Convenzione europea, lotta al terrorismo e rispetto dei diritti fondamentali.
La CEDU di fronte alla ‘prova’ del radicalismo islamico.
La democrazia minacciata: strumenti di tutela dei cittadini e delle istituzioni.
di Jean Paul de Jorio*
Molto spesso e da più parti, si dà per scontato (e con una certa rassegnazione), che non vi siano efficaci strumenti normativi per affrontare l’Islam militante, e che l’Occidente debba in qualche modo perseguire una politica di appeasement, cercando così di disinnescare l’ostilità dei sodalizi fondamentalisti.
A ciò si aggiunga, che – inspiegabilmente – politici, organi di stampa, responsabili del comparto sicurezza e dell’intelligence, così come la magistratura, siano spesso dell’avviso che la tutela dei diritti umani non consenta d’intervenire (se non addirittura formalmente lo precluda) allorquando si è in presenza di condotte – anche non necessariamente violente – ad opera di affiliati ad organizzazioni islamiste.
Questa sorta di ‘lassismo’, di laisser faire, laisser passer, comunemente giustificato dalla necessità o l’ineluttabilità di (un’impossibile) integrazione, tuttavia non trova alcun fondamento giuridico, anzi è vero l’opposto.
Il testo della Convenzione europea ad esempio, così come l’indirizzo pretorio che si è consolidato negli anni da parte della Corte di Strasburgo, dimostrano invece che vi sono numerosi istituti giuridici a disposizione degli Stati, precipuamente diretti alla difesa delle istituzioni democratiche e dei cittadini da parte di gruppi che mirano invece al rovesciamento delle libertà fondamentali.
Una maggiore ‘consapevolezza’ di questo importante corpus juris – espressione di sintesi del comune patrimonio giuridico continentale – può senz’altro contribuire ad un efficace contrasto ad un fenomeno, quello del radicalismo islamico, che pare inarrestabile[1].
La norma primaria, espressione del principio di ‘democrazie che si difendono’, è rappresentata dall’art. 17 della CEDU che così testualmente recita: “Nessuna disposizione della presente Convenzione può essere interpretata nel senso di comportare il diritto di uno Stato, un gruppo o un individuo di esercitare un’attività o compiere un atto che miri alla distruzione dei diritti o delle libertà riconosciuti nella presente Convenzione o di imporre a tali diritti e libertà limitazioni più ampie di quelle previste dalla stessa Convenzione”.
Questa disposizione, come si evince dai lavori preparatori alla Convenzione[2], ebbe una ‘gestazione’ travagliata, e fu inserita nel testo definitivo, solo su insistenza della Grecia (coinvolta da anni in una sanguinosa guerra civile che opponeva il Governo ai comunisti) e della Turchia, che in piena ‘Guerra Fredda’, invocavano istanze di ‘legittima difesa’, così da evitare che movimenti sovversivi o comunque perseguenti finalità antidemocratiche potessero sopprimere i diritti dell’uomo proprio in virtù delle tutele accordate dalla Convenzione in corso di approvazione.
Il primo caso in cui trovò applicazione l’art. 17 della Convenzione scaturì dal ricorso proposto dalla leadership del Partito comunista della Germania Federale innanzi alla Commissione dei diritti dell’uomo, dopo che tale movimento era stato disciolto dalla Corte costituzionale tedesca[3].
Nel dichiarare inammissibile il gravame, la Commissione evidenziò, tuttavia, che la decisione del Giudice delle leggi tedesco era pienamente conforme alla ‘lettera ed allo spirito’ della Convenzione giacché il Partito comunista aveva come finalità dichiarate quella di “istituire la dittatura del proletariato”. Il presupposto per il raggiungimento di tale obiettivo era il rovesciamento dell’ordinamento democratico, e perciò l’organizzazione ed il ‘traguardo’ del partito costituivano un’attività incompatibile con il dettato dell’art. 17 della CEDU (non possono nascondersi le strette analogie tra chi in passato voleva imporre il regime comunista, e chi oggi, lo ‘Stato islamico’).
