*La responsabilità medica: nuove prospettive
di Antonio Vetro, Presidente on. della Corte dei conti
- Sintesi sull’evoluzione nel tempo dell’istituto della responsabilità medica.
Per meglio comprendere la problematica che si aprirà, se il disegno di legge n. 2224 verrà definitivamente approvato, e ciò dovrebbe avvenire in tempi brevi, secondo quanto preannunziato, sarà opportuno richiamare, sia pure per sommi capi, l’evoluzione dell’istituto in esame.
Come ricordato, alla luce della sentenza della Cassazione penale n. 4391/2012, nell’articolo dello scrivente in data 7 febbraio 2013 (“La responsabilità amministrativo-contabile del medico”), la più antica giurisprudenza in materia di responsabilità medica si caratterizzava per particolare larghezza, ravvisandosi la colpa del medico nei soli casi nei quali la condotta del professionista fosse incompatibile col minimo di cultura e di esperienza richiesti nell’esercizio della professione, con la conseguenza che venivano coperti anche casi di grave leggerezza, determinandosi così una situazione di inammissibile privilegio per la categoria.
Tale situazione non era limitata alla materia penale, richiamata nella citata sentenza, ma riguardava anche la materia civile.
Attualmente, si assiste ad una radicale inversione di tendenza, attraverso valutazioni particolarmente severe della condotta dei medici ed una spiccata attenzione per le richieste risarcitorie dei soggetti danneggiati dai trattamenti sanitari.
L’effetto più grave derivante da tale, abnorme, situazione va riscontrato nella tecnica adottata, sempre più di frequente, contro il rischio professionale che va sotto il nome di “medicina difensiva”, con effetti deleteri sulla qualità dell’assistenza, sui tempi di attesa per le cure necessarie, sugli oneri a carico del Servizio sanitario. Detto fenomeno comporta la “fuga da responsabilità”, attraverso non necessari consulti, ricoveri ospedalieri, analisi, radiografie, ecografie, TAC, ecc.
In conclusione, si è avvertita la necessità di un ripensamento che scoraggiasse iniziative giudiziarie pretestuose e che restituisse la serenità nell’attività medica, contemperando – per usare le parole della Corte costituzionale nella, pur remota ma sempre attuale, sentenza n. 166/1973 – “due opposte esigenze, quella di non mortificare la iniziativa del professionista col timore di ingiuste rappresaglie da parte del cliente in caso di insuccesso e quella inversa di non indulgere verso non ponderate decisioni o riprovevoli inerzie del professionista”.
In tale situazione, l’intervento del legislatore, fortemente richiesto dalla categoria, sempre più esposta ad azioni giudiziarie, era senz’altro auspicabile.
Purtroppo il legislatore è intervenuto attraverso una norma, quella contenuta nell’art. 3 del d.l. n. 158/2012, convertito in legge n. 189/2012, che non solo non ha comportato la soluzione del problema di un idoneo contemperamento delle opposte esigenze lumeggiate dalla Corte costituzionale, ma ha prodotto una condizione di notevole incertezza sui limiti della responsabilità medica.
Tale disposizione ha stabilito che “l’esercente le professioni sanitarie che nello svolgimento della propria attività si attiene a linee guida e buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica non risponde penalmente per colpa lieve. In tali casi resta comunque fermo l’obbligo di cui all’art. 2043 del codice civile. Il giudice, anche nella determinazione del risarcimento del danno, tiene debitamente conto della condotta di cui al primo periodo”.
Il primo problema ha riguardato l’identificazione delle linee guida da prendere a riferimento, tenuto conto della quantità di tali strumenti di conoscenza, della loro continua evoluzione, in conseguenza delle sempre nuove scoperte scientifiche, dell’eterogeneità delle fonti di produzione, da quelle provenienti da organismi internazionali a quelle derivate da specifiche strutture sanitarie. Oltre tutto, non poche linee guida sono finalizzate esclusivamente al contenimento dei costi, e quindi ininfluenti per la valutazione della condotta del sanitario.
In ogni caso, malgrado il numero così rilevante, è indubbio che le linee guida non possano riguardare tutta la multiforme realtà delle diverse situazioni cliniche caratterizzate da una quantità di fattori legati alla particolare condizione del paziente.
