di Salvatore Sfrecola
Il Governo, si sente dire da tempo, preoccupato per “la paura della firma” che sarebbe diffusa tra i pubblici funzionari, vorrebbe escludere, in caso di danno erariale, la punibilità dei fatti dovuti a “colpa grave”. In pratica la Corte dei conti potrebbe giudicare solamente i casi di dolo, cioè i danni conseguenza di un illecito penale. È vero che la giurisprudenza del giudice contabile conosce il cosiddetto “dolo contrattuale”, in pratica la condotta in violazione di un obbligo di legge, ma la strada è irta di ostacoli, perché occorre sempre un danno all’erario evidente e quantificabile. Quel dolo sembra troppo una sanzione.
Così la Corte affila le sue armi e il suo Presidente, Angelo Buscema, porta in Consiglio di Presidenza, l’organo di autogoverno della magistratura contabile, il testo di una lettera al Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, al quale spiega le ragioni per le quali sarebbe gravissimo escludere la responsabilità di coloro i quali hanno causato un danno con quella negligenza che i giuristi romani definivano “nimia” (eccessiva, smodata) specificando che culpa lata (cioè la colpa grave) id est non Intelligere quod omnes intelligunt (Ulpiano). Anche chi non conosce la lingua di Cicerone comprendere che parliamo di una gravissima negligenza, di una trascuratezza non scusabile. Ed è quella che avendo prodotto un rilevante pregiudizio alla finanza e/o al patrimonio pubblico fa scattare l’obbligo del risarcimento. Per intenderci, una spesa non dovuta o eccessiva, l’acquisto di un bene non necessario, una minore entrata (per chi fosse complice di evasori fiscali), un danno al patrimonio, in particolare a quello storico artistico, come nel caso di chi favorisse con sue omissioni il furto o il deterioramento di un bene o mancasse di intervenire per evitare il crollo di un immobile o di una cinta muraria carica di memorie storiche la cui manutenzione sia stata colposamente trascurata nel tempo.
Insomma, eliminando l’ipotesi di responsabilità per colpa grave lo Stato e gli enti pubblici dovrebbero tenersi i danni compiuti da amministratori e dipendenti disonesti o incapaci, autori di fatti o di omissioni caratterizzati da quella grave trascuratezza che da sempre è stata punita. Sarebbe, infatti, impossibile perseguire gli sprechi che l’opinione pubblica denuncia quotidianamente e che indigna i cittadini onesti.
Nella sua lettera a Mattarella, che in più occasioni ha dimostrato speciale attenzione per la magistratura contabile, Angelo Buscema, ha spiegato le ragioni del disagio dei magistrati contabili. E facendo riferimento alle notizie che, informalmente, indicano in un prossimo decreto legge (che Mattarella dovrebbe emanare su deliberazione del Consiglio dei ministri) l’abolizione della colpa grave quale elemento costitutivo della responsabilità amministrativa, ha voluto ribadire, riferendo ai Colleghi il senso della sua lettera, “che un’attività amministrativa gravemente negligente o imprudente implica sempre un dispendio di risorse pubbliche con conseguente violazione dei principi basilari di buon andamento della Pubblica Amministrazione, di sana gestione finanziaria e di equilibrio di bilancio”. Ed ha aggiunto, con riferimento ad una opinione diffusa in sede politica e amministrativa, che “l’incertezza in cui operano i funzionari pubblici non può essere imputata alla Corte dei conti, ma discende, piuttosto, da una certa farraginosità e contraddittorietà di testi normativi, circostanza di cui, comunque, la magistratura contabile tiene conto ai fini dell’esclusione della colpa grave o, eventualmente, ai fini dell’esercizio del potere riduttivo”. Cioè con limitazione dell’ammontare del risarcimento a carico del responsabile del danno che la Corte può decidere di applicare, tenendo conto delle condizioni nelle quali ha operato, che non escludono la responsabilità ma la riducono.
Buscema riferisce di aver segnalato al Capo dello Stato che “l’abolizione della colpa grave e la configurabilità della responsabilità amministrativa soltanto nelle ipotesi di dolo potrebbe indurre funzionari pubblici a tenere una condotta negligente o imprudente, confidando sul fatto che la colpa grave impedirebbe la possibilità di ravvisare la responsabilità. Si creerebbe così un’area di immunità in contrasto con i principi costituzionali”.
Il tema ricorre frequentemente su questo giornale, che costantemente segue le vicende della Pubblica Amministrazione segnalando tanto le buone pratiche (poche) quanto le gravi inefficienze (purtroppo tante) che pesano sui cittadini e sulle imprese. Anche di recente abbiamo segnalato il basso livello professionale diffuso in molte amministrazioni in ragione di una dissennata politica del personale che ha “promosso”, senza concorsi e prove selettive con sistemi di automatico passaggio a livelli superiori, una grande quantità di pubblici dipendenti. Inquadrati per grazia ricevuta questi non sono in condizione di gestire pratiche di una certa importanza e manifestano timore per il reato di abuso d’ufficio e per la responsabilità erariale e vanno a lamentarsi dai politici sostenendo che non firmano per paura del giudice penale e della Corte dei conti. Chi li ascolta, una classe politica di una modestia mai vista prima, crede nelle lamentazioni dei loro collaboratori e si convince che l’inefficienza non sta nelle leggi spesso incomprensibili e nella scarsa preparazione professionale di molti pubblici dipendenti ma nello spauracchio dei giudici. E così il Governo si appresterebbe a realizzare una nuova area di impunità che non esiste in nessun ordinamento amministrativo nei paesi più sviluppati, di fatto favorendo l’inefficienza che, a parole, molti vorrebbero combattere.