L’art. 17 della Convenzione può essere definito come ‘clausola di salvaguardia’ dell’ordinamento democratico, e seguendo l’approccio teleologico fatto proprio dalla Corte di Strasburgo è possibile enucleare la ratio della norma, il cui obiettivo primario è quello di impedire a singoli o gruppi di individui di fare appello alle tutele accordate dalla CEDU per distruggere lo Stato di diritto.
Principi quelli sopra enunciati sanciti nelle sentenze Lawless c. Irlanda e de Becker c. Belgio, in cui il giudice europeo ha evidenziato che l’art. 17 è stato formulato per la tutela dei diritti sanciti nella Convenzione, “per proteggere e garantire le istituzioni basate sulla democrazia”.
Sempre secondo la Corte, occorre tuttavia verificare se le misure adottate dai Governi rispondano al requisito di proporzionalità, imponendosi in proposito un’indagine ‘trifasica’ che si articola nell’accertamento: 1) dell’idoneità della misura allo scopo da raggiungere; 2) della necessità del provvedimento; 3) della ragionevolezza della stessa, rispetto allo scopo perseguito.
Indirizzo questo ribadito dalla Corte europea nella sua più recente giurisprudenza (Zdanoka c. Lettonia e ancor prima in Vogt c. Germania), che proprio sul punto ha evidenziato che “nessuno può essere autorizzato a basarsi sulle disposizioni della Convenzione al fine di indebolire o distruggere ideali e valori di una società democratica”.
Per quanto attiene le condotte idonee a distruggere (anche solo potenzialmente) le libertà tutelate dalla CEDU, si osserva che la casistica è molto ampia, tant’è che sono state ricondotte a tale fattispecie non solo condotte violente o aventi una rilevanza penale, ma anche avvisi pubblicitari[4], libri[5], scritti di vario genere[6], manifesti[7], nonché la stampa e la distribuzione di volantini[8], la costituzione di un’associazione[9], così come l’attività dei partiti politici[10], ritenuti a vario titolo – per il loro contenuto o programma – aventi finalità liberticide.
La dottrina maggioritaria ha in proposito evidenziato che “se un individuo pone in discussione i valori sottesi alla Convenzione, desumibili dal relativo preambolo ed intimamente legati al concetto di democrazia, il sistema si ritrae privandolo della relativa tutela”[11].
Di particolare interesse risultano poi una serie di pronunce relative all’applicabilità del divieto di abuso di diritto nell’ipotesi di scioglimento di partiti e movimenti politici.
Nelle sentenze Refah Partisi e altri c. Turchia e Herri Batasuna e Batasuna c. Spagna, la Corte ha affermato che in ossequio al dettato dell’art. 17, lo scioglimento di un partito, non contravviene alla libertà di associazione (tutelata dall’art. 11 della CEDU), giacché questa norma “non può privare le autorità di uno Stato, in cui un’associazione, attraverso le proprie attività, metta a repentaglio le relative istituzioni, del diritto di proteggere quest’ultime”[12].
Alla luce di quanto sopra, eventuali misure rivolte contro l’attività propagandistica e politica dei tanti gruppi islamisti che operano indisturbati sul nostro territorio (e che costituiscono la principale fonte oltre che del proselitismo, anche degli arruolamenti di jihadisti) riceverebbero il pieno avallo della giurisprudenza della Corte EDU in quanto assolutamente compatibili con la Convenzione.
Di rilievo, soprattutto in situazioni emergenziali, è l’articolo 15 della CEDU, che disciplina le deroghe in caso di urgenza.
Il diritto di deroga costituisce lo strumento più importante di cui dispongono gli Stati nell’ambito della Convenzione per fronteggiare pericoli particolarmente pregnanti per l’ordine pubblico e la sicurezza nazionale.
Gli aspetti procedurali che disciplinano questo istituto sono tuttavia stringenti giacché il Governo che intende adottare misure derogatorie rispetto ai diritti sanciti nella Convenzione EDU deve informare il Segretario Generale del Consiglio d’Europa delle motivazioni sottese alla deroga e del contenuto delle misure adottate (con l’intento dichiarato di evitare che il potere di sospensione possa essere utilizzato in maniera impropria o che i suoi presupposti siano interpretati estensivamente).