Ciò non toglie la validità delle linee guida della più accreditata letteratura scientifica, approvata dai più autorevoli consessi. Secondo la definizione accolta dall’Institute of Medicine degli Stati Uniti le linee guida sono raccomandazioni di comportamento clinico, elaborate attraverso un processo di revisione sistematica della letteratura e delle opinioni scientifiche, maggiormente dettagliate nei precetti, rispetto ai meri protocolli.
Peraltro la loro utilizzazione non può mai assumere carattere cogente, dovendosi pur sempre considerare le possibili varianti di cui il medico deve tener conto “secondo scienza e coscienza”: in giurisprudenza le linee guida vengono valutate come mere fonti di regole cautelari.
Con sentenza n. 16237/2013 la Cassazione ha esaminato in modo approfondito la novella legislativa, osservando che le linee guida propongono solo direttive generali, istruzioni di massima, orientamenti. Esse vanno in concreto applicate senza automatismi, ma rapportandole alle peculiari specificità di ciascun caso clinico ed è quindi possibile che il medico, pur inquadrando correttamente la patologia nella sua generalità in conformità alle linee guida, in concreto compia errori in relazione alle peculiarità dello specifico caso clinico, come nell’ipotesi in cui non tenga conto di patologie concomitanti, errori rilevanti penalmente solo oltre la soglia della colpa lieve. Peraltro, la nuova legge non fornisce alcuna indicazione sulla distinzione tra colpa lieve e colpa grave, né questa è reperibile nel codice penale che, all’art. 133, si limita a prevedere che la misura della pena debba essere commisurata anche al grado della colpa. Comunque, si può ragionevolmente affermare che la colpa assumerà connotati di grave entità solo quando l’erronea conformazione dell’approccio terapeutico risulti marcatamente distante dalle necessità di adeguamento alle peculiarità della malattia, al suo sviluppo, alle condizioni del paziente, dovendosi anche valutare la complessità, l’oscurità, la novità del quadro patologico, l’urgenza dell’intervento, l’assenza di presidi adeguati.
Con ordinanza n. 8940/2014 la Cassazione ha aggiunto che la dizione della norma, “quando dice che resta comunque fermo l’obbligo di cui all’art. 2043 c.c. (responsabilità extracontrattuale), … non ha inteso certamente prendere alcuna posizione sulla qualificazione della responsabilità medica necessariamente come responsabilità di quella natura. Non sembra ricorrere, dunque, alcunché che induca il superamento dell’orientamento tradizionale sulla responsabilità da contatto e sulle sue implicazioni (da ultimo riaffermate da Cass. n. 4792 del 2013)”.
Con ordinanza n. 27391/2014 la Cassazione ha confermato che tale normativa non esprime alcuna opzione da parte del legislatore per la configurazione della responsabilità civile del sanitario come responsabilità necessariamente extracontrattuale, ma intende solo escludere, in tale ambito, l’irrilevanza della colpa lieve.
2) Problematiche di carattere generale sulla responsabilità medica, con particolare riguardo ai caratteri della colpa medica ed all’onere probatorio.
In generale, la colpa deve essere valutata con tanto maggior rigore, quanto maggiori e più elevate siano le funzioni e la qualificazione professionale dell’agente. In particolare, la condotta dei medici, ed ancor più degli specialisti, va valutata in relazione all’obbligo non di una diligenza generica, ma della più accurata diligenza, in relazione alla spiccata delicatezza delle funzioni svolte, a tutela del bene primario della salute. Quindi, la diligenza cui è tenuto il medico nell’adempimento delle obbligazioni relative alla propria attività professionale trascende quella del buon padre di famiglia, di cui all’art. 1176 comma 1 c.c., bensì è quella qualificata, richiesta dalla particolare natura dell’attività esercitata, ai sensi del comma 2 del medesimo articolo, secondo cui “Nell’adempimento delle obbligazioni inerenti all’esercizio di un’attività professionale, la diligenza deve valutarsi con riguardo alla natura dell’attività esercitata”.
L’espressione di tale diligenza qualificata è la perizia, in campo tecnico-scientifico, nella specie concernente la conoscenza e la corretta applicazione delle regole tecniche indicate nelle disposizioni dell‘ars medica.
