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Analisi del recente schema di decreto legislativo riguardante la «Disciplina della dirigenza della Repubblica»

lenteAnalisi del recente schema di decreto legislativo riguardante la «Disciplina della dirigenza della Repubblica» in attuazione della legge delega n. 124/2015

di Antonio Vetro, Presidente On. della Corte dei conti

Prima di iniziare l’analisi dello schema del decreto legislativo in questione, è opportuno richiamare, per sommi capi, le considerazioni critiche svolte nell’articolo dello scrivente in data 5 giugno 2015, riguardante “La disciplina sugli incarichi dirigenziali nella p.a. alla luce degli insegnamenti della Corte costituzionale. Esame del disegno di legge A.S. n. 1577, approvato dal Senato il 30 aprile 2015” (poi legge n. 124/2015).

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Nell’articolo sono stati preliminarmente enucleati i principi fondamentali formulati dalla Consulta sui requisiti di costituzionalità da osservare nella disciplina sugli incarichi dirigenziali nella p.a, nell’ambito delle numerose decisioni, particolarmente significative, emesse in materia, ivi citate (sent. n.193/02, 103/07, 104/07, 161/08, 390/08, 304/10, 155/11, 310/11, 217/12, 81/13, 27/14, 37/15).

 

  1. Uno stretto legame fiduciario con il potere politico non consente ai dirigenti generali di svolgere in modo autonomo e imparziale la propria attività gestoria la quale, pur tenendo conto dell’indirizzo politico, è vincolata nell’azione al «servizio esclusivo della Nazione», ai sensi dell’art. 98 Cost.
  2. La chiara distinzione funzionale tra i compiti di indirizzo politico-amministrativo e quelli di gestione persegue la finalità di consentire al dirigente generale di espletare la propria attività in conformità ai principi di imparzialità e di buon andamento dell’azione amministrativa (art. 97 Cost.).
  3. Il legislatore, nell’identificare gli atti di indirizzo politico amministrativo e quelli a carattere gestionale, non può compiere scelte che, contrastando in modo irragionevole con il principio di separazione tra politica e amministrazione, ledano l’imparzialità della pubblica amministrazione.
  4. Un meccanismo (c.d. spoils system una tantum) di cessazione automatica, ex lege e generalizzata degli incarichi dirigenziali si pone in contrasto con gli artt. 97 e 98 della Costituzione: in particolare, con il principio di buon andamento, con i principi di efficienza e di efficacia, con il principio di imparzialità dell’azione amministrativa, con il principio del giusto procedimento.
  5. La revoca delle funzioni può essere determinata soltanto per accertata responsabilità dirigenziale in presenza di determinati presupposti e all’esito di un procedimento di garanzia che garantisca il diritto di difesa: in osservanza dei principi del giusto procedimento, dovrà essere adottato un atto motivato che consenta un controllo giurisdizionale delle ragioni del provvedimento emesso dall’organo politico.
  6. La facoltà del legislatore di introdurre deroghe al principio del pubblico concorso, previsto dall’art. 97 Cost., deve essere delimitata in modo rigoroso, potendo tali deroghe essere considerate legittime solo quando siano funzionali al buon andamento e ricorrano straordinarie esigenze di interesse pubblico idonee a giustificarle. Di conseguenza, il conferimento di incarichi dirigenziali nell’ambito della p.a. deve avvenire, in linea generale, previo esperimento di un pubblico concorso, necessario anche nei casi di nuovo inquadramento di dipendenti già in servizio o di passaggio ad una fascia funzionale superiore.

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Esaurita l’esposizione dei principi costituzionali da osservare in materia, è stato ricordato il rapporto per il 2014 sul coordinamento della finanza pubblica formulato dalla Corte dei conti, Sezioni riunite in sede di controllo, secondo cui “particolari criticità permangono nell’assetto ordinamentale della dirigenza pubblica amministrativa. A fronte di una sostenuta dinamica retributiva, non è mai entrato a regime un idoneo sistema di valutazione della capacità manageriale. La normativa sul reclutamento e sulla attribuzione degli incarichi, inoltre, non ha garantito … un’effettiva autonomia gestionale dei dirigenti nei confronti degli organi politici. Quanto sopra alla luce degli ampi margini di discrezionalità tutt’ora esistenti per la riconferma del dirigente o l’attribuzione di un incarico di livello superiore”.