A ciò si aggiunga, che nonostante l’ampio margine di discrezionalità riconosciuto allo Stato nella scelta dei provvedimenti da adottare in situazioni ‘emergenziali’, il diritto di deroga ed il contenuto dei provvedimenti adottati in virtù della deroga stessa, sono pienamente sindacabili dalla Corte europea[13].
Tale controllo è tuttavia esercitabile solo a posteriori con la presentazione di un ricorso.
Venendo al contenuto della norma in parola, possiamo osservare che l’articolo 15 della Convenzione offre la possibilità agli Stati aderenti alla Convenzione di poter disattendere, in circostanze del tutto particolari, alle obbligazioni assunte a tutela dei diritti umani. Gli Stati contraenti possono dunque limitare all’interno del proprio territorio, il godimento dei diritti garantiti in presenza di “un pericolo pubblico che minacci la vita di una nazione” o in “caso di guerra”: “1. In caso di guerra o in caso di altro pericolo pubblico che minacci la vita della nazione, ogni Alta Parte contraente può adottare delle misure in deroga agli obblighi previsti dalla presente Convenzione, nella stretta misura in cui la situazione lo richieda e a condizione che tali misure non siano in conflitto con gli altri obblighi derivanti dal diritto internazionale; 2. La disposizione precedente non autorizza alcuna deroga all’articolo 2, salvo il caso di decesso causato da legittimi atti di guerra, e agli articoli 3, 4 § 1 e 7; 3. Ogni Alta Parte contraente che eserciti tale diritto di deroga tiene informato nel modo più completo il Segretario generale del Consiglio d’Europa sulle misure prese e sui motivi che le hanno determinate. Deve ugualmente informare il Segretario generale del Consiglio d’Europa della data in cui queste misure cessano d’essere in vigore e in cui le disposizioni della Convenzione riacquistano piena applicazione”.
Controversa è la natura giuridica di tale disposizione, anche se la dottrina maggioritaria individua l’origine della stessa nella teoria dello ‘stato di necessità’[14].
L’uso che è stato fatto finora del potere di deroga da parte degli Stati contraenti è stato sufficientemente moderato. Tuttavia, l’assenza di una comunicazione governativa, non vuole sempre significare che difettino i presupposti in tal senso.
Gli Stati che più di altri hanno richiesto la sospensione delle garanzie convenzionali, per via di emergenze e problematiche relative all’ordine pubblico e alla sicurezza, sono il Regno Unito e la Turchia.
La deroga di cui all’art. 15 presuppone l’esistenza di una guerra o di un pericolo pubblico che minacci la vita della nazione.
Nella nozione di “guerra”, rientrano tutti i tipi di conflitto, sia quell preceduti da una dichiarazione formale di apertura delle ostilità, sia quegli scontri armati (già da anni maggioritari) non formalmente dichiarati (anche le guerre civili rientrano a pieno titolo nella previsione dell’articolo 15)[15].
Ulteriore ipotesi che consente l’adozione di deroghe rispetto alle tutele accordate dalla CEDU si rinviene nel caso di “altro pericolo pubblico che minacci la vita della nazione”.
La nozione di “pericolo pubblico” è sicuramente meno chiara e definibile di quella di guerra, e ricomprende uno spettro di situazioni su cui è spesso intervenuta la Corte Europea.
Gli elementi distintivi possono tuttavia rinvenirsi nella gravità ed eccezionalità del pericolo (paragonabile ad un conflitto), quali ad esempio minacce all’ordine pubblico e alla sicurezza, che per essere fronteggiate adeguatamente necessitano non di mere restrizioni all’esercizio dei diritti fondamentali, ma bensì di vere e proprie deroghe, rectius sospensioni, delle tutele dei diritti garantiti dalla CEDU.
Per invocare la disposizione in parola, il Giudice europeo ha sancito che debba sussistere una situazione di pericolo, di crisi eccezionale, tale per cui le misure o le restrizioni ordinariamente consentite dalla Convenzione risultino insufficienti a fronteggiare l’emergenza[16].