In particolare, la perizia riguarderà sia la conoscenza della medicina di base, comune a tutti i rami della professione, sia della medicina inerente lo specifico ramo della specializzazione.
La mancanza di perizia potrà concernere sia condotte commissive, nel caso di comportamenti attivi, sia condotte omissive, nel caso di inosservanza delle cautele prescritte dai protocolli sanitari. Oltre alla perizia, si richiede al medico l’osservanza dei doveri di prudenza e diligenza, ivi compreso l’obbligo di costante aggiornamento, in relazione al continuo sviluppo della scienza medica, come d’altronde prescritto anche dal codice deontologico.
La responsabilità del medico è limitata, ai sensi dell’art. 2236 c.c., secondo cui “se la prestazione implica la soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà, il prestatore d’opera non risponde dei danni, se non in caso di dolo o colpa grave”. Va peraltro tenuto conto che tale disposizione non trova applicazione per i danni ricollegabili a negligenza o imprudenza dei quali il professionista risponde anche per colpa lieve e, quindi, è circoscritta ai casi di imperizia ricollegabili alla particolare difficoltà dei problemi tecnici da affrontare.
Come già osservato, a parere dello scrivente, attualmente la giurisprudenza adotta valutazioni particolarmente severe della condotta dei medici ed una spiccata attenzione per le richieste risarcitorie dei soggetti danneggiati dai trattamenti sanitari.
La giurisprudenza, nel caso di ricoveri di pazienti, ha individuato la responsabilità medica come responsabilità contrattuale non appena si verifichi il “contatto sociale” tra il medico ed il malato dal momento dell’accesso alla struttura sanitaria sino alle dimissioni ed oltre, se necessitano particolare cure e controlli” (Cass. n. 6438/2015).
Con giurisprudenza consolidata (n. 4792/2013, 20547/2014, 22222/2014, 21177/2015) la Cassazione ha stabilito che nel giudizio avente ad oggetto il risarcimento del danno da attività medico – chirurgica, l’attore deve provare o l’esistenza del contratto o del contatto sociale ed allegare l’insorgenza o l’aggravamento della patologia e l’inadempimento qualificato del debitore, astrattamente idoneo a provocare quale causa o concausa efficiente il danno lamentato, rimanendo a carico del medico convenuto dimostrare che tale inadempimento non vi è stato, ovvero che, pur esistendo, esso non è stato causa del danno. La distinzione fra prestazione di facile esecuzione e prestazione implicante la soluzione di problemi tecnici di particolare difficoltà non vale come criterio di ripartizione dell’onere della prova, ma rileva soltanto ai fini della valutazione del grado di diligenza e del corrispondente grado di colpa, spettando al sanitario la prova della particolare difficoltà della prestazione, in conformità con il principio di generale favor per il creditore danneggiato cui l’ordinamento è informato.
Non viene citata, per motivi di brevità, la giurisprudenza di merito, salvo un accenno alla recente sentenza 27.9.2016 n. 10440 del Tribunale di Napoli nella quale è riportata una esauriente sintesi della giurisprudenza di legittimità in materia, ed in particolare la sentenza della Cass. civ. n. 9471/2004, secondo cui “pur gravando sull’attore l’onere di allegare i profili concreti di colpa medica posti a fondamento della proposta azione risarcitoria, tale onere non si spinge fino alla necessità di enucleazione e indicazione di specifici e peculiari aspetti tecnici di responsabilità professionale, conosciuti e conoscibili soltanto agli esperti del settore”.
Quest’ultima statuizione suscita notevoli perplessità in quanto sembra discriminatoria ai danni della professione medica a fronte delle altre professioni, pur in presenza di analoghe condizioni.
Infatti anche le altre professioni, ad es. quelle degli ingegneri, dei geologi ecc. presentano “specifici e peculiari aspetti tecnici di responsabilità professionale, conosciuti e conoscibili soltanto agli esperti del settore”, senza che ciò comporti alcun effetto sulla ripartizione dell’onere probatorio. D’altra parte, l’istituto della perizia, di parte o d’ufficio, serve proprio a superare le difficoltà inerenti alla mancata conoscenza degli aspetti tecnici più complessi della causa in discussione per stabilire l’insorgenza o meno della responsabilità professionale.