Di conseguenza una profonda riforma dell’attuale assetto era senz’altro auspicabile, ma non certo secondo i criteri adottati nel disegno di legge A.S. n. 1577, nel quale le criticità denunziate erano destinate ad aumentare in modo esponenziale. Infatti, la finalità della riforma governativa era più che evidente: accentuare la precarietà dei dirigenti, estendere la discrezionalità sino ai limiti dell’arbitrio – tanto è vero che non era previsto neppure l’obbligo della motivazione per le scelte effettuate – del potere politico, di cui le “Commissioni” costituivano un’appendice, riversare ogni responsabilità gestoria sui dirigenti, fermo restando che l’eventuale, mancata acquiescenza al volere della politica poteva comportare per costoro la perdita dello status acquisito.

E’ stato, quindi, osservato che per tale disegno di legge l’insegnamento della Corte costituzionale era destinato a rimanere lettera morta: a nulla, infatti, rilevava il principio secondo cui “uno stretto legame fiduciario con il potere politico non consente ai dirigenti generali di svolgere in modo autonomo e imparziale la propria attività gestoria la quale, pur tenendo conto dell’indirizzo politico, è vincolata nell’azione al «servizio esclusivo della Nazione», ai sensi dell’art. 98 Cost.” (sentenza n. 103/2007).

Ancora, per i dirigenti privi di incarico, la previsione del collocamento in disponibilità e la decadenza dal ruolo unico, in sostanza, dell’automatico licenziamento, collideva totalmente con i principi affermati dalla Corte costituzionale secondo cui un meccanismo di cessazione automatica, ex lege e generalizzata degli incarichi dirigenziali si poneva in contrasto con gli artt. 97 e 98 della Costituzione: in particolare, con il principio di buon andamento, con i principi di efficienza e di efficacia, con il principio di imparzialità dell’azione amministrativa, con il principio del giusto procedimento.

Ma anche sotto il profilo della ragionevolezza il disegno di legge presentava vistose carenze. Così, non si comprendeva con quale logica potesse essere spostato arbitrariamente un dirigente da uno all’altro dei tre ruoli introdotti dalla riforma, sulla base dalla previsione della piena

 

mobilità, con la conseguenza, per fare un esempio, che un dirigente ministeriale, esperto nella disciplina delle Amministrazioni centrali, poteva essere destinato a dirigere un Comune, senza avere la minima cognizione delle complesse problematiche che riguardano gli enti locali, con intuibili effetti, sul buon andamento dell’azione amm.va, sui quali era superfluo soffermarsi.

Ancora, nella farraginosa normativa sull’accesso alla dirigenza si ravvisavano inutili complicazioni procedimentali come, ad esempio, la previsione di un esame, seguito da un ulteriore esame di conferma.

Non mancavano casi di assoluta mancanza di chiarezza, come quando si richiamava una oscura “mancata differenziazione delle valutazioni dei dirigenti e dei dipendenti quale criterio di valutazione”.

Inoltre, rimaneva da comprendere se la misteriosa formula della “esclusiva imputabilità ai dirigenti della responsabilità per l’attività gestionale”, oltre a mettere al riparo da qualsiasi responsabilità gestoria i politici – oltre tutto attualmente beneficiari dell’aberrante c.d. “esimente politica” prevista dall’art. 1, comma 1-ter, della legge n. 20/1994 – escludesse anche la responsabilità degli impiegati e funzionari che avevano curato direttamente la formazione degli atti amministrativi causativi di responsabilità, incrementando così inammissibili sacche di impunità, peraltro già presenti per i politici.

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Sulla stessa scia di assoluta mancanza di rispetto dei fondamentali ed inderogabili principi costituzionali indicati dalla Consulta, e persino di elementari canoni di logica e ragionevolezza, si è mosso il decreto delegato “Madia” in esame, il cui schema è stato oggetto di pesanti rilievi formulati da numerose Associazioni di categoria, fra le quali l’Associazione classi dirigenti delle p.a. e l’Associazione allievi SSPA.

