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Quando si trasmette agli eredi il debito a seguito di condanna della Corte dei conti

Quando si trasmette agli eredi il debito a seguito di condanna della Corte dei conti

 

La trasmissibilità agli eredi del debito conseguente alla condanna del pubblico amministratore o dipendente in sede di giudizio per responsabilità amministrativa dinanzi alla Corte dei conti: problematiche sulla giurisdizione.

di Antonio Vetro, Presidente on. della Corte dei conti

  • Cenni sulla normativa in materia.

L’art. 58, comma 4, della legge n. 142/1990 ha disposto che “la responsabilità nei confronti degli amministratori e dei dipendenti dei comuni e delle province è personale e non si estende agli eredi”.

Successivamente, l’art. 1 della legge n. 20/1994 ha statuito, in via generale, che “la responsabilità dei soggetti sottoposti alla giurisdizione della Corte dei conti in materia di contabilità pubblica è personale. Essa si estende agli eredi nei casi di illecito arricchimento del dante causa e di conseguente indebito arricchimento degli eredi”.

La norma è stata riformulata con l’art. 1, comma 4, del d.l. n. 543/1996, convertito nella legge n. 639/1996, secondo cui: “la responsabilità dei soggetti sottoposti alla giurisdizione della Corte dei conti in materia di contabilità pubblica è personale. Il relativo debito si trasmette agli eredi …”

Quindi, mentre nella precedente formulazione si estendeva agli eredi la responsabilità, nel testo vigente si trasmette agli eredi il relativo debito. Tale modifica risulta in linea con il riconoscimento del principio della personalità della responsabilità contabile, affermato nella stessa norma.

In conclusione, in deroga al sistema vigente in campo civilistico, l’erede risponde del debito riconosciuto in sede di giurisdizione contabile, conseguente al fatto dannoso provocato dal dante causa alle finanze pubbliche, solo in caso di indebito arricchimento.

 

2) La giurisprudenza della Corte costituzionale.

Ordinanza n. 475/1991: la Corte cost. ha stabilito che, in sede di giudizio contabile, il principio della responsabilità personale degli amministratori e dipendenti comunali e provinciali e della non estensibilità agli eredi, previsto della legge 8 giugno 1990, n. 142, è sancito in una norma di diritto sostanziale, e non di diritto processuale, per cui questa non è fornita di efficacia retroattiva.

Sentenza n. 383/1992: la Corte cost. ha precisato che la legge n. 142/1990 “non ha modificato la natura della responsabilità amministrativa, che è e rimane una figura della responsabilità per danni da fatto illecito” (e non della responsabilità sanzionatoria-pubblicistica), “ma ha inteso soltanto introdurre una <speciale deroga> al principio della successione degli eredi nei debiti del defunto. … La deroga significa principalmente che i beni del de cuius si trasmettono agli eredi dell’amministratore o del dipendente liberi dal vincolo di responsabilità da cui, prima dell’apertura della successione, erano astretti per il soddisfacimento del credito risarcitorio spettante all’ente. Sotto questo aspetto la norma non appare giustificata. Non si vede per quale ragione la responsabilità amministrativa degli amministratori e dei dipendenti delle province e dei comuni non si trasferisce agli eredi almeno nei limiti del valore dei beni ereditari, con la conseguenza che, in virtù dell’evento fortuito della morte del responsabile del danno prima dell’esercizio dell’azione di responsabilità, la corrispondente voce passiva del suo patrimonio si converte in un vantaggio dei suoi successori. Un simile privilegio non può fornire un utile termine di confronto ai fini dell’art. 3 Cost. É insegnamento costante di questa Corte che il principio di eguaglianza non può essere invocato quando la disposizione di legge da cui è tratto il tertium comparationis ha natura di norma derogatoria a una regola generale. In questo caso la funzione del giudizio di legittimità costituzionale alla stregua dell’art. 3 Cost. non può essere se non il ripristino della disciplina generale, ingiustificatamente derogata da quella particolare, non l’estensione ad altri casi di quest’ultima, la quale aggraverebbe, anziché eliminare, il difetto di coerenza del sistema normativo”.