In conclusione, secondo la giurisprudenza, in tema di responsabilità per attività medico-chirurgica, l’attore deve provare l’esistenza del rapporto di cura, del danno e del nesso causale e solo allegare la colpa del medico, sul quale incombe l’onere di dimostrare che l’eventuale insuccesso dell’intervento, rispetto a quanto concordato o ragionevolmente attendibile, sia dipeso da causa a sé non imputabile.
Infine, occorre ricordare che diversa è la responsabilità del medico rispetto a quella che incombe sulle strutture sanitarie. Il rapporto giuridico che intercorre fra il paziente e queste ultime, che siano indifferentemente di natura pubblica o privata, va qualificato come contratto atipico a prestazioni corrispettive nel quale, a fronte del corrispettivo, deve essere garantita, oltre alla condotta diligente dei singoli operatori sanitari, l’ospitalità, la sussistenza delle attrezzature necessarie, l’assistenza del personale paramedico ed ausiliario ecc., la cui carenza può comportare fattispecie di responsabilità “da disorganizzazione”, autonome rispetto a quelle derivanti da errori compiuti dal personale medico ivi operante.
Riguardo a quest’ultimi errori, la struttura deve rispondere dei conseguenti danni, in ragione del particolare contatto con il personale, da qualificare come “rapporto di occasionalità necessaria”, rimanendo del tutto irrilevante il rapporto giuridico intercorrente tra il personale medico e la struttura, essendo sufficiente che tale personale, nella qualità di ausiliario necessario, operi a qualsiasi titolo nella struttura. In altri termini la struttura, nell’adempimento dell’obbligazione, deve assumersi il rischio connesso all’utilizzazione dei soggetti terzi ivi operanti.
Altro obbligo, di natura contrattuale, a carico del medico, compreso fra quelli che discendono dal contratto sanitario o dal contatto sociale, è quello di corretta informazione sulla natura e sull’entità degli eventuali rischi che potrebbero derivare dalla terapia, dai trattamenti o dall’intervento chirurgico.
Tale informazione deve essere particolarmente precisa e dettagliata per gli interventi di chirurgia estetica, comprendendo non solo i rischi, ma anche la concreta possibilità del conseguimento del miglioramento nell’estetica.
Come precisato dalla Cassazione con sentenza n. 12830/2014, quando ad un intervento di chirurgia estetica segua una carenza estetica più grave di quello che si mirava ad eliminare o attenuare, la responsabilità del medico per il danno derivatone è conseguente all’accertamento che il paziente non sia stato adeguatamente informato di tale possibile esito, ancorché l’intervento risulti correttamente eseguito. Infatti, con la chirurgia estetica, il paziente insegue un risultato non declinabile in termini di tutela della salute, ciò che fa presumere come il consenso all’intervento non sarebbe stato prestato se egli fosse stato compiutamente informato dei relativi rischi.
L’obbligo di informazione è da ricollegare al diritto del singolo all’autodeterminazione. In proposito la Cassazione, con sentenza n. 2847/2010, ha precisato che tale diritto è diverso dal diritto alla salute e rappresenta una forma di rispetto per la libertà dell’individuo di scegliere tra le diverse possibilità di trattamento medico ed eventualmente rifiutare la terapia o interromperla. Secondo la Corte costituzionale (sentenza n. 438/2008), il consenso informato trova fondamento nei principi espressi nell’art. 2 Cost., che tutela e promuove i diritti fondamentali della persona, e negli artt. 13 e 32 Cost., i quali stabiliscono rispettivamente che “la libertà personale è inviolabile” e che “nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge”.
- Nuove prospettive della responsabilità medica, alla luce del disegno di legge n. 2224.
Il testo approvato dalla Camera è già stato in parte modificato dal Senato e non è dato conoscere, al momento, quale sarà il testo definitivo: solo sulla base di questo sarà possibile approfondire la problematica in esame. Con tale riserva, verranno comunque anticipate alcune brevi considerazioni sulla novella legislativa in itinere, sottolineando le innovazioni di maggior rilievo, già oggetto di contrastanti valutazioni e di vivaci critiche.