Le condivisibili critiche formulate dalle Associazioni hanno riguardato, in particolare: a) l’assurda precarizzazione della dirigenza pubblica; b) la carenza di una effettiva valutazione delle capacità individuali, al punto che il dirigente valutato negativamente può ricevere altri incarichi, mentre il dirigente valutato positivamente può ritrovarsi senza incarico; c) il concreto rischio di un ampio contenzioso; d) il paradosso per cui al dirigente di ruolo potrebbe essere preferito l’estraneo, anche se nell’ambito della P.A. risulti disponibile una professionalità analoga; d) la gravissima criticità nella composizione delle Commissioni, inconciliabile con la “piena autonomia e indipendenza di giudizio e di valutazione”, per essere i suoi componenti: I) quasi esclusivamente nominati direttamente o indirettamente dal Governo, II) appartenenti a professionalità con competenze estranee a quelle relative alla dirigenza, III) già gravati da importantissimi incarichi istituzionali, con conseguente impossibilità di svolgere concretamente il proprio ruolo, che prevede una rilevante quantità di compiti da svolgere; e) l’imputazione di una sorta di responsabilità oggettiva a carico dei dirigenti, gravati in via esclusiva della responsabilità amministrativo-contabile; f) la mancata valorizzazione dell’accesso alla dirigenza tramite corso-concorso, ridotto a modalità di accesso di rango inferiore, tanto che, a differenza di quanto accade per le altre forme di reclutamento, i vincitori non vengono inizialmente inquadrati come dirigenti, ma come funzionari, con l’obbligo di superare un’ulteriore esame di verifica; g) la totale mancanza di nuove risorse finanziarie e organizzative, che non consentiranno alla Scuola Nazionale dell’Amministrazione (SNA) di svolgere le gravose funzioni assegnate dal decreto; h) l’ingiustificata soppressione della figura del Segretario comunale e provinciale e la sua incongrua trasformazione, malgrado l’opera meritoria svolta per decenni  presso gli enti locali a tutela della legalità.

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Estremamente critica è stata la valutazione espressa al riguardo dal Consiglio di Stato, nella Adunanza del 14 settembre 2016, tanto da sembrare di contenuto “umoristico” la conclusione che parla di “parere favorevole”, sia pure “con condizioni e osservazioni della Commissione speciale”, dopo che nell’Adunanza si è sottolineato che “la Costituzione impone che l’attività della pubblica amministrazione si conformi ai principi di imparzialità e buon andamento”; che “per consentire che cittadini, utenti e operatori economici possano ricevere prestazioni e servizi di elevato standard quantitativo e qualitativo è necessario che l’organizzazione degli uffici dirigenziali, che consentono lo svolgimento di quelle funzioni, siano strutturati in modo tale da assicurare il perseguimento di dette finalità”; che “è necessario che alla spinta innovativa corrisponda un complesso di regole puntuali e trasparenti in grado di circondare il rapporto dirigenziale di adeguate garanzie nelle fasi, di maggiore delicatezza nella costruzione della relazione tra politica e amministrazione, costituite dal momento iniziale di conferimento degli incarichi e da quello finale di cessazione del rapporto”.

 

In altri termini, il parere c.d. “favorevole” è caratterizzato da osservazioni talmente “trancianti”, per manifesta incostituzionalità, mancanza di trasparenza, incapacità organizzativa, che, se si consente per un attimo di passare dal serio al faceto, viene da pensare che “l’operazione è riuscita ma il paziente è deceduto”.

 

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Occorre adesso esaminare, anche alla luce delle osservazioni del C.d.S., sia pure in estrema sintesi, per motivi di brevità, le disposizioni del decreto legislativo che manifestano le più vistose lacune e incongruenze, in buona parte già stigmatizzate in sede di analisi del disegno di legge delega.

1) Il primo, fondamentale, aspetto da considerare riguarda l’effettiva sussistenza delle condizioni necessarie per tradurre in atto la farraginosa riforma sulla dirigenza. Sul punto, il Consiglio di Stato esprime riserve di tale gravità da consigliare un intervento radicale, non solo sul decreto delegato, ma addirittura sulla legge delega, prospettando “l’eventualità di effettuare interventi correttivi anche sulla fonte delegante, allo scopo di costruire una riforma efficace ed effettivamente rispondente agli obiettivi che lo stesso governo si è posto”. In particolare è stato osservato come la riforma non abbia concrete ed effettive possibilità di tradursi in atto senza alcun incremento di spesa, secondo le utopistiche previsioni della compagine governativa, tanto da concludersi nel senso che, in tale ipotesi, “appare poco realistico assicurare il funzionamento concreto di molti meccanismi previsti dalla riforma”.

