giovedì, Novembre 21, 2024
HomeNewsLa corruzione come ingiustizia relazionale

La corruzione come ingiustizia relazionale

di Paola Maria Zerman, Avvocato dello Stato

  1. Il perché del titolo

Iniziare un Master in “esperto in anticorruzione” con un incontro sulla corruzione come “ingiustizia relazionale”, ha, nel mio intento, un preciso scopo e significato. Quello, cioè, di cercare di comprendere come mai nella attuale società ognuno di noi sia così sensibile alle piccole e grandi ingiustizie che riceve direttamente, e a cui reagisce non di rado sia con aggressività ed anche in via giudiziaria, mentre, al contrario, ha un alto grado di tolleranza nei confronti delle grandi ingiustizie che, come cittadino, subisce a seguito di episodi corruttivi.

  • I danni determinati dalla corruzione

Nessuno mette in dubbio che il prezzo della corruzione è assai alto per tutti i cittadini. Un appalto truccato, un concorso pilotato, delle spese sanitarie gonfiate… tutto questo si ripercuote non solo in un danno alla concorrenza, alla esclusione delle imprese oneste e competitive, e nell’esclusione dei meritevoli dalla cerchia dei raccomandati. Ma anche nella inevitabile cattiva qualità dei servizi, nelle strade malfatte o nei ponti che crollano, visto che il prezzo della corruzione deve essere comunque assorbito dal privato attraverso prestazioni più scadenti, mettendo, come è successo, più sabbia nel cemento e attraverso altri e vari accorgimenti che determinano un generale decadimento dei servizi e delle opere pubbliche.

3…perché la rassegnazione?

Eppure, nonostante questa consapevolezza, l’italiano medio è sostanzialmente rassegnato, come se la cosa, in qualche modo, riguardasse altri, un fenomeno inevitabile, ma fondamentalmente lontano, certo fino a che non si è toccati di persona. Ritengo che un corso sulla corruzione, che vuole essere approfondito, e che non si fermi all’esame della tecnica giuridica che il legislatore ha posto in essere per contrastare la corruzione, debba saper cogliere anche alcuni aspetti di natura antropologica e filosofica che giustifichino questa sorta di impassibilità collettiva di fronte all’esteso fenomeno corruttivo in Italia, con la conseguente poca reattività se non anche indifferenza.

4.Un primo punto di ricostruzione: la sensibilità individuale all’ingiustizia

Una precedenza non rispettata, un torto subito in macchina o in banca o al supermercato da chi salta la fila, o un’ingiustizia nel lavoro, un atto di mobbing, o fatti più gravi, segnano la vita e le giornate di ognuno di noi.

Come affermava Aristotele, “la multiformità dell’ingiustizia mette in evidenza la multiformità della giustizia[1] osservazione molto profonda, a mio modo di vedere, perché solo quando si subisce un’ingiustizia ci si rende conto di quanti siano gli aspetti che la giustizia tocca nei rapporti interpersonali. E l’esperienza dell’ingiustizia è primordiale per la persona. Anche il bambino piccolo, di fronte ad una punizione che ritiene non meritata, esclama “E’ un’ingiustizia!” mettendo in evidenza quanto grande sia la sensibilità individuale a quell’elemento regolatore dei rapporti interpersonali che è appunto la giustizia.

Già i Romani avevano approfondito il concetto di giustizia come qualità fondamentale nel dinamismo relazione intersoggettivo, che si concretizza nella definizione di Ulpiano passata alla storia. “La giustizia è la volontà costante e perpetua di attribuire a ciascuno il suo diritto”, il cosiddetto unicuique suum tribuere, che costituisce la base di tutto il diritto romano, patrimonio di civiltà su cui si basano gli odierni ordinamenti giuridici.

5. Unicuique suum tribuere

Secondo Cicerone, “vi sono due specie di ingiustizia : l’una di quelli che arrecano ingiustizia: l’altra di quelli che, pur potendolo fare, non allontanano l’ingiuria da coloro cui è stata fatta[2]”.

Come ben ricordato da Pieper “la giustizia è qualcosa che viene dopo: prima della giustizia c’è il diritto[3]. E’ la lesione di un diritto che provoca un danno e che è alla base dell’obbligo di risarcimento in diritto civile, sia nell’ipotesi della violazione di un diritto di credito che di un diritto assoluto, reale o della persona (art. 2043 c.c.).

Come ben noto, ormai da tempo la giurisprudenza prima e il legislatore poi, ha riconosciuto il diritto al risarcimento anche in caso di lesione non già di diritti soggettivi, ma di interessi legittimi, nei confronti della Pubblica Amministrazione. L’enorme mole di contenzioso sia civile che amministrativo, sta a dimostrare l’elevato indice di litigiosità degli italiani.

Tuttavia, quella di cui abbiamo parlato si riferisce all’esempio più semplice e diretto di ingiustizia, che determina una reazione del singolo non solo a livello emotivo psicologico, ma anche di tutela giudiziaria assicurata dall’ordinamento giuridico.

Ma la riconduzione dell’ingiustizia, così come scritto da Cicerone, non solo in relazione a situazione di sopraffazione nei confronti del singolo, ma anche di omissione da parte di chi era in grado di impedire il danno, spinge a riflettere su un più ampio ambito di esercizio della giustizia, che è quello conseguente all’appartenenza del singolo ad una più ampia comunità, la polis, nel quale vengono in continuazione intessuti rapporti e relazioni di collaborazione e interazione tra i cittadini.