 

Ordinanza n. 120/1998: la Corte cost. – sulla questione di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 1, della legge n. 20/1994, nella parte in cui esclude, al di fuori dei casi di illecito arricchimento del dante causa e di conseguente indebito arricchimento degli eredi, che la responsabilità si trasmetta a questi ultimi, sollevata dalla Corte dei conti, nel corso di un giudizio di responsabilità amministrativa, in riferimento agli artt. 3 e 97 della Costituzione – ha disposto la restituzione degli atti al giudice rimettente per un nuovo esame sulla rilevanza della questione sollevata, considerato che la legge n. 639 del 1996 ha ridefinito la disciplina della materia della responsabilità amministrativa, anche sotto il profilo dei limiti alla trasmissibilità del debito relativo agli eredi e, quindi, innovato ulteriormente il quadro normativo oggetto di scrutinio nell’ordinanza di rimessione.

 

3) La giurisprudenza della Cassazione.

Sentenza n. 14178/2004: la Cass, S.U. ha stabilito che la Corte dei conti ha giurisdizione anche sulle controversie riguardanti il risarcimento del danno erariale nei confronti degli eredi del pubblico funzionario responsabile, a carico dei quali, ai sensi dell’art. 1, comma primo, della legge n. 20/1994, come modificato dall’art. 3 del d.l. n. 543/1996, viene posto, in forza di un meccanismo successorio, il debito sorto in capo al de cuius che abbia conseguito un illecito arricchimento dal quale sia derivato un indebito arricchimento degli eredi stessi. Infatti la Corte dei conti è il giudice naturale cui compete l’accertamento giurisdizionale del presupposto della trasmissione jure hereditatis dell’obbligazione risarcitoria, ossia della sussistenza della responsabilità amministrativa a carico del de cuius, tenuto conto che la pretesa erariale nei confronti degli eredi non si fonda su un fatto costitutivo autonomo, ma sul medesimo debito risarcitorio sorto in capo al de cuius, pur essendo la successione nello stesso condizionata all’ulteriore presupposto del duplice arricchimento.

 

Sentenza n. 7578/2006: la Cass. S.U. ha ricordato che la giurisprudenza delle Sezioni unite della Corte è univoca nell’enunciare il principio secondo il quale, quando sia posta in esecuzione una sentenza di condanna della pubblica amministrazione, ancorché pronunciata da un giudice speciale, viene introdotta sempre una controversia avente per oggetto un diritto soggettivo, la cui tutela, in fase esecutiva ed al fine della decisione sulle opposizioni ivi proposte, non può che competere al giudice ordinario, senza che rilevi la possibilità della proposizione del giudizio di ottemperanza davanti al giudice amministrativo, trattandosi di rimedio complementare, che si aggiunge al procedimento di esecuzione previsto dal codice di rito, spettando poi alla libera scelta del creditore l’utilizzazione dell’uno o dell’altro. Donde il corollario che tutte le questioni concernenti il problema se esista o meno un titolo esecutivo, o se il credito sia o meno liquido ed esigibile, può riguardare soltanto la legittimità dell’esecuzione ai sensi dell’art. 615 c.p.c., ma non la giurisdizione, la quale è attribuita sempre al giudice ordinario nell’esecuzione forzata per crediti di somme di denaro, qualunque sia l’origine di questi e senza che a siffatto principio si sottragga la pubblica amministrazione debitrice. Pertanto, la controversia non è devoluta a giudici diversi da quello ordinario, versandosi sempre nell’area del controllo dei limiti interni del potere giurisdizionale, anche nell’evenienza che il giudice dell’esecuzione, interpretando erroneamente il titolo esecutivo, attribuisca beni della vita che solo un giudice speciale avrebbe potuto riconoscere, non differenziandosi, in tal caso, l’errore da quello che potrebbe essere commesso nell’interpretare una sentenza dello stesso giudice ordinario.