2) Come già ricordato, dall’esame della legge delega era emerso che, malgrado i ripetuti riferimenti ai canoni dell’efficienza, dell’efficacia, dell’imparzialità, del buon andamento, della “meritocrazia”, la finalità della riforma governativa era più che evidente: accentuare la precarietà dei dirigenti, estendere la discrezionalità sino ai limiti dell’arbitrio del potere politico, di cui le “Commissioni” costituiscono un’appendice, riversare ogni responsabilità gestoria sui dirigenti, fermo restando che l’eventuale, mancata acquiescenza al volere della politica può comportare per costoro la perdita dello status acquisito.

Il decreto delegato ha dato ancor più pregnante applicazione a tale, aberrante, concezione di totale “asservimento” dell’amministrazione alla politica, in manifesto contrasto con fondamentali principi costituzionali ripetutamente affermati dalla Consulta.

Il C.d.S. in proposito – premesso che i principi costituzionali di imparzialità, buon andamento e responsabilità politica, sono da attuare attraverso a) procedure e criteri di scelta del dirigente oggettivi e trasparenti; b) durata ragionevole dell’incarico evitando una eccessiva precarizzazione; c) modalità di cessazione degli incarichi solo per la scadenza del termine ovvero per il rigoroso accertamento della responsabilità dirigenziale; d) presenza di un organismo di garanzia; e) un sistema efficace di valutazione – ha rilevato che occorre assicurare l’effettivo funzionamento delle suddette previsioni: “L’esistenza di tali condizioni e gli sviluppi applicativi di tipo finanziario e operativo rappresentano, quindi, presupposti essenziali per la riforma”.

In particolare, un compiuto sistema di valutazione, parte essenziale del sistema, difetta totalmente, in quanto rinviato a data da destinarsi, nell’ambito di un futuro (ed incerto) “riordino generale della disciplina del personale pubblico”. Manca un meccanismo che garantisca l’idonea predeterminazione degli obbiettivi, che i dirigenti dovranno attuare, da parte degli organi di indirizzo politico, condizione necessaria per una corretta valutazione dell’attività dirigenziale in ordine ai risultati da perseguire. Oltre tutto è chiaramente privo di elementare logica e razionalità un sistema basato su un ruolo unico che demanda, in assenza di criteri predeterminati, tale valutazione alle singole amministrazioni, che possono quindi giudicare le capacità operative dei dirigenti in modo diverso ed, al limite, addirittura opposto. Infatti, ai sensi del III comma dell’art. 19 ter è l’amministrazione interessata, al fine del conferimento di ciascun incarico, che “procede alla definizione dei criteri di scelta” della dirigenza, sia pure “nell’ambito dei criteri generali definiti dalle Commissioni”, criteri quest’ultimi caratterizzati da notevole evanescenza (valutazione delle attitudini e delle capacità professionali, dei risultati conseguiti, delle specifiche competenze organizzative, ecc.). La previsione di criteri oggettivi e stringenti, condizione necessaria per garantire la scelta di dirigenti imparziali e competenti è quindi totalmente assente.

3) Riguardo all’istituzione del ruolo dei dirigenti regionali è da osservare che, per rispettare le prerogative delle Regioni in materia di organizzazione, alla luce della giurisprudenza costituzionale, è necessario che, in sede di Conferenza permanente per i rapporti tra Stato, Regioni e Province autonome, vengano previste modalità di cooperazione di intensità ben maggiore, rispetto a quelle previste nel decreto, al fine di pervenire ad un risultato caratterizzato da una forte intesa.

4) L’art. 28, introdotto dall’art. 3 dello schema di decreto, disciplina le modalità di accesso alla dirigenza, prescrivendo che la qualifica dirigenziale può essere conseguita per corso-concorso e per concorso, ma il rapporto fra i due percorsi non è affatto chiaro, tanto è vero che è arduo comprendere in base a quali criteri debba essere orientata la scelta tra le due modalità di reclutamento. Ancora, in materia si fa riferimento ad un “giudizio del Dipartimento della funzione pubblica”, basato su presupposti dal contenuto misterioso come quelli relativi a, non meglio specificate, “esigenze non coperte dalla programmazione triennale”.

5) Nello schema di decreto delegato è prevista la possibilità, non contenuta nella legge delega, che ai vincitori del corso-concorso che ottengano una valutazione positiva di merito sul servizio prestato sia attribuibile un incarico dirigenziale senza l’espletamento della procedura comparativa. Tale disposizione risulta sia in violazione dei criteri della legge delega, sia in contrasto con l’art. 97 della Costituzione, in carenza di regole obiettive di garanzia sul rispetto di criteri selettivi nell’ambito di una procedura di comparazione fra diversi aspiranti al conferimento dell’incarico.