A)Non è il caso di soffermarsi sull’art. 1 che reca norme generali di principio in materia di sicurezza delle cure sanitarie, tutta da verificare in sede di attuazione. Gli artt. 2 e 3 prevedono l’istituzione di un difensore civico regionale o provinciale, di Centri regionali per la gestione del rischio sanitario e la sicurezza del paziente, nonché di un Osservatorio nazionale sulla sicurezza nella sanità, dei quali rimane da accertare se costituiranno gli ennesimi “inutili carrozzoni” o se svolgeranno una qualche utile funzione, fermo restando che è tutta da chiarire l’effettiva sostenibilità finanziaria della scelta operata.
A tale proposito va ricordato che, in questo come pure in altri punti del decreto, si precisa che le riforme non dovranno comportare nuovi oneri per l’erario, autorizzando il fondato sospetto di voler fare “le nozze con i fichi secchi”.
Va poi sottolineata la tendenza ad incrementare adempimenti burocratici a carico delle strutture pubbliche – e quindi dei medici che già incontrano enormi difficoltà a svolgere il lavoro quotidiano, per i vuoti d’organico determinati dalla norme restrittive sulle assunzioni – e private che erogano prestazioni sanitarie, tenute ex novo a predisporre una relazione semestrale consuntiva sugli eventi avversi verificatisi.
- B) L’ 5, comma 1, nel testo riformulato dalla 12^ Commissione del Senato, afferma il principio che gli esercenti le professioni sanitarie, nell’esecuzione delle prestazioni sanitarie con finalità preventive, diagnostiche, terapeutiche, palliative, riabilitative e di medicina legale, si attengono, salve le specificità del caso concreto, alle raccomandazioni indicate dalle linee guida definite e pubblicate ai sensi del medesimo articolo 5 e, in mancanza, alle buone pratiche clinico-assistenziali. Per l’elaborazione delle linee guida si fa riferimento ad enti e istituzioni pubblici e privati nonché alle società scientifiche ed alle associazioni tecnico-scientifiche delle professioni sanitarie, iscritte in un apposito elenco, istituito e regolamentato con decreto del Ministro della salute, da emanarsi entro novanta giorni dall’entrata in vigore della legge.
Il primo dubbio riguarda il rispetto del termine indicato, dati i precedenti, non proprio commendevoli, di mancata ottemperanza ai termini previsti in sede legislativa per l’emanazione di disposizioni di attuazione attraverso decreti. Ad es. nella legge Balduzzi era previsto il termine del 30 giugno 2013 per l’emissione di un decreto di attuazione del Presidente della Repubblica, al fine di agevolare l’accesso alla copertura assicurativa agli esercenti le professioni sanitarie. Orbene, a distanza di anni non si è ancora ottemperato a tale prescrizione.
Per quanto riguarda il richiamo alle linee guida, non può che ribadirsi la quantità di critiche già ricordate riguardo alla presunta vincolatività delle stesse linee guida, in relazione alla legge Balduzzi. Né, d’altra parte, l’inserimento in un decreto conferirà maggiore autorità a raccomandazioni che possono dimostrarsi di minor valore rispetto ad altre pubblicate in autorevoli riviste mediche accreditate nel mondo scientifico, ferma restando la loro attuazione senza automatismi, ma da rapportare alle peculiari circostanze di ciascun concreto caso clinico. Bisogna poi considerare l’ampiezza da attribuire alla riserva che fa “salve le specificità del caso concreto”, che potrebbe svuotare di contenuto, in buona parte, la regola dell’obbligo di osservanza delle linee guida, la cui ottemperanza rimarrebbe così avvolta in ampi spazzi di incertezza.
Non va, infine, trascurato il rischio, da molti denunziato, di un impoverimento della scienza medica, determinato dalla supina acquiescenza alle raccomandazioni in questione.
- C) L’art. 6, nella versione riformulata dalla 12^ Commissione del Senato, prevede che l’esercente la professione sanitaria che, nello svolgimento della propria attività, cagioni a causa di imperizia la morte o la lesione personale della persona assistita, risponda dei reati di cui agli articoli 589 e 590 solo in caso di colpa grave, da escludere quando, fatte salve le rilevanti specificità del caso concreto, siano rispettate le buone pratiche clinico-assistenziali e le raccomandazioni previste dalle linee guida come definite e pubblicate ai sensi di legge.