 

Sentenza n. 4432/2008: la Cass. Sez. I ha esaminato un ricorso della P.A. su una causa intentata dagli eredi per sentir dichiarare l’illegittimità dell’iscrizione a ruolo a loro carico di un debito del de cuius, richiesta accolto con sentenza dalla Corte d’appello, tenuto conto che, nella specie, non vi era stato alcun illecito arricchimento del pubblico funzionario, derivando la sua responsabilità dal mancato recupero di un credito erariale che si era prescritto. Tale sentenza veniva impugnata dalla Avvocatura dello Stato, la quale sosteneva che avrebbe dovuto essere affermata la trasmissibilità del debito in contestazione poiché esso era già stato accertato con sentenza definitiva del giudice contabile ed era perciò entrato nel patrimonio del funzionario prima del suo decesso. Al riguardo la suprema Corte ha respinto il ricorso dell’Amministrazione poiché “anche quando il debito del pubblico dipendente sia stato accertato con sentenza passata in giudicato, e non sia perciò più contestabile, la trasmissibilità agli eredi dell’obbligazione derivante dalla responsabilità contabile del pubblico dipendente si verifica, pur sempre, solo nei casi in cui il comportamento sanzionato abbia arrecato non solo un danno all’erario ma abbia prodotto anche un arricchimento indebito del dipendente. Ne consegue che, quando non sia rimasta accertata tale circostanza nel giudizio dinanzi al giudice contabile – il quale continua nei confronti degli eredi – la definitività dell’obbligazione del pubblico dipendente resta strettamente personale e si estingue con la sua morte senza incidere negativamente sulla successione degli eredi. E, poiché nella specie il comportamento imputato al funzionario non ha prodotto, per la sua natura, alcun vantaggio economico per lo stesso che sia trasmissibile agli eredi, deve escludersi la responsabilità degli attori, come correttamente statuito dalla sentenza impugnata”.

 

 

Sentenza n. 19280/2018: la Cass. S.U. ha esaminato l’opposizione all’esecuzione di un credito per responsabilità contabile, vantato dalla P.A. nei confronti degli eredi di un pubblico funzionario condannato in via definitiva dalla Corte dei conti, opposizione accolta dalla Corte d’appello che aveva respinto la pretesa creditoria nei confronti di soggetti che avevano rinunziato all’eredità.

La Cassazione ha respinto l’eccezione dell’Amm.ne di difetto di giurisdizione basato sulla affermazione che il giudizio instaurato dagli opponenti era un giudizio di cognizione avente per oggetto l’esistenza dei presupposti legittimanti la trasmissibilità del debito risarcitorio e che l’opposizione ex art. 615 c.p.c. si promuove con citazione davanti al giudice competente per materia, valore o territorio, che dovrebbe essere individuato nel giudice contabile. Secondo la Cassazione, nel caso in esame, formatosi il titolo nei confronti del de cuius a seguito della sentenza definitiva della Corte dei conti, l’esattore ha direttamente notificato agli eredi le cartelle esattoriali, senza che vi fosse stato preventivo accertamento della esistenza della trasmissione del debito. La controversia instaurata dagli interessati per far constare di non essere eredi, avendo rinunciato all’eredità, è quindi causa di opposizione all’esecuzione volta a far valere l’assenza di un titolo esecutivo nei loro confronti. In tema di responsabilità amministrativa, anche quando il debito risarcitorio del pubblico dipendente sia stato accertato dal giudice contabile con sentenza passata in giudicato, la trasmissibilità agli eredi si verifica soltanto nei casi in cui il fatto illecito abbia procurato al dante causa un illecito arricchimento ed il conseguente indebito arricchimento degli eredi mentre, nel caso in esame, la mancanza di questo accertamento impone alla Corte, giudicando sull’asserito vizio attinente la giurisdizione, di rilevare che proprio l’assenza nei confronti dei pretesi eredi di un titolo debitamente formato in sede propria, prima dell’esecuzione, è la ragione che giustifica l’accoglimento dell’opposizione all’esecuzione ed esclude la configurabilità della giurisdizione contabile sull’opposizione stessa. Per l’accoglimento dell’opposizione era infatti sufficiente, preso atto della affermazione della rinuncia all’eredità, il riscontro dell’assenza di un titolo esecutivo formato nei loro confronti e quindi azionabile in via esecutiva. Era superfluo rilevare che non era stata data prova dell’arricchimento del dante causa e dell’indebito arricchimento dei pretesi eredi.