Il pericolo dunque, deve essere, se non attuale, almeno imminente o concreto. Esso deve, possedere un’intensità tale da minacciare l’insieme della popolazione. Tuttavia in consolidato orientamento giurisprudenziale ha sancito negli anni che se l’evento eccezionale è circoscritto ad una mera porzione del territorio, la deroga potrà avere effetto limitato a quell’area.
L’art. 15 può essere considerato come l’extrema ratio a cui ricorrere una volta che sia accertata l’impossibilità di fronteggiare l’emergenza con gli ordinari strumenti a disposizione.
Aspetto non secondario da tenere in considerazione da parte degli Stati aderenti che volessero invocare l’applicazione dell’art. 15 della CEDU, è costituito dal rispetto degli rigorosi obblighi procedurali, come verrà evidenziato infra.
Al fine di conciliare le esigenze contrapposte della salvaguardia dei diritti fondamentali, con quelle di protezione interna contro i pericoli che minacciano l’esistenza dello Stato e dei suoi cittadini, la Corte di Strasburgo (e ancor prima la Commissione), hanno elaborato la dottrina del “margine di apprezzamento”.
In applicazione di questo principio (che trae origine dalla giurisprudenza del Consiglio di Stato francese), spetta in primo luogo a ciascuno Stato aderente alla CEDU determinare se “un pericolo pubblico” minacci “la vita della nazione”, e, in caso affermativo, quali siano le misure necessarie a fronteggiare tale situazione emergenziale, giacché ogni singolo Governo può valutare meglio di un organo di controllo sovranazionale le problematiche legate al mantenimento dell’ordine pubblico all’interno del proprio territorio[17].
Deve tuttavia escludersi che il “margine di apprezzamento” implichi un potere illimitato, in quanto gli organi politici del Consiglio d’Europa, esercitano un monitoraggio costante sull’operato dei Governi. Esso è comunque molto ampio (per le ragioni spiegate sopra), tant’è che l’esistenza di un pericolo pubblico eccezionale è stato raramente contestato (se si esclude il cd. ‘caso greco’), preferendo piuttosto soffermarsi la Corte EDU sulla compatibilità delle misure straordinarie adottate con il dettato convenzionale[18].
L’onere della prova relativamente alla sussistenza dei presupposti per poter invocare il ricorso all’art. 15 grava sullo Stato. Aspetto questo che è stato chiarito sin dal 1969 nel già citato rapporto relativo al ‘caso greco’.
La facoltà di deroga è tuttavia soggetta al criterio di proporzionalità; lo Stato può sospendere i diritti e le libertà garantiti dalla Convenzione, solo “nella stretta misura in cui la situazione lo richieda”, come recita il comma 1° della norma in parola.
I provvedimenti adottati in situazioni di emergenza debbono rispondere ad una necessità imperativa ed oggettiva, nel senso che essa non possa essere fronteggiata con misure meno severe.
Altro aspetto essenziale, nel valutare la misura adottata in deroga, è costituito dal fattore temporale.
L’esercizio del diritto di deroga deve avere un arco temporale limitato alla durata del pericolo eccezionale (l’art. 15 non consente infatti deroghe permanenti).
Occorre notare che inderogabili sono invece il divieto di tortura e di trattamenti e pene inumane e degradanti di cui all’art. 3 della Convenzione, così come la retroattività della legge penale (art. 7), di ne bis in idem (art. 4 del 7° Protocollo aggiuntivo alla CEDU) e la pena di morte (così come disposto dai Protocolli nn. 6 e 13)[19].
Per poter beneficiare del regime derogatorio lo Stato aderente alla CEDU è anche tenuto ad osservare, come cennato sopra, delle regole di ordine procedurale, sancite dall’art. 15 comma 3.
Quest’ultimo inciso afferma infatti che il Segretario generale del Consiglio d’Europa debba essere pienamente informato delle misure prese e sulle ragioni che le hanno ispirate. Allo stesso modo questi dovrà essere notiziato relativamente alla data in cui avranno cessato di essere in vigore.
La comunicazione di deroga è indispensabile per la sospensione dei diritti garantiti dalla Convenzione, tuttavia non viene richiesta una forma specifica, purché le informazioni siano complete e idonee a consentire una piena valutazione sull’operato dello Stato richiedente.