6) Criticità particolarmente rilevanti si ravvisano riguardo alla costituzione ed al funzionamento delle Commissioni per la dirigenza, chiamate a svolgere compiti di estrema importanza in tutte le fasi del rapporto di ufficio dei dirigenti, a partire dalla sua costituzione e sino alla cessazione dell’incarico: A) Riguardo alla costituzione, per il contrasto con i criteri direttivi della delega, la quale prevede che i componenti delle Commissioni debbano essere “selezionati con procedure trasparenti” e “con modalità tali da assicurarne l’indipendenza”, mentre lo schema di decreto delegato ha disposto l’indicazione diretta di cinque su sette componenti stabili delle Commissioni e non si è neppure premurato di indicare il soggetto competente ad effettuare la scelta degli ultimi due. Oltre tutto, possono avanzarsi i più seri dubbi sulla indipendenza dal potere politico dei componenti stabili, come nel caso del Segretario generale e del Capo dipartimento di Ministero, la cui nomina a tali cariche “intuitu personae” è effettuata a prescindere dalla previa procedura di selezione comparativa con avviso pubblico. B) Riguardo al funzionamento, le criticità si ravvisano per il fatto che i componenti stabili, individuati nelle seguenti figure: “il Presidente dell’Autorità nazionale anti-corruzione, il Ragioniere generale dello Stato, il Segretario generale del Ministero degli affari esteri e della cooperazione internazionale e il Capo Dipartimento per gli affari interni e territoriali del Ministero dell’interno, il Presidente della Conferenza dei rettori delle università italiane”, risultano già gravati da impegni che ne assorbono integralmente le capacità lavorative, per cui non si vede come possano anche svolgere ulteriori, gravose funzioni che richiederebbero un impegno in via esclusiva a tempo pieno.

7) Nella disciplina vigente gli incarichi esterni sono attribuibili, in via residuale, da ciascuna amministrazione, entro ristretti limiti rispetto alla dotazione organica dei dirigenti, «a persone di particolare e comprovata qualificazione professionale non rinvenibile nei ruoli dell’amministrazione», condizione, quest’ultima, richiesta con particolare rigore nella giurisprudenza della Corte dei conti in sede di giudizi di responsabilità amministrativo-contabile. Nello schema di decreto, invece, viene prevista la possibilità di avvalersi di aliquote di dirigenti assunti all’esterno della pubblica amministrazione, qualora risultino «incarichi dirigenziali non assegnati», facendo così intendere, come d’altronde ammesso “apertis verbis” nella Relazione illustrativa allo schema di decreto, che non sia più necessaria la previa ricerca all’interno delle Amm.ni di dirigenti in servizio in grado di espletare quelle determinate funzioni da assegnare a professionisti. Pur rimanendo fermo il limite percentuale, viene così ampliata a dismisura la possibilità di nominare dirigenti all’esterno, al di fuori di qualsiasi garanzia di trasparenza e di imparzialità, connesse alle procedure concorsuali, dando libero accesso alle più deprecabili misure di favoritismo clientelare, linfa vitale del sottogoverno. La possibilità che la diffusione incontrollata di incarichi professionali porti a tali aberranti risultati è anche prospettata dalla Consulta, nella sentenza n. 252/2009. Inoltre si assisterebbe ad una irrazionale, irragionevole ed ingiustificata spendita di denaro pubblico, che si potrebbe utilizzare per finalità ben più degne, ed inoltre valorizzando le professionalità già esistenti e mortificate dall’abuso in questione.

8) Altra incongruenza è rappresentata dal mantenimento in vigore, nello schema di decreto, dell’art. 110 del d.lgl. 18 agosto 2000, n. 267, che prevede la possibilità, negli enti locali, di conferire incarichi dirigenziali con contratti a tempo determinato, con il risultato di una indebita commistione di norme inconciliabili, in quanto, in un sistema caratterizzato dal principio del ruolo unico anche per i dirigenti locali, viene mantenuta una norma, all’opposto, basata sui ruoli delle singole amministrazioni.

9) L’art. 19-quinquies disciplina la durata degli incarichi (quattro anni) e consente la possibilità di una proroga una sola volta per la durata di due anni, omettendo però di prescrivere l’obbligo di motivazione qualora venga assunta la decisione di non procedere al rinnovo dell’incarico, trascurando così la previsione di adeguate garanzie al dirigente che chiede il rinnovo, privato della facoltà di esporre le proprie considerazioni sull’attività svolta di cui l’amministrazione dovrebbe tener conto, secondo i principi affermati dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 103/2007.

10) Riguardo alla dirigenza degli enti locali, tali e tante sono le vistose incongruenze contenute nello schema di decreto che le esigenze di brevità non consentono di illustrarle nel dettaglio. Basta ricordare, in generale, che il frazionamento delle originarie funzioni dei segretari comunali e provinciali tra direttore generale e dirigente apicale costituisce un serio pericolo di malfunzionamento nella organizzazione amministrativa dell’ente e fonte di inefficienza ed inefficacia dell’azione amministrativa. Come ulteriore esempio di manifesta assurdità è sufficiente ricordare la disposizione la quale prevede che “nel ruolo dei dirigenti locali confluiscono i segretari comunali e provinciali … vengono assunti dalle amministrazioni che conferiscono loro incarichi dirigenziali, nei limiti delle dotazioni organiche”, senza tener conto che le dotazioni organiche degli enti locali non contemplano affatto le figure dei segretari comunali e provinciali, al contrario in forza presso il Ministero dell’Interno.

Appare superfluo ogni ulteriore commento sullo schema di decreto in esame.

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Appena ultimata la stesura del presente articolo, è stata pubblicata ieri, 25 novembre 2016, la sentenza della Corte costituzionale n. 251/2016 che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale di numerose norme della legge delega esaminata n. 124/2015.

Lo scrutinio di illegittimità ha riguardato, in particolare, le seguenti disposizioni:

Art. 11, comma 1, lettere a), b), numero 2), c), numeri 1) e 2), e), f), g), h), i), l), m), n), o), p) e q), e comma 2; art. 17, comma 1, lettere a), b), c), d), e), f), l), m), o), q), r), s) e t), in combinato disposto con l’art. 16, commi 1 e 4; art. 18, lettere a), b), c), e), i), l) e m), numeri da 1) a 7), in combinato disposto con l’art. 16, commi 1 e 4; art. 19, lettere b), c), d), g), h), l), m), n), o), p), s), t) e u), in combinato disposto con l’art. 16, commi 1 e 4, della medesima legge n. 124 del 2015, nelle parti in cui tali disposizioni prevedono che il Governo adotti i relativi decreti legislativi attuativi previo parere, anziché previa intesa con le Regioni, in sede di Conferenza unificata;

La Consulta ha svolto alcune considerazioni generali, osservando che l’intervento del legislatore delegante di incidere sulla «riorganizzazione delle amministrazioni pubbliche» rientra nel novero di quelli volti a disciplinare, in maniera unitaria, fenomeni sociali complessi, rispetto ai quali si delinea una fitta trama di relazioni, nella quale ben difficilmente sarà possibile isolare un singolo interesse.

La valutazione circa la prevalenza di una materia su tutte le altre può rivelarsi impossibile e avallare l’ipotesi di concorrenza di competenze, che apre la strada all’applicazione del principio di leale collaborazione. In ossequio a tale principio il legislatore statale deve predisporre adeguati strumenti di coinvolgimento delle Regioni, a difesa delle loro competenze.

La Corte ha ravvisato nell’intesa la soluzione che meglio incarna la leale collaborazione ed ha individuato nel sistema delle conferenze il principale strumento che consente alle Regioni di avere un ruolo nella determinazione del contenuto di taluni atti legislativi statali che incidono su materie di competenza regionale, mentre non si prefigura una «drastica previsione, in caso di mancata intesa, della decisività della volontà di una sola delle parti, la quale riduce all’espressione di un parere il ruolo dell’altra» (sentenza n. 24 del 2007).

Le disposizioni impugnate incidono in parte in ambiti riconducibili alla competenza dello Stato e tuttavia, mettono in gioco, in misura rilevante, anche la competenza regionale residuale in materia di organizzazione amministrativa delle Regioni e degli enti pubblici regionali: di conseguenza si richiedeva l’applicazione del principio di leale collaborazione, che non è stato osservato, con conseguente declaratoria di illegittimità costituzionale.

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