6. L’appartenenza del cittadino alla polis e il concetto di bene comune

Come ben noto, secondo la concezione dell’antica Grecia, “avere parte” della comunità voleva dire possedere la “politeia” (la cittadinanza) della polis. L’ unione di intenti e aspirazioni, il sentimento di un comune destino e di una comune giustizia, l’orgoglio e la coscienza di appartenere a una società unica, che tutti avevano contribuito, da generazioni, a formare e che sarebbe rimasta un modello ineguagliato nei secoli. Concetto questo sviluppato anche nell’ordinamento romano e ben presente nei pensatori dell’epoca da Cicerone, a Seneca. Esso si basa sulla natura sociale dell’essere umano che, in quanto persona, non si concepisce al di fuori di una rete di relazioni e di corpi sociali strutturati.

Il concetto di bene comune indica il bene della collettività e delle singole persone, di tutti e di ciascuno, un bene che è collettivo e individuale al tempo stesso. Il bene comune è al di sopra degli interessi particolari e degli egoismi corporativi.

Il bene comune non consiste nella semplice somma dei beni particolari di ciascun soggetto del corpo sociale. Essendo di tutti e di ciascuno è e rimane comune, perché indivisibile e perché soltanto insieme è possibile raggiungerlo, accrescerlo e custodirlo, anche in vista del futuro.

In questa prospettiva, il concetto di munus e cioè di funzione legata ad un ruolo pubblico, assurge per i romani e i greci un connotato di alto valore morale, a cui sono chiamati i migliori e che deve essere svolto con la massima integrità nella logica del servizio al cittadino. Nella Repubblica di Platone, come noto, sono i filosofi coloro che devono avere le massime potestà di governo, per guidare il popolo verso il bene e la verità.

7. Il superamento del concetto di bene comune, l’”homo homini lupus” di Hobbes

L’espressione riportata in rubrica, attribuita a Plauto, è stato ripresa nel XVII secolo dal filosofo inglese Thomas Hobbes. Secondo Hobbes, la natura umana è fondamentalmente egoistica, e a determinare le azioni dell’uomo sono soltanto l’istinto di sopravvivenza e quello di sopraffazione. Egli nega che l’uomo possa sentirsi spinto ad avvicinarsi al suo simile in virtù di un amore naturale. Se gli uomini si legano tra loro in amicizie o società, regolando i loro rapporti con le leggi, ciò è dovuto soltanto al timore reciproco.

Nello stato di natura, cioè uno stato in cui non esista alcuna legge, ciascun individuo, mosso dal suo più intimo istinto, cercherebbe quindi di danneggiare gli altri e di eliminare chiunque sia di ostacolo al soddisfacimento dei propri desideri. Ognuno vedrebbe nel prossimo un nemico. Da ciò deriva che un tale stato si trovi in una perenne conflittualità interna, in un continuo bellum omnium contra omnes, nel quale non esiste il torto o la ragione che solo la legge può distinguere, ma unicamente il diritto di ciascuno su ogni cosa, anche sulla vita altrui.

In questa prospettiva, il patto sociale non sorge in virtù della reciproca appartenenza ad una societas , in cui tutti si sentono responsabili di tutto, ma dall’egoistica concessione di spazi di libertà, da parte degli individui, per avere tutelati e garantiti determinati beni, tra cui la sicurezza e la tutela dei diritto (il c.d. contratto sociale).

In questa prospettiva, entra a far parte della stessa cultura, un’impostazione individualista, che pone al centro del diritto l’individuo e le sue necessità, e solo in secondo piano l’appartenenza della persona alla comunità.

Non solo un’impostazione filosofica, ma anche eventi storici che hanno segnato la vita del nostro Paese, hanno determinato una cultura del sospetto nei confronti dello Stato e della cosa pubblica, distorcendo anche la visuale di quello che deve essere la funzione pubblica sia politica che amministrativa, e aprendo la strada a visioni egoistica, dirette a sfruttare la cosa pubblica, più che a servirla.

8. L’epoca di “mani pulite” e la emersione di un clima culturale di sfruttamento della funzione pubblica per fini personali ed egoistici

Il periodo dell’inchiesta di “mani pulite”, cui solo accenno, ha fatto emergere nella sua gravità e vastità un fenomeno politico e culturale di asservimento della funzione pubblica a scopi personali ed egoistici, rendendo evidente, come ha affermato che la vera questione politica in questo paese è la “questione morale”[4].

Analogamente, tutti i giuristi e gli studiosi del fenomeno corruttivo, emerso con prepotenza in quell’occasione, ma non certo esauritosi con l’inchiesta, hanno sentito la necessità di evidenziare come la corruzione può essere prima di tutto combattuta con un diverso atteggiamento culturale, con un superamento di una logica egoistica per recuperare il senso dell’appartenenza ad una società collettiva, dove ognuno è responsabile di tutti.


[1] Cit. in J. Pieper “la giustizia”- Morcelliana 2000, pag. 26

[2] Cicerone, “I doveri”, Rizzoli par. 24

[3] Pieper cit- pag. 30

[4] Così

LASCIA UN COMMENTO

Per favore inserisci il tuo commento!
Per favore inserisci il tuo nome qui

ARTICOLI RECENTI