La stessa presuppone la massima celerità nell’invio[20], giacché, come chiarito dalla Corte europea, essa non ha un effetto retroattivo[21].
Le misure di emergenza adottate in deroga agli obblighi della Convenzione vanno tenute sotto permanente revisione e tempestivamente riviste, modificate o abrogate, a seconda del mutare della situazione che le ha richieste.
Quanto alla minaccia terroristica e le misure di deroga, si evidenzia che dopo gli attentanti dell’11 settembre 2001 e quelli avvenuti su suolo britannico, il Regno Unito ha provveduto a notificare numerose deroghe al Segretario generale del Consiglio d’Europa rispetto all’art. 5 della Convenzione (Diritto alla libertà e alla sicurezza).
Il Regno Unito ha infatti individuato nell’attacco terroristico agli Stati Uniti un “pericolo pubblico” ai sensi dell’art. 15 comma 1°, nonostante la minaccia si fosse concretamente manifestata in un altro Stato (per giunta non aderente alla Convenzione), e non sul territorio britannico (tali attacchi furono infatti condotti solo successivamente rispetto alla primegenia deroga, a Londra).
Per la prima volta, quindi, l’emergenza derivante dal terrorismo internazionale è stata ritenuta rispondente alle condizioni poste dall’art. 15 della Convenzione europea.
Sulla deroga alla Convenzione EDU e più in generale sulla legislazione antiterrorismo adottata dal Regno Unito (in specie sull’Anti-terrorism, Crime and Security Act), ha avuto modo di pronunciarsi anche la Corte di Strasburgo, enucleando principi di massima di notevole rilievo giuridico, nella sentenza A. + altri c. Regno Unito.
La Corte ha sottolineato che l’emergenza derivante dal terrorismo islamico – per far fronte alla quale le autorità britanniche hanno introdotto misure straordinarie – risponde ai requisiti elaborati dalla giurisprudenza della Corte in materia di applicazione dell’art. 15[22] .
La Grande Chambre ha precisato che ai fini della loro conformità con l’istituto della deroga, non è necessario che le misure di emergenza adottate per far fronte alla minaccia abbiano carattere temporaneo (quest’ultimo costituisce un rêvirement giurisprudenziale di estremo)[23].
Secondo la Corte, imperativo è piuttosto il rispetto del principio di proporzionalità. Essa ha del resto sostenuto che, pur non minacciando la sopravvivenza delle istituzioni (aspetto questo opinabile) – quindi dello Stato propriamente inteso – il pericolo derivante dal terrorismo internazionale ha carattere eccezionale e ben giustifica, l’adozione di misure derogatorie[24].
Allo stesso modo va evidenziato che gli Stati firmatari della Convenzione europea, ai sensi dell’art. 2 della CEDU, non hanno solo l’obbligo (negativo) di astenersi dall’uso della forza armata o in generale da condotte che portino illegittimamente alla perdita di vite umane.
Tale norma prevede altresì un obbligo di protezione della vita, che grava sulle autorità che sono pertanto tenute ad adottare le necessarie misure, anche e soprattutto a carattere generale, per tutelare l’incolumità dei propri cittadini.
Come illustrato dalla Corte nella sentenza LCB c. Regno Unito, l’art. 2 impone allo Stato aderente alla CEDU “non solo di astenersi dal togliere intenzionalmente ed illegalmente la vita, ma anche di muovere i passi necessari per salvaguardare la vita di coloro che sono sottoposti alla sua giurisdizione”[25].
Grava sull’amministrazione l’obbligo di garantire ai propri cittadini, condizioni di vita che minimizzino i rischi di morte (in tal senso Keenan c. Regno Unito).
In virtù di tale principio, ribadito successivamente nella sentenza Osman c. Regno Unito, compito precipuo dello Stato è quello “di proteggere ogni persona dalle azioni di terze parti” (individui o gruppi).
La stessa Corte ha anche sancito l’obbligo positivo di assumere ragionevoli e specifiche misure preventive quando la vita di un individuo o della collettività è minacciata da azioni violente.