 

Sentenza n. 30856/2018: la Cass. Sez. III ha ribadito la giurisdizione del giudice ordinario nella opposizione all’esecuzione proposta dall’erede di chi sia stato condannato in sede contabile, che neghi l’esistenza di un titolo esecutivo immediatamente azionabile nei propri confronti, in mancanza del preventivo accertamento dell’arricchimento del de cuius e dell’arricchimento degli eredi, e la giurisdizione del giudice contabile sul necessario, preventivo accertamento della sussistenza dei presupposti per la trasmissibilità agli eredi della condanna al risarcimento danni da responsabilità contabile, in conformità del principio di diritto espresso da Cass. S.U. n. 19280 del 2018.

 

4) La giurisprudenza della Corte dei conti.

Numerose sono le sentenze del giudice contabile in materia: per esigenze di brevità ne verranno citate solo alcune, ritenute di rilievo o rappresentative dei più recenti indirizzi.

 

Sentenza n. 2/2001: le SS.RR. hanno precisato gli elementi che condizionano la trasmissione del debito agli eredi, elementi che vanno provati dal P.M. contabile, e, in primo luogo, l’illecito arricchimento del dante causa che si verifica quando il bene conseguito attraverso il comportamento illecito sia entrato nel patrimonio del soggetto e non di altri soggetti. Nei limiti dell’attivo ereditario l’illecito arricchimento costituisce indebito arricchimento per gli eredi. Questi, in via di eccezione, possono poi opporre eventuali fatti limitativi o escludenti sia l’illecito arricchimento del loro dante causa, sia il loro indebito arricchimento. In conclusione, sussiste l’onere del P.M. agente di provare il solo illecito arricchimento del dante causa, incombendo invece agli eredi, ex art. 2697 c.c. l’onere della prova contraria del loro conseguente indebito arricchimento.

 

Sentenza n. 358/2008: la Sez. I app. ha statuito che, in ipotesi di danno all’immagine, sia da escludere la trasmissibilità agli eredi del debito, non potendosi verificare, solo per questo profilo (lesione dell’immagine), l’arricchimento del dante causa, quale diretta conseguenza del pregiudizio sofferto dall’amministrazione pubblica.

Sentenza n. 6117/2017: la Sez. Lazio, dopo aver riconosciuto, per un convenuto, la carenza di legittimazione passiva per il venir meno della sua qualità di erede a seguito di rinunzia all’eredità, per altro convenuto ha precisato che la legittimazione passiva non può essere esclusa dall’avvenuta accettazione dell’eredità con beneficio d’inventario, in quanto tale beneficio non esclude la qualifica di erede ma limita soltanto la responsabilità, per cui, nei confronti di quest’ultimo, poteva pronunciarsi la condanna per l’intero del danno prodotto, una volta dimostrato l’indebito arricchimento, mentre l’accettazione con beneficio d’inventario rilevava solo nella fase dell’esecuzione, intra vires hereditatis. Nel merito la Sezione, dopo aver accertato l’illecito arricchimento del dante causa, ha ricordato i canoni affermati dalla giurisprudenza contabile per l’individuazione dell’indebito arricchimento degli eredi, con particolare riguardo: 1) alla presunzione iuris tantum e non iuris et de iure di tale arricchimento, con possibilità, per gli eredi, di fornire prova contraria, dimostrando la mancanza dell’arricchimento o del suo carattere antigiuridico (SS.RR. n. 1/1999 e n. 74/1996; Sez. II app., n. 214/2008); 2) alla circostanza che l’indebito arricchimento degli eredi non costituisca oggetto di prova da parte del requirente contabile, dovendosi ritenere che spetti agli aventi causa dimostrare che dall’illecito non sia derivato alcun loro vantaggio patrimoniale” (Sez. II app. n. 394/2006); 3)  alla circostanza che la ridotta consistenza patrimoniale dell’eredità relitta, ovvero il fatto che il de cuius abbia lasciato soltanto beni acquistati prima del suo illecito arricchimento, sono eventi inidonei a superare la presunzione di indebito arricchimento degli eredi, tenuto conto che, in presenza di un profitto illecito, anche un minor passivo ereditario configura il presupposto in questione, giacché quello che perviene agli eredi è pur sempre un patrimonio arricchito (Sez. II app., n. 947/2014).