E’ da sottolineare che la limitazione della responsabilità prevista dall’art. 6 è circoscritta ai casi di imperizia nell’esercizio della professione sanitaria. Non sono quindi contemplati i casi di negligenza o imprudenza per i quali il professionista continuerà a rispondere secondo le norme comuni. A differenza della normativa contenuta nell’art. 3 del d.l. n. 158/2012, convertito in legge n. 189/2012, abrogata dal comma 2 dell’art. 67 del decreto in esame – secondo cui la responsabilità era esclusa per i casi di colpa lieve qualora, nello svolgimento della propria attività, l’esercente la professione sanitaria si fosse attenuto a linee guida e buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica – l’art. 6 copre tutti i gradi di colpa, escludendo la responsabilità per i reati sopraindicati in tutti i casi in cui siano rispettate le raccomandazioni previste dalle pubblicate linee guida, adeguate alle specificità del caso concreto e, in mancanza di esse, alle buone pratiche clinico-assistenziali.
- D) L’art. 7 prescrive che la struttura pubblica o privata che, nell’adempimento della propria obbligazione, si avvalga dell’opera di esercenti la professione sanitaria, risponde, ai sensi degli articoli 1218 e 1228 del codice civile, delle loro condotte dolose o colpose, mentre l’esercente la professione sanitaria risponde del proprio operato ai sensi dell’articolo 2043 del codice civile.
Quindi, per quanto riguarda la struttura sanitaria la norma conferma l’orientamento giurisprudenziale secondo cui, nei confronti della stessa, si configura una responsabilità da inadempimento, per effetto del rapporto contrattuale che intercorre con il paziente, mentre, per quanto riguarda il regime della responsabilità del medico la nuova disciplina si caratterizza per la propria portata innovativa, prevedendo che il medico risponda del proprio operato non più ai sensi dell’art. 1218 c.c., bensì ai sensi dell’art. 2043 c.c. e quindi a titolo di responsabilità extracontrattuale. L’innovazione comporta, in particolare, due conseguenze di notevole rilievo: 1) l’applicazione del più breve termine quinquennale di prescrizione del diritto al risarcimento del danno del paziente, rispetto al termine decennale previsto per il regime della responsabilità ex art. 1218 c.c.; 2) l’inversione dell’onere della prova, posto interamente a carico del paziente, il quale deve provare tutti gli elementi costitutivi della responsabilità ex art. 2043 cc., mentre, secondo il sistema previgente, era a carico del medico l’onere di dimostrare che l’evento fosse dovuto a cause a lui non imputabili.
Tale modifica normativa comporta che il paziente danneggiato verrà indotto a chiamare in giudizio la struttura, in luogo del medico autore del danno, per usufruire di un più favorevole regime probatorio. In tal modo, nell’intenzione del legislatore si dovrebbe conseguire il risultato di disincentivare azioni di responsabilità dirette contro i medici, attenuando l’attuale pressione giudiziaria nei loro confronti e, conseguentemente, diminuire la loro propensione a far uso della c.d. “medicina difensiva”.
- E) L’art. 9, nel testo modificato dalla 12^ Commissione del Senato, prevede l’azione di responsabilità amministrativa, anziché di rivalsa da parte della struttura dinanzi al giudice ordinario, esercitata dal Pubblico Ministero presso la Corte dei conti nei confronti del medico, per i casi in cui l’accoglimento della domanda di risarcimento concerna una struttura sanitaria o socio-sanitaria pubblica. Tale azione, tuttavia, è esercitabile, successivamente al risarcimento sulla base di titolo giudiziale o stragiudiziale, solo in caso di dolo o colpa grave del medico: di conseguenza, l’àmbito di responsabilità in queste azioni è più circoscritto rispetto a quello derivante dall’eventuale azione diretta promossa nei suoi confronti da parte del danneggiato.