Insorge pertanto la violazione dell’art. 2 della CEDU allorquando le autorità pubbliche pur a conoscenza o allorquando avrebbero dovuto esserlo, dell’esistenza reale, anche solo potenziale, di pericolo per la vita di un determinato individuo o più cittadini, a causa delle azioni criminali di una terza parte, non siano intervenute con misure sufficienti ad evitare tale possibile evento (Maiorano c. Italia e Kiliç c. Turchia).
Grava sullo Stato l’obbligo di adottare adeguate misure di protezione per prevenire possibili lesioni del diritto alla vita, e che eventuali omissioni di tale preciso dovere configurano la vulnerazione del “diritto alla vita” (principio di affermato nella sentenza Mahmut Kaya c. Turchia).
Sul tema specifico del contrasto al terrorismo, si evidenziano poi le “Linee guida del Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa”dell’11 luglio 2002[26].
In tale documento, viene sancito a partire dal Preambolo lett. a) che “… il terrorismo mette seriamente in pericolo i diritti umani, minaccia la democrazia mirando a destabilizzare i governi legittimi e mina la società pluralistica …”. Lo stesso testo (lett. f) prosegue affermando il “dovere imperativo per gli Stati di proteggere la loro popolazione contro possibili atti di terrorismo”.
L’art. I delle Linee Guida, rubricato “Obbligo degli Stati di protezione dal terrorismo” recita “Gli Stati sono sotto l’obbligo giuridico di adottare misure volte a tutelare i diritti fondamentali di chiunque si trovi all’interno della propria giurisdizione da atti terroristici, soprattutto il diritto alla vita. Questa obbligazione di carattere positivo giustifica il contrasto al terrorismo …”.
Norma questa (così come la giurisprudenza di Strasburgo), che richiede una seria riflessione ed un approfondimento che ad oggi, non vi è stato né a livello governativo, parlamentare o dottrinario.
Destano tuttavia preoccupazione alcune delle più recenti decisioni della Corte EDU, in cui i Giudici di Strasburgo hanno bocciato uno dei ‘pilastri’ della lotta antiterrorismo, cioè il programma statunitense delle extraordinary renditions[27].
Questa campagna di traduzioni extra ordinem, ha visto coinvolti a vario titolo diversi Stati aderenti alla Convenzione[28].
Di particolare interesse la pronuncia sul caso Abu Omar, in cui l’ex Imam della moschea milanese di Via Quaranta, unitamente alla moglie hanno convenuto in giudizio il Governo italiano per numerose violazioni della CEDU, chiedendo altresì un cospicuo risarcimento.
La Corte europea ha condannato l’Italia, per il ruolo avuto nella cattura, accertando la violazione per quanto attiene Abu Omar[29] degli artt. 3 (“Proibizione della tortura”), 5 (“Diritto alla libertà e alla sicurezza”), 8 (“Diritto al rispetto della vita privata e familiare”) e 13 (“Diritto ad un ricorso effettivo”), e degli artt. 3, 8 e 13 nei riguardi del coniuge, Nabila Ghali[30].
I Giudici di Strasburgo hanno concluso che le extraordinary renditions compiute della CIA, così come la detenzione extra giudiziale dei fondamentalisti (e gli interrogatori al quale erano sottoposti) rientrano nel novero della tortura, condotta vietata dall’art. 3 della CEDU.
La condotta delle autorità italiane è stata ritenuta censurabile sotto diversi profili: a) non avendo impedito la cattura di Abu Omar (anzi assistendo gli agenti della CIA), esse hanno vulnerato il suo diritto alla libertà e alla sicurezza; b) la loro acquiescenza di fronte al Governo americano, hanno reso l’Italia responsabile dei maltrattamenti e delle torture inflitte quando quest’ultimo era nelle mani delle autorità egiziane (paese dove l’Imam era stato trasferito per essere interrogato e dove è rimasto in custodia e successivamente fatto oggetto di un divieto di espatrio per le sue attività sovversive per circa 4 anni)[31]; c) perché la vita privata e familiare del ricorrente era stata fortemente e per lungo tempo compromessa dalla sua detenzione; d) perché privato di un’adeguata tutela giurisdizionale (considerazioni analoghe valgono per la moglie).