Sentenza n. 360/2017: la Sez. Campania ha ribadito i principi affermati nella sentenza n. 6117/2017 della Sez. Lazio.

 

Sentenza n. 53/2018: la Sez. app. Sicilia ha sostenuto che non è sufficiente che il responsabile del danno erariale abbia, a suo tempo, dolosamente conseguito indebiti profitti ma è, altresì, indispensabile che, all’epoca della sua morte, il patrimonio rientrante nell’asse ereditario abbia oggettivamente una consistenza maggiore di quella che presumibilmente avrebbe avuto ove non vi fosse stato l’illecito arricchimento. Pur potendosi ipotizzare che il de cuius avesse tratto, a suo tempo, un illecito profitto personale dall’avvenuta percezione di contributi agricoli non spettanti, la Sezione ha ritenuto che non siano, tuttavia, ravvisabili validi elementi che dimostrino che, all’epoca della morte del dante causa, il patrimonio ricompreso nell’asse ereditario, devoluto ai suoi aventi causa, avesse assunto una consistenza maggiore per effetto del pregresso illecito arricchimento.

 

Sentenza n. 44/2019: la Sez. Sardegna ha esaminato il ricorso di un erede il quale ha chiesto che sia accertato che il debito risarcitorio a carico del dante causa, derivante dalla sentenza definitiva di condanna della Corte dei conti, non si è trasmesso agli eredi, e per l’effetto, che sia dichiarata l’inesistenza del diritto da parte della P.A. a procedere (anche con il tramite dell’Agenzia delle Entrate) ad esecuzione forzata nei confronti della stessa erede e, conseguentemente, che sia dichiarato nullo l’atto di intimazione di pagamento dell’Agenzia delle Entrate. La Sezione ha osservato che trattasi di giudizio ad istanza di parte inquadrabile tra quelli disciplinati dagli artt. 172-176 del codice della giustizia contabile, normativa che ripete sostanzialmente la previsione dell’art. 58, comma 1, del r.d. n. 1038/1933, alla quale veniva ricondotto il genus delle azioni di accertamento negativo di responsabilità e, nell’ambito di queste, le azioni proposte dagli eredi al fine di ottenere la declaratoria della insussistenza nei loro confronti delle condizioni legittimanti la trasmissione del debito risarcitorio accertato in capo al dante causa. La Sezione ha quindi reputato che la fattispecie rientri nella giurisdizione del giudice contabile, alla luce della giurisprudenza della Cassazione secondo cui il discrimine con la giurisdizione del giudice ordinario è individuato nella circostanza che si controverta o meno sull’assenza di un titolo esecutivo ed il ricorso all’esame – pur rubricato “ricorso in opposizione all’esecuzione ex art. 615 c.p.c. ed art. 173 cod. giustizia contabile …” – chiede di “accertare e dichiarare che il debito risarcitorio non si è trasmesso agli eredi” e, nei motivi di ricorso, si deduce l’inesistenza dei presupposti richiesti dalla legge per la trasmissione del debito all’erede della persona condannata dal giudice contabile. In conclusione, secondo la Sezione, nella fattispecie si tratta non di opposizione all’esecuzione ma di atto introduttivo di un giudizio di cognizione che verte sull’accertamento della sussistenza o meno dei presupposti richiesti dall’art. 1, comma 1, della legge n. 20 del 1994 per la trasmissibilità agli eredi del debito derivante da fattispecie di responsabilità amministrativa soggetta alla giurisdizione della Corte dei conti; giudizio di cognizione che – non diversamente dal giudizio concernente l’accertamento della sussistenza o meno dei presupposti per affermare la responsabilità amministrativa del de cuius – appartiene alla cognizione del giudice contabile (cfr. Cass. civ. S.U. n. 19280/2018, Cass. civ. Sez. III n. 308567/2018; C. conti, Sez. II centrale n. 676/2015 e n. 677/2015, Sez. app. Sicilia n. 90/2013 e n. 282/2012, Sez. giur. Puglia n. 996/2008).