A questo punto sorge un problema sulla compatibilità di una disciplina che prevede, in tali casi, come extracontrattuale la responsabilità del medico, con la previsione della responsabilità amministrativa dello stesso medico nell’ambito della giurisdizione della Corte dei conti, in osservanza all’art. 103, comma 2, della Costituzione – inspiegabilmente abolita nella versione approvata dalla Camera e poi ripristinata dal Senato – in quanto la responsabilità amministrativa è di tipo contrattuale e non extracontrattuale, richiedendosi sempre un preesistente rapporto di impiego o di servizio, quest’ultimo in senso stretto o in senso lato, come nel caso del privato che svolga per la p.a. attività vincolate per il perseguimento di pubbliche finalità.
Riguardo alla misura della condanna a seguito dell’azione di responsabilità amministrativa, è previsto, ad esclusione dei casi di dolo, un limite, per singolo evento, pari all’importo della retribuzione lorda, moltiplicato per il triplo.
Da una ricerca effettuata sul numero dei giudizi dinanzi al giudice contabile, relativi a cause per danno indiretto, derivato a strutture sanitarie pubbliche dall’accoglimento di azioni risarcitorie, intraprese da soggetti terzi per errori dei medici, è emerso un dato anomalo che andrebbe approfondito.
Come si è detto, negli ultimi anni c’è stato un incremento esponenziale di giudizi dinanzi al giudice ordinario per “mala sanità” che si sono conclusi con la condanna risarcitoria a carico delle strutture pubbliche. Orbene, dai dati tratti dalle relazioni del Procuratore generale della Corte dei conti in occasione delle diverse inaugurazioni degli anni giudiziari, è emerso che sia il numero delle citazioni in giudizio, sia il numero delle sentenze, è stato molto contenuto.
Per la precisione, considerando un lasso di tempo quinquennale, dal 2011 al 2015, complessivamente le citazioni delle diverse Procure regionali sono state 130 e le sentenze delle Sezioni giurisdizionali sono state 95.
Tale dato fa sorgere il dubbio, da verificare, che le strutture sanitarie in buona parte non abbiano ottemperato all’obbligo di denunzia di danno erariale alle competenti Procure regionali, ferma restando l’estrema difficoltà per tali Uffici del Pubblico Ministero di svolgere il loro lavoro, per la carenza di uomini e mezzi, con incredibili vuoti di organico di tutto il personale ed in particolare di quello di magistratura, addirittura pari ad un terzo dell’organico di diritto, senza che sussistano prospettive a breve termine di porre rimedio a tale situazione aberrante, con effetti gravemente nocivi per la tutela del pubblico erario.
F)L’art. 10 prescrive, a carico delle strutture pubbliche e private, l’obbligo di copertura assicurativa o di altre analoghe misure per la responsabilità civile verso terzi e per la responsabilità civile verso prestatori d’opera, per danni cagionati dal personale operante presso le strutture stesse. L’obbligo di copertura assicurativa è pure previsto per l’esercente la professione sanitaria che svolga autonomamente la propria attività.
Sul punto fervono già accese discussioni, data la rilevanza, specie di carattere economico, del profilo assicurativo. Non è il caso di soffermarsi sulla problematica, particolarmente complessa, in attesa di conoscere la soluzione definitiva che verrà adottata.
Comunque può osservarsi sin da ora che il ricorso ad “altre analoghe misure” sembra svuotare di certezza la norma prescrivente l’obbligo assicurativo, con l’aggravante che negli ultimi anni un numero sempre crescente di strutture si è orientato verso l’abbandono delle coperture assicurative, anche per la lievitazione incontrollata delle polizze, conseguente ai picchi di crescita dei costi medi del sinistro. Vi è stato anche un incremento delle polizze soggette a elevata franchigia con la conseguenza di una significativa esposizione ai rischi da parte degli assicurati.
Infine è da sottolineare che il sistema è caratterizzato da notevoli asimmetrie: all’espansione degli obblighi assicurativi a carico di strutture e professionisti non è corrisposta alcuna concreta misura di garanzia nei confronti delle compagnie di assicurazione, che si vedranno aumentare in modo rilevante il giro d’affari. Anche in questo caso sono previsti decreti di attuazione, entro termini prestabiliti, che non si sa se vedranno mai la luce, come avvenuto per il decreto Balduzzi.
*Alla luce del disegno di legge n. 2224 “Disposizioni in materia di responsabilità professionale del personale sanitario” approvato dalla Camera ed in corso di esame al Senato.