Orbene, da tutta questa vicenda colpisce come l’Erario abbia svolto in giudizio difese di scarso pregio giuridico, che verrebbe spontaneo definire ‘pigre’, laddove non comportassero l’affermazione di principi giuridici di estrema gravità per il loro impatto nella lotta contro il terrorismo.
Le tesi difensive del Governo italiano sono state sostanzialmente articolate su tre punti: il non esaurimento delle vie di ricorso interne; l’opposizione del segreto di Stato; che gli agenti del SISMI coinvolti nella vicenda hanno agito a titolo personale.
Orbene, la strategia difensiva adottata dimostra tutta la sua pochezza ed una scarsissima conoscenza sia della CEDU, che dell’indirizzo pretorio della Corte europea.
Riguardo all’invocata inammissibilità del gravame ai sensi dell’art. 35 della Convenzione, costituisce giurisprudenza pacifica che nel caso di violazioni più gravi, vi è la possibilità di adire direttamente, ‘per saltum’ il plesso giurisdizionale continentale (ex multis Aksoy c. Turchia e Öcalan c. Turchia).
Relativamente al segreto di Stato si osserva che la consolidata giurisprudenza della Corte europea ha più volte rigettato prospettazioni di questo genere, giacché di fronte alla vulnerazione di ‘principi cardine’ dello Stato di diritto e alle tutele offerte della Convenzione, esso recede (sul punto si veda la sentenza Babar Ahmad + altri c. Regno Unito).
Quanto poi al presunta implicazione a titolo meramente personale degli agenti dei Servizi (e la conseguente totale estraneità del SISMI da tutta la vicenda), questa tesi oltre alla sua scarsa credibilità, non tiene conto che lo Stato è responsabile delle violazioni della CEDU anche da parte dei suoi funzionari (principi chiaramente espressi nelle sentenze Osman c. Regno Unito e Maiorano e altri c. Italia).
Giudizio quello sul caso Abu Omar di fronte alla Corte di Strasburgo, che evidenzia, quanta pressapochezza e scarsa conoscenza (anche da parte di chi dovrebbe essere un ‘addetto ai lavori’), circondi la Convenzione europea dei Diritti dell’uomo.
* Avvocato, Docente di Diritto canonico presso la Wuhan University (Repubblica Popolare Cinese)
[1] Sintomatiche della misconoscenza di tale normativa sovranazionale da parte dei Governi europei, si rivelano le difese (malamente) svolte dal nostro Paese di fronte alla Corte europea dei Diritti dell’uomo, nel caso Abu Omar, culminato nella sentenza di condanna Nasr e Ghali c. Italia (del 23 febbraio 2016). Decisione quest’ultima che verrà qui di seguito commentata
[2] Trattasi in realtà dei lavori dell’Assemblea Consultiva del Consiglio d’Europa. Per maggiori approfondimenti si rinvia a AA.VV., La Convenzione europea dei Diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali. Commentata ed annotata, ESI, Napoli, 2006, pp. 548 e ss.
[3] La tutela giurisdizionale dei diritti enunciati nella Convenzione è stata tradizionalmente ripartita tra la Commissione dei diritti dell’uomo, incaricata di valutare la ricevibilità dei ricorsi, della successiva istruttoria ed esame in prima istanza le controversie, e la Corte europea (propriamente detta), competente a pronunciarsi in modo definitivo e vincolante sul merito della causa. A partire dal 1° novembre 1998, data di entrata in vigore del Protocollo 11 della Convenzione, il sistema ‘binario’ è stato sostituito da un unico plesso giusdicente.
