della Giunta regionale affinche’ si proceda immediatamente e, comunque, non oltre il decimo giorno, alla pubblicazione del dispositivo della decisione nelle medesime forme stabilite per la pubblicazione dell’atto dichiarato costituzionalmente illegittimo.
La sentenza, entro due giorni dalla data del deposito, viene, altresi’, comunicata alle Camere e ai Consigli regionali interessati affinche’, ove lo ritengano necessario, adottino i provvedimenti di loro competenza.
Le norme dichiarate incostituzionali non possono avere applicazione dal giorno successivo alla pubblicazione della decisione.
Quando in applicazione della norma dichiarata incostituzionale e’ stata pronunciata sentenza irrevocabile di condanna, ne cessano la esecuzione e tutti gli effetti penali.”
[33] Sul punto, cfr. E. CHELI, “Il giudice delle leggi. La Corte Costituzionale nella dinamica dei poteri”, Bologna, 1996.
[34] Che non a caso tende ad evitare il più possibile l’emanazione delle cosiddette “norme interpretative”.
[35] Lo scrivente fa riferimento ad sua esperienza di legistica in materia di concertazione interministeriale presso la Presidenza del Consiglio dei ministri – Funzione pubblica.
[36] Così, lucidamente, Agatino LANZAFAME, “La limitazione degli effetti retroattivi delle sentenze di illegittimità costituzionale tra tutela sistemica dei principi costituzionali e bilanciamenti impossibili. A margine di Corte Costituzionale n. 10/2015.” su http://www.rivistaaic.it/la-limitazione-degli-effetti-retroattivi-delle-sentenze-di-illegittimit-costituzionale-tra-tutela-sistemica-dei-principi-costituzionali-e-bilanciamenti-impossibili-a-margine-di-corte-costituzionale-n-10-2015.html
[37] Per approfondimenti, cfr. G.A. FERRO, “Modelli processuali ed istruttoria nei giudizi di legittimità costituzionale”, Torino, 2012, pag. 192 ss..
[38] Per dirla con Ilenia MASSA PINTO, di cui si riporta per la bibliografia di approfondimento la nota n. 19 dell’ Op. cit..: “Per tutti cfr. G. Zagrebelsky – V. Marcenò, Giustizia costituzionale, cit., p. 346: «Non spetta alla decisione della Corte disporre circa le conseguenze della declaratoria di incostituzionalità: la Corte si occupa della “dichiarazione” di illegittimità di una disposizione, ma non può “gestire” gli effetti che ne conseguono, né estendendoli né circoscrivendoli». Nel medesimo senso v. E. Malfatti – S. Panizza – R. Romboli, Giustizia costituzionale, Giappichelli, Torino, 2013, pp. 140-141.
Contra A. Celotto – F. Modugno, La giustizia costituzionale, in F. Modugno (a cura di), Diritto pubblico, Giappichelli, Torino, 2012, p. 719, secondo i quali «il contrasto con il sistema risultante dagli artt. 136 Cost., 1, legge cost. n. 1/1948 e 30, legge n. 87/1953 può essere superato se si ammette che alla Corte non è precluso di circoscrivere alle norme diacronicamente ricavabili dagli enunciati la dichiarazione di incostituzionalità».”.
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