 

5) Valutazioni sulla normativa in esame, alla luce della citata giurisprudenza.

A)Come si è visto, la Corte costituzionale ha espresso un giudizio estremamente critico sulla normativa riguardante la limitazione dei debiti ereditari per fatti illeciti produttivi di danno erariale.

Nella citata sentenza n. 383/1992 la Corte, dopo aver opportunamente rilevato che la legge n. 142/1990 “non ha modificato la natura della responsabilità amministrativa, che è e rimane una figura della responsabilità per danni da fatto illecito”, ha precisato che detta legge “ha inteso soltanto introdurre una <speciale deroga> al principio della successione degli eredi nei debiti del defunto”, sottolineando che “la norma non appare giustificata”. Infatti, “non si vede per quale ragione la responsabilità amministrativa non si trasferisce agli eredi almeno nei limiti del valore dei beni ereditari, con la conseguenza che, in virtù dell’evento fortuito della morte del responsabile del danno prima dell’esercizio dell’azione di responsabilità, la corrispondente voce passiva del suo patrimonio si converte in un vantaggio dei suoi successori”. La Corte parla quindi di “privilegio”, di “norma derogatoria a una regola generale … ingiustificatamente derogata da quella particolare”, e sottolinea che “l’estensione ad altri casi di quest’ultima (norma riguardante solo i soggetti incardinati nei comuni e nelle province) aggraverebbe, anziché eliminare, il difetto di coerenza del sistema normativo”.

Tanto precisato, il legislatore non ha tenuto in nessun conto l’insegnamento della Consulta, estendendo in via generale un inammissibile e ingiustificato “privilegio” a favore degli eredi di tutti i pubblici amministratori e dipendenti che hanno violato gli obblighi di servizio per illecita condotta produttiva di danno erariale, senza che sussista alcun motivo per il quale “la responsabilità amministrativa non si trasferisce agli eredi almeno nei limiti del valore dei beni ereditari”.

D’altra parte l’assoluto disinteresse per i contribuenti, sui quali, in ultima analisi, vengono a gravare le conseguenze di tali “privilegi”, è stato stigmatizzato più volte dallo scrivente: da ultimo, in occasione dell’entrata in vigore del c.d. codice di giustizia contabile, sul quale è stato osservato che la massima preoccupazione del legislatore delegato, in linea con il delegante, è stata quella di svilire gli interessi della collettività, ritenuti di rango inferiore rispetto a quelli dei singoli, come tutelati in sede civile, attraverso l’introduzione di una serie di disposizioni volte a rendere più arduo o addirittura a svuotare di contenuto il diritto al risarcimento del danno erariale azionato dal P.M. contabile. Così sono stati disposti, fra l’altro: l’interruzione del termine di prescrizione per una sola volta e per un periodo massimo di due anni, la possibilità di definire i giudizi con il pagamento di una somma di gran lunga inferiore a quella richiesta dal P.M., sino a poter diventare puramente simbolica, l’intangibilità dell’archiviazione, quasi che avesse la forza di giudicato, il divieto tassativo di chiamata in giudizio su ordine del giudice, in contrasto con il principio di integrazione di atti processuali ad opera del giudice previsto in altri riti (civile: artt. 164, secondo comma, e 182 cod. proc. civ.; penale: art. 507 cod. proc. pen.).

 

  1. B) Dall’esame della giurisprudenza del giudice contabile in materia risulta che assai spesso l’esecuzione delle sentenze di condanna da parte della P.A., invece di essere tempestiva, come d’obbligo, si protrae in tempi lunghi, con la conseguenza che, medio tempore, possa verificarsi il decesso del responsabile.

Orbene, nei casi di ritardo ingiustificato e di mancato recupero, a carico degli eredi, delle somme risarcitorie riconosciute in sentenza nei confronti del dante causa, il conseguente danno erariale dovrebbe essere posto a carico dei soggetti cui imputare la mancata, tempestiva esecuzione della sentenza di condanna.