[4] Lehideux e Isorni c. Francia
[5] Garaudy c. Francia
[6] Witzsch c. Germania
[7] Norwood c. Regno Unito
[8] Glimmerveen e Hagenbeek c. Paesi Bassi
[9] W.P. e altri c. Polonia
[10] Herri Batasuna e Batasuna c. Spagna, così come Refah Partisi e altri c. Turchia
[11] AA.VV., Commentario breve alla Convenzione europea dei Diritti dell’uomo, CEDAM, Padova, 2012, p. 583
[12] Nel caso dei partiti indipendentisti baschi, la Corte ha ritenuto il loro scioglimento da parte delle autorità spagnole non lesivo dell’art. 11 della CEDU, considerandola una misura non vulnerativa del principio di proporzionalità, ed anzi necessaria per la difesa di una società democratica, visti i fini dei movimenti in questione, tesi al sovvertimento dell’ordinamento costituzionale vigente in quel paese
[13] Si veda la sentenza Lawless c. Irlanda
[14] Ex multis, Commentario breve alla Convenzione europea dei Diritti dell’uomo citato, p. 555
[15] E’ stato osservato, op. cit., p. 556, che “qualora la disposizione dell’art. 15 fosse formulata oggi, essa o non menzionerebbe esplicitamente la guerra, in analogia con il testo dell’art. 4 del Patto sui diritti civili e politici, che parla solo di “pericolo pubblico eccezionale”, oppure sostituirebbe l’espressione “conflitto armato” a “guerra””
[16] In proposito si veda la sentenza Lawless c. Irlanda
[17] Principio pacifico, affermato sin dalla sentenza Lawless c. Irlanda citata
[18] Successivamente alla presa di potere da parte dei ‘colonnelli’ , i paesi scandinavi unitamente all’Olanda, promossero un ricorso interstatale contro la Grecia, per l’asserita violazione dei diritti umani, da cui seguì un rapporto della Commissione
[19] Sulla nozione di tortura e di trattamento inumano o degradante, di cui si parlerà meglio infra, la Corte europea ha elaborato il test della cd. ‘soglia di gravità’. Ad esempio, non sono stati considerati dai Giudici di Strasburgo lesivi dell’art. 3 della Convenzione lunghissimi periodo di isolamento in carceri di massima sicurezza (in proposito si vedano le sentenze Öcalan c. Turchia [sentenza della Grande Camera del 12 maggio 2005] e Ramirez Sanchez c. Francia [ricorso proposto da ‘Carlos lo sciacallo’]). Allo stesso modo, l’arresto e la custodia in un carcere segreto non costituisce una violazione dell’art. 3 della CEDU (sentenza Extebarria Caballero c. Spagna).
[20] Dalla giurisprudenza di Strasburgo si possono ricavare degli utili parametri a riguardo: i dodici giorni del caso Lawless c. Irlanda sono stati ritenuti compatibili con l’art. 15, mentre i quattro mesi trascorsi dall’adozione delle misure alla comunicazione di deroga nel caso greco giudicati eccessivi
[21] Brannigan e Mc Bride c. Regno Unito
[22] Si veda a riguardo l’inciso 177 della sentenza
[23] Trattasi di un rêvirement di notevole importanza rispetto al precedente e consolidato indirizzo giurisprudenziale
[24] Paragrafi 178 e 179 della sentenza
[25] Nel caso degli ripetuti attentati avvenuti a Parigi, Bruxelles e Berlino nel corso dell’ultimo biennio, è astrattamente configurabile nei confronti delle autorità di quegli Stati una violazione dell’art. 2 della CEDU, per via delle numerose omissioni dei necessari provvedimenti avverso i componenti delle cellule terroristiche
[26] Linee guida del Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa sui diritti umani e la lotta al terrorismo
[27] Ex multis El Masri c. Macedonia; Al Nashiri c. Polonia; Husayn (Abu Zubaydah) c. Polonia
[28] Polonia, Macedonia, Italia. Del resto il coinvolgimento italiano nel programma di extraordinary rendition è molto più ampio di quanto comunemente si pensi. Almeno 46 voli segreti hanno fatto scalo nel nostro paese tra il 2001 ed il 2005.
[29] Trattasi del nom de guerre dell’Imam, chiamandosi in realtà Osama Mustafa Nasr
[30] Nasr e Ghali c. Italia
[31] Abu Omar era un aderente ai Fratelli Mussulmani, e le sue attività sovversive l’avevano visto costretto nel 1998ad abbandonare il paese natio per l’Italia. Nel 2001 gli era stato poi riconosciuto lo status di rifugiato. Una volta a Milano, egli aveva ripreso la sua predicazione jihadista, a cui si era aggiunto il reclutamento di foreign fighters in tutta Europa da inviare a combattere in Iraq ed Afganistan