  1. C) Come giustamente rilevato dalla Consulta, la disciplina di ingiustificato favore nei confronti degli eredi “ha natura di norma derogatoria a una regola generale” e, come tale, va interpretata in senso restrittivo. In proposito merita pieno accoglimento la tesi affermata in sede contabile, secondo cui l’illecito arricchimento del dante causa fa presumere l’indebito arricchimento dell’avente causa e la prova contraria ammessa a carico dell’erede, e non del P.M. contabile, deve essere valutata in modo estremamente rigoroso, trattandosi di un “privilegio”, secondo la terminologia assunta dalla Consulta, da riconoscere in limiti quanto più possibile ristretti. In particolare è da condividere la tesi accolta dalle Sezioni Lazio e Campania secondo cui la circostanza della ridotta consistenza patrimoniale dell’eredità relitta, ovvero il fatto che il de cuiusabbia lasciato soltanto beni acquistati prima del suo illecito arricchimento, sono eventi manifestamente inidonei a superare la presunzione di indebito arricchimento degli eredi, tenuto conto che, in presenza di un profitto illecito, anche un minor passivo ereditario configura il presupposto in questione, giacché quello che perviene agli eredi è pur sempre un patrimonio arricchito (Sez. II app., n. 947/2014).
  2. D) Occorre adesso esaminare la problematica sulla ripartizione della giurisdizione fra giudice ordinario e contabile. Per la generalità dei casi va riconosciuta la giurisdizione della Corte dei conti, “giudice naturale cui compete l’accertamento giurisdizionale del presupposto della trasmissione jure hereditatis dell’obbligazione risarcitoria” (sent. Cass. n. 14178/2004). Peraltro, quando sia posta in esecuzione una sentenza di condanna della pubblica amministrazione, ancorché pronunciata da un giudice speciale, viene introdotta sempre una controversia avente per oggetto un diritto soggettivo, la cui tutela, in fase esecutiva ed al fine della decisione sulle opposizioni ivi proposte, compete al giudice ordinario (sent. Cass. n. 7578/2006). Sul punto, va rilevato che in numerosi casi la P.A., in presenza di sentenze definitive di condanna per danno erariale a carico di soggetti, poi deceduti, ha notificato atti di esecuzione nei confronti degli eredi. Nella fattispecie esaminata dalla Cassazione con s n. 19280/2018 – a parte la carenza della qualità di erede per rinunzia all’eredità che rendeva superfluo ogni ulteriore accertamento – è stato precisato che la sentenza di condanna non aveva stabilito che il fatto illecito avesse procurato al dante causa un illecito arricchimento, da cui poteva derivare un indebito arricchimento degli eredi, per cui, nei loro confronti, risultava la carenza di un titolo debitamente formato in sede propria, prima dell’esecuzione, ciò che giustificava l’accoglimento dell’opposizione all’esecuzione, sulla cui statuizione doveva pronunziarsi il giudice ordinario e non il giudice contabile. In conclusione, ogni qual volta si è in presenza di una causa avverso un atto di esecuzione, non possono essere esaminate dal giudice ordinario questioni cognitorie per l’accertamento dei presupposti per la trasmissione in sede ereditaria dell’obbligazione del de cuius e, qualora sia adita la Corte dei conti, questa deve dichiarare il proprio difetto di giurisdizione, a favore del giudice ordinario. Per contro, va riconosciuta la giurisdizione del giudice contabile in tutti i casi in cui, in assenza di titolo esecutivo, si discuta sulla sussistenza o meno dell’illecito arricchimento del dante causa e del conseguente indebito arricchimento dell’erede.
  3. E) Non sussiste indebito arricchimento in tutti i casi in cui l’illecito sanzionato nella sentenza di condanna al risarcimento del danno erariale non abbia comportato un incremento patrimoniale a favore del pubblico amministratore o dipendente. Così, nel caso di vantaggi conseguiti da altri soggetti (sent. SS.RR. n. 2/2001) per l’azione illecita del condannato, come nelle ipotesi, purtroppo non infrequenti, di condanne per concorsi “truccati”, ovvero nel caso in cui la condanna derivi dal danno all’immagine della P.A. (sent. Sez. I n. 358